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di Monica Centofante
- da AntimafiaDuemila N°60


Marcello Dell’Utri, Clemente Mastella e Mario Tassone spuntano nelle conversazioni in codice tra i boss Piromalli. Sullo sfondo di una nuova guerra di mafia

La crisi era un lusso che proprio non potevano permettersi. Non ora che a Gioia Tauro si erano rotti gli antichi equilibri e che sull’affare più lucroso, quello del Porto, gravavano anche le mire delle ‘ndrine della vicina Rosarno.
Per questo avevano stabilito che la prima mossa da fare era quella di alleggerire la posizione carceraria del capo, detenuto al 41bis, e rendere più fluido il flusso di rapporti che avrebbe permesso ai sodali di fruire liberamente della sua illuminata guida e delle sue lucide direttive.
Adesso che la loro storica alleanza con i Molè aveva ceduto il passo alla guerra di mafia, i Piromalli - tra le più potenti famiglie nella storia della ‘Ndrangheta, da sempre collegata con Cosa Nostra – erano del tutto intenzionati a non retrocedere minimamente dalla propria posizione di leadership: sia per il controllo del territorio che, soprattutto, per quello degli affari. E a tal fine avevano attivato quei numerosi contatti con il mondo politico e istituzionale che nel corso del tempo, sotto la guida pluridecennale del superboss Giuseppe Piromalli avevano contribuito a permetterle il passaggio da ‘ndrina agropastorale a vera holding del crimine. Quei contatti che oggi, almeno per i fatti in oggetto, sembrerebbero rispondere, tra gli altri, ai nomi di Marcello Dell’Utri, Clemente Mastella e Mario Tassone, nell’ordine senatore, ex ministro della Giustizia, ex vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia.
Le conclusioni a cui sono giunti il sostituto alla Pna Roberto Pennisi e i pm di Reggio Calabria Salvatore Boemi, Michele Prestipino, Roberto Di Palma, Maria Luisa Miranda nelle oltre mille pagine di provvedimento di fermo sfociate nel blitz dello scorso 22 luglio, tracciano un quadro tutto nuovo degli equilibri mafiosi sulla Piana. Dove a farne le spese sono proprio i Molè, troppo violenti e poco “moderni” nella gestione del potere e per questo già falcidiati dalle indagini, dai processi e dalle relative condanne che avevano neutralizzato l’intero vertice del nucleo risparmiando soltanto Rocco Molè, l’unico dei fratelli a sfuggire all’ergastolo. Salvo poi finire vittima di un agguato mafioso il 1° febbraio del 2008, seguito, a poco meno di tre mesi di distanza, dall’imprenditore Antonino Princi, legato alla stessa cosca.
Sullo sfondo, la nuova alleanza dei Piromalli con gli Alvaro di San Procopio. Nata intorno agli stessi affari del Porto, ormai  il più grande terminal del Mediterraneo per il transhipment dei container da grandi navi transoceaniche a piccole navi per la distribuzione al dettaglio. E passato dagli oltre due milioni di container movimentati nel 1998 agli oltre tre milioni attuali con tanto di prestigioso riconoscimento della classificazione tra i porti di rilevanza internazionale.
Che è questo, “con le ingenti risorse finanziarie statali e comunitarie impiegate per il suo sviluppo economico” a costituire da tempo il più grande affare per le ‘ndrine insediate sul territorio lo ha scritto la Commissione parlamentare antimafia nella relazione trasmessa alle presidenze delle Camere il 20 febbraio scorso. E a confermarlo, tra le altre cose, un’intercettazione tra due dei personaggi chiave della presente inchiesta, entrambi indagati per associazione mafiosa. Ergo: Aldo Miccichè, faccendiere, già dirigente della Democrazia Cristiana, originario di Marapoti ma rifugiato da anni in Venezuela (dopo una condanna a 25 anni di reclusione) e Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli, figlio del superboss ristretto al 41bis Giuseppe Piromalli e suo sostituito alla guida della cosca.
E’ il 2 dicembre del 2007 quando Arcidiaco chiama il Miccichè per chiedergli delucidazioni in merito ad un importante incontro al quale di lì a poco avrebbe partecipato. “Voglio capire in che termini mi devo proporre”, domanda all’ex uomo politico della Dc, che prontamente risponde: “La Piana ... la Piana è cosa nostra facci capisciri ... il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi, insomma! Hai capito o no? Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi”. Poi, per spiegarsi meglio, aggiunge: “Ricordati che la politica si deve saper fare ... ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro ha bisogno di noi ... hai capito il discorso?”
Successive intercettazioni avrebbero poi dimostrato che quell’incontro era realmente avvenuto e che l’interlocutore dell’Arcidiaco era il senatore Marcello Dell’Utri. Al quale i boss, in cambio di favori politici, avrebbero rivolto alcune richieste: prima fra tutte quella di preservare l’immunità di Antonio Piromalli, che dopo l’arresto del padre era l’unico a poter guidare la ‘ndrina, pur sotto la direzione dello stesso Giuseppe Piromalli che impartiva disposizioni dal carcere. Una strada che seguiva parallela a quella già imboccata nel tentativo di liberare definitivamente lo stesso Giuseppe dal regime del 41bis.
Ed è in un successivo passaggio della conversazione intercettata e sempre in riferimento ai favori da assicurare a Dell’Utri, che Arcidiaco sorprendentemente allarga i confini della disponibilità da offrire all’onorevole e a Miccichè dichiara: “Ho avuto autorizzazione di dire che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”.

Un patto Cosa Nostra – ‘Ndrangheta?

Nei primi mesi del 2008, all’interno della Casa circondariale di Tolmezzo, dove è rinchiuso, il boss Giuseppe Piromalli sfrutta l’ora di socialità per riunirsi e discutere di affari e strategie con altri boss detenuti come lui con i rigori del carcere duro. Tra questi, capi siciliani di Cosa Nostra della portata di Antonino Cinà con i quali si confronta, scrivono i magistrati nel decreto di fermo, in merito allo “speciale regime detentivo di cui all’art. 41bis contro la cui applicazione le organizzazioni mafiose calabrese e siciliana cercano di fare fronte comune attraverso l’elaborazione di una strategia unitaria”. L’episodio, che si riallaccia alle parole pronunciate dall’Arcidiaco, sembrerebbe rivelare l’esistenza di un patto tra Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta. E in questa chiave potrebbero essere letti i contatti privilegiati dei Piromalli con i Santapaola di Catania e soprattutto il recente incontro tra Gioacchino Piromalli, cugino dell’attuale indagato Antonio, e soggetti appartenenti al mandamento di Brancaccio.
Rapporti ancora tutti da vagliare ai quali nello scorso mese di aprile alcuni organi di stampa, a seguito di pericolose indiscrezioni, avevano dato ampio risalto suscitando le ire del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso (vedi articolo “Offensiva Reggio” in ANTIMAFIADuemila n. 58) e le conseguenti reazioni dei boss. Tutto il gruppo dei siciliani, in particolare, ricordano i giudici, “chiedeva di parlare con l’Autorità Giudiziaria di Palermo per chiarire a loro modo il contenuto delle dichiarazioni captate” all’interno del carcere di Tolmezzo. Mentre Giuseppe Piromalli, durante il primo colloquio con i familiari seguito agli accadimenti, si dilungava in precisazioni di comodo sull’argomento e dimostrava la piena consapevolezza che quel discorso era registrato dagli inquirenti.
“...che lo sappia la Distrettuale ... di Reggio Calabria che lo sappia il Ministero ... perché a me il 41 ... mi sta bene”, sono le parole del boss, che ai familiari spiegava: “quando vogliono distruggere qualcuno ... lo Stato ... i Servizi ... sanno come fare...”. Poi, rivolto al figlio, riprendeva ad impartire direttive con quelle mezze parole e quel linguaggio criptico che caratterizzava la maggior parte dei colloqui tra i due uomini d’onore e che dimostra, ancora una volta, come quel regime carcerario non impedisca in realtà ai boss di comunicare tra loro. Sia all’interno del carcere, come i fatti dimostrano, che verso l’esterno. Né di “spezzare definitivamente il potere di controllo dei capi famiglia sugli interessi della ‘ndrina”. Tanto che, lo specifica ancora il documento, “è Giuseppe Piromalli il vero capo della cosca”, sì che il figlio Antonio “per ottenere risposte positive alle sue richieste” deve presentarsi a suo nome.
Ed è proprio l’Antonio a soffrire particolarmente “la difficoltà di mantenere rapporti stabili ed utili” con il padre “a causa della pesantezza del regime carcerario cui era sottoposto”. E soprattutto in quel periodo storico in cui in Gioia Tauro, turbati gli equilibri interni, si avvicendavano attentati e danneggiamenti ad esercizi pubblici, sintomatici dell’approssimarsi di quella crisi che la cosca non si poteva consentire.
E’ in questo precario contesto mafioso che si intensificano i rapporti tra Antonio Piromalli, Gioacchino Arcidiaco e Aldo Miccichè, intorno ai quali ruotano tutta una serie di contatti con personaggi istituzionali o paraistituzionali avvicinati, in primo luogo, per risolvere proprio la posizione di Giuseppe Piromalli.
Perno di quei contatti, lo stesso Miccichè, che ai suoi due “pupilli”, dal lontano Venezuela, mette a disposizione notevoli agganci e preziosi consigli. Primo fra tutti: utilizzare per le proprie conversazioni telefoniche soltanto numeri riservati, intestati a soggetti “puliti” e, in casi estremi, parlare sì, ma facendo ricorso a linguaggi in codice.

Il ministro ha le mani legate
E’ il 4 ottobre del 2007 quando nel corso di una conversazione intercettata con Antonio Piromalli, Aldo Miccichè accenna per la prima volta, utilizzando proprio quel linguaggio criptico, a Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia, la persona a cui fa capo il meccanismo dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario.
“Stamattina – dice – ho avuto un colloquio con quella persona per motivi particolari connessi al senatore Colombo (Emilio Colombo ndr.) che è mio compare”. E “siccome è stato un colloquio lungo sono riuscito ad accennargli”. “Lui”, prosegue, “l’intervento lo aveva già fatto”, “però - si sente in altra intercettazione - dice che in questo momento sta succedendo un casino della madonna per i provvedimenti particolari”... “è un momento delicato... comunque vediamo se passa sta bufera e loro come avevano promesso a dicembre dovrebbero cercare di fare qualcosa”.
Nel prosieguo della conversazione il faccendiere accenna quindi a una serie di disposizioni che tale misterioso personaggio avrebbe dato a Francesco Borgomeo e alla Segretaria, facendo poi il nome di Adriana Zerbetto e Antonella Appulo. In altre parole: il capo della segreteria del ministro della Giustizia, la segretaria particolare e un esponente del movimento giovanile del partito dell’Udeur, al cui vertice sedeva proprio Clemente Mastella.
E’ così che gli investigatori identificano la persona oggetto dei discorsi tra i due indagati proprio nel Mastella l’unico, sottolineano, che avrebbe potuto “dare disposizioni al Capo della segreteria del Ministro e alla sua Segretaria particolare”.
Una considerazione logica che avrebbe trovato riscontro anche in una successiva telefonata fatta dallo stesso onorevole al Miccichè, dopo che quest’ultimo avrebbe tentato invano di contattare il politico. “Anche se va detto”, scrivono sul punto i magistrati, “che la conversazione non affrontava alcun tema specifico e anzi il Mastella si affrettava ad interromperla dopo aver compreso l’identità del suo interlocutore che gli parlava di possibili appoggi elettorali”.
Ma perché il ministro interrompeva quella comunicazione?
La domanda è lecita e la risposta potrebbe nascondersi nei successivi dialoghi tra Miccichè e Piromalli, dove, ancora una volta, è il primo a dichiarare: “Allora sto cazzo di Ministro... questo povero disgraziato non sa come muoversi, non sa se è un ministro, non sa se lo sentono, non sa se sta dentro o se sta fuori, è ricattato in qualsiasi momento”.
E’ il novembre del 2007 e Mastella risulta iscritto nel registro degli indagati dell’inchiesta catanzarese Why Not (in quel periodo appena avocata al pm De Magistris), per questo consapevole che le sue telefonate potrebbero essere intercettate.
Miccichè, sempre rivolto ad Antonio Piromalli, continua: “...ha paura a parlare per telefono... ha paura se devono mandargli una mail... cambiano un fax al giorno...”. E in un successivo passaggio: “Basta il fatto di Catanzaro per vedere come è messo questo disgraziato... se gli controllano anche il cellulare che cosa vuoi di più... e io lo ho il cellulare... gli controllano il cellulare gli controllano il computer gli controllano i fax... come si comunica con sta gente ora”?.
Piromalli interviene: “Sì ma tanto più di la non possono andare” e Miccichè risponde: “Sì ma questo è un discorso che va bene a noi... ma non va bene a loro.. non si sa se resta questo Governo se non resta questo Governo se lui resta Ministro se lui non resta Ministro”, “che cazzo succede in questo centro Sinistra... sti cazzo di comunisti che stanno rompendo i coglioni a tutti i livelli possibili e immaginabili alla gente che lavora... alla gente che è nostra... chiaro o no?”.

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