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di Monica Centofante
- da AntimafiaDuemila N°60


Marcello Dell’Utri, Clemente Mastella e Mario Tassone spuntano nelle conversazioni in codice tra i boss Piromalli. Sullo sfondo di una nuova guerra di mafia

La crisi era un lusso che proprio non potevano permettersi. Non ora che a Gioia Tauro si erano rotti gli antichi equilibri e che sull’affare più lucroso, quello del Porto, gravavano anche le mire delle ‘ndrine della vicina Rosarno.
Per questo avevano stabilito che la prima mossa da fare era quella di alleggerire la posizione carceraria del capo, detenuto al 41bis, e rendere più fluido il flusso di rapporti che avrebbe permesso ai sodali di fruire liberamente della sua illuminata guida e delle sue lucide direttive.
Adesso che la loro storica alleanza con i Molè aveva ceduto il passo alla guerra di mafia, i Piromalli - tra le più potenti famiglie nella storia della ‘Ndrangheta, da sempre collegata con Cosa Nostra – erano del tutto intenzionati a non retrocedere minimamente dalla propria posizione di leadership: sia per il controllo del territorio che, soprattutto, per quello degli affari. E a tal fine avevano attivato quei numerosi contatti con il mondo politico e istituzionale che nel corso del tempo, sotto la guida pluridecennale del superboss Giuseppe Piromalli avevano contribuito a permetterle il passaggio da ‘ndrina agropastorale a vera holding del crimine. Quei contatti che oggi, almeno per i fatti in oggetto, sembrerebbero rispondere, tra gli altri, ai nomi di Marcello Dell’Utri, Clemente Mastella e Mario Tassone, nell’ordine senatore, ex ministro della Giustizia, ex vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia.
Le conclusioni a cui sono giunti il sostituto alla Pna Roberto Pennisi e i pm di Reggio Calabria Salvatore Boemi, Michele Prestipino, Roberto Di Palma, Maria Luisa Miranda nelle oltre mille pagine di provvedimento di fermo sfociate nel blitz dello scorso 22 luglio, tracciano un quadro tutto nuovo degli equilibri mafiosi sulla Piana. Dove a farne le spese sono proprio i Molè, troppo violenti e poco “moderni” nella gestione del potere e per questo già falcidiati dalle indagini, dai processi e dalle relative condanne che avevano neutralizzato l’intero vertice del nucleo risparmiando soltanto Rocco Molè, l’unico dei fratelli a sfuggire all’ergastolo. Salvo poi finire vittima di un agguato mafioso il 1° febbraio del 2008, seguito, a poco meno di tre mesi di distanza, dall’imprenditore Antonino Princi, legato alla stessa cosca.
Sullo sfondo, la nuova alleanza dei Piromalli con gli Alvaro di San Procopio. Nata intorno agli stessi affari del Porto, ormai  il più grande terminal del Mediterraneo per il transhipment dei container da grandi navi transoceaniche a piccole navi per la distribuzione al dettaglio. E passato dagli oltre due milioni di container movimentati nel 1998 agli oltre tre milioni attuali con tanto di prestigioso riconoscimento della classificazione tra i porti di rilevanza internazionale.
Che è questo, “con le ingenti risorse finanziarie statali e comunitarie impiegate per il suo sviluppo economico” a costituire da tempo il più grande affare per le ‘ndrine insediate sul territorio lo ha scritto la Commissione parlamentare antimafia nella relazione trasmessa alle presidenze delle Camere il 20 febbraio scorso. E a confermarlo, tra le altre cose, un’intercettazione tra due dei personaggi chiave della presente inchiesta, entrambi indagati per associazione mafiosa. Ergo: Aldo Miccichè, faccendiere, già dirigente della Democrazia Cristiana, originario di Marapoti ma rifugiato da anni in Venezuela (dopo una condanna a 25 anni di reclusione) e Gioacchino Arcidiaco, cugino di Antonio Piromalli, figlio del superboss ristretto al 41bis Giuseppe Piromalli e suo sostituito alla guida della cosca.
E’ il 2 dicembre del 2007 quando Arcidiaco chiama il Miccichè per chiedergli delucidazioni in merito ad un importante incontro al quale di lì a poco avrebbe partecipato. “Voglio capire in che termini mi devo proporre”, domanda all’ex uomo politico della Dc, che prontamente risponde: “La Piana ... la Piana è cosa nostra facci capisciri ... il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi, insomma! Hai capito o no? Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi”. Poi, per spiegarsi meglio, aggiunge: “Ricordati che la politica si deve saper fare ... ora fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro ha bisogno di noi ... hai capito il discorso?”
Successive intercettazioni avrebbero poi dimostrato che quell’incontro era realmente avvenuto e che l’interlocutore dell’Arcidiaco era il senatore Marcello Dell’Utri. Al quale i boss, in cambio di favori politici, avrebbero rivolto alcune richieste: prima fra tutte quella di preservare l’immunità di Antonio Piromalli, che dopo l’arresto del padre era l’unico a poter guidare la ‘ndrina, pur sotto la direzione dello stesso Giuseppe Piromalli che impartiva disposizioni dal carcere. Una strada che seguiva parallela a quella già imboccata nel tentativo di liberare definitivamente lo stesso Giuseppe dal regime del 41bis.
Ed è in un successivo passaggio della conversazione intercettata e sempre in riferimento ai favori da assicurare a Dell’Utri, che Arcidiaco sorprendentemente allarga i confini della disponibilità da offrire all’onorevole e a Miccichè dichiara: “Ho avuto autorizzazione di dire che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”.

Un patto Cosa Nostra – ‘Ndrangheta?

Nei primi mesi del 2008, all’interno della Casa circondariale di Tolmezzo, dove è rinchiuso, il boss Giuseppe Piromalli sfrutta l’ora di socialità per riunirsi e discutere di affari e strategie con altri boss detenuti come lui con i rigori del carcere duro. Tra questi, capi siciliani di Cosa Nostra della portata di Antonino Cinà con i quali si confronta, scrivono i magistrati nel decreto di fermo, in merito allo “speciale regime detentivo di cui all’art. 41bis contro la cui applicazione le organizzazioni mafiose calabrese e siciliana cercano di fare fronte comune attraverso l’elaborazione di una strategia unitaria”. L’episodio, che si riallaccia alle parole pronunciate dall’Arcidiaco, sembrerebbe rivelare l’esistenza di un patto tra Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta. E in questa chiave potrebbero essere letti i contatti privilegiati dei Piromalli con i Santapaola di Catania e soprattutto il recente incontro tra Gioacchino Piromalli, cugino dell’attuale indagato Antonio, e soggetti appartenenti al mandamento di Brancaccio.
Rapporti ancora tutti da vagliare ai quali nello scorso mese di aprile alcuni organi di stampa, a seguito di pericolose indiscrezioni, avevano dato ampio risalto suscitando le ire del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso (vedi articolo “Offensiva Reggio” in ANTIMAFIADuemila n. 58) e le conseguenti reazioni dei boss. Tutto il gruppo dei siciliani, in particolare, ricordano i giudici, “chiedeva di parlare con l’Autorità Giudiziaria di Palermo per chiarire a loro modo il contenuto delle dichiarazioni captate” all’interno del carcere di Tolmezzo. Mentre Giuseppe Piromalli, durante il primo colloquio con i familiari seguito agli accadimenti, si dilungava in precisazioni di comodo sull’argomento e dimostrava la piena consapevolezza che quel discorso era registrato dagli inquirenti.
“...che lo sappia la Distrettuale ... di Reggio Calabria che lo sappia il Ministero ... perché a me il 41 ... mi sta bene”, sono le parole del boss, che ai familiari spiegava: “quando vogliono distruggere qualcuno ... lo Stato ... i Servizi ... sanno come fare...”. Poi, rivolto al figlio, riprendeva ad impartire direttive con quelle mezze parole e quel linguaggio criptico che caratterizzava la maggior parte dei colloqui tra i due uomini d’onore e che dimostra, ancora una volta, come quel regime carcerario non impedisca in realtà ai boss di comunicare tra loro. Sia all’interno del carcere, come i fatti dimostrano, che verso l’esterno. Né di “spezzare definitivamente il potere di controllo dei capi famiglia sugli interessi della ‘ndrina”. Tanto che, lo specifica ancora il documento, “è Giuseppe Piromalli il vero capo della cosca”, sì che il figlio Antonio “per ottenere risposte positive alle sue richieste” deve presentarsi a suo nome.
Ed è proprio l’Antonio a soffrire particolarmente “la difficoltà di mantenere rapporti stabili ed utili” con il padre “a causa della pesantezza del regime carcerario cui era sottoposto”. E soprattutto in quel periodo storico in cui in Gioia Tauro, turbati gli equilibri interni, si avvicendavano attentati e danneggiamenti ad esercizi pubblici, sintomatici dell’approssimarsi di quella crisi che la cosca non si poteva consentire.
E’ in questo precario contesto mafioso che si intensificano i rapporti tra Antonio Piromalli, Gioacchino Arcidiaco e Aldo Miccichè, intorno ai quali ruotano tutta una serie di contatti con personaggi istituzionali o paraistituzionali avvicinati, in primo luogo, per risolvere proprio la posizione di Giuseppe Piromalli.
Perno di quei contatti, lo stesso Miccichè, che ai suoi due “pupilli”, dal lontano Venezuela, mette a disposizione notevoli agganci e preziosi consigli. Primo fra tutti: utilizzare per le proprie conversazioni telefoniche soltanto numeri riservati, intestati a soggetti “puliti” e, in casi estremi, parlare sì, ma facendo ricorso a linguaggi in codice.

Il ministro ha le mani legate
E’ il 4 ottobre del 2007 quando nel corso di una conversazione intercettata con Antonio Piromalli, Aldo Miccichè accenna per la prima volta, utilizzando proprio quel linguaggio criptico, a Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia, la persona a cui fa capo il meccanismo dell’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario.
“Stamattina – dice – ho avuto un colloquio con quella persona per motivi particolari connessi al senatore Colombo (Emilio Colombo ndr.) che è mio compare”. E “siccome è stato un colloquio lungo sono riuscito ad accennargli”. “Lui”, prosegue, “l’intervento lo aveva già fatto”, “però - si sente in altra intercettazione - dice che in questo momento sta succedendo un casino della madonna per i provvedimenti particolari”... “è un momento delicato... comunque vediamo se passa sta bufera e loro come avevano promesso a dicembre dovrebbero cercare di fare qualcosa”.
Nel prosieguo della conversazione il faccendiere accenna quindi a una serie di disposizioni che tale misterioso personaggio avrebbe dato a Francesco Borgomeo e alla Segretaria, facendo poi il nome di Adriana Zerbetto e Antonella Appulo. In altre parole: il capo della segreteria del ministro della Giustizia, la segretaria particolare e un esponente del movimento giovanile del partito dell’Udeur, al cui vertice sedeva proprio Clemente Mastella.
E’ così che gli investigatori identificano la persona oggetto dei discorsi tra i due indagati proprio nel Mastella l’unico, sottolineano, che avrebbe potuto “dare disposizioni al Capo della segreteria del Ministro e alla sua Segretaria particolare”.
Una considerazione logica che avrebbe trovato riscontro anche in una successiva telefonata fatta dallo stesso onorevole al Miccichè, dopo che quest’ultimo avrebbe tentato invano di contattare il politico. “Anche se va detto”, scrivono sul punto i magistrati, “che la conversazione non affrontava alcun tema specifico e anzi il Mastella si affrettava ad interromperla dopo aver compreso l’identità del suo interlocutore che gli parlava di possibili appoggi elettorali”.
Ma perché il ministro interrompeva quella comunicazione?
La domanda è lecita e la risposta potrebbe nascondersi nei successivi dialoghi tra Miccichè e Piromalli, dove, ancora una volta, è il primo a dichiarare: “Allora sto cazzo di Ministro... questo povero disgraziato non sa come muoversi, non sa se è un ministro, non sa se lo sentono, non sa se sta dentro o se sta fuori, è ricattato in qualsiasi momento”.
E’ il novembre del 2007 e Mastella risulta iscritto nel registro degli indagati dell’inchiesta catanzarese Why Not (in quel periodo appena avocata al pm De Magistris), per questo consapevole che le sue telefonate potrebbero essere intercettate.
Miccichè, sempre rivolto ad Antonio Piromalli, continua: “...ha paura a parlare per telefono... ha paura se devono mandargli una mail... cambiano un fax al giorno...”. E in un successivo passaggio: “Basta il fatto di Catanzaro per vedere come è messo questo disgraziato... se gli controllano anche il cellulare che cosa vuoi di più... e io lo ho il cellulare... gli controllano il cellulare gli controllano il computer gli controllano i fax... come si comunica con sta gente ora”?.
Piromalli interviene: “Sì ma tanto più di la non possono andare” e Miccichè risponde: “Sì ma questo è un discorso che va bene a noi... ma non va bene a loro.. non si sa se resta questo Governo se non resta questo Governo se lui resta Ministro se lui non resta Ministro”, “che cazzo succede in questo centro Sinistra... sti cazzo di comunisti che stanno rompendo i coglioni a tutti i livelli possibili e immaginabili alla gente che lavora... alla gente che è nostra... chiaro o no?”.




Il fronte milanese
Nonostante “tutta la buona volontà” dei loro referenti, Antonio Piromalli e Aldo Miccichè devono quindi arrendersi di fronte alle “difficoltà dovute al particolare momento in cui si viveva e che limitava obbiettivamente l’ambito della loro operatività”. Lo sottolineano ancora i magistrati nel decreto di fermo, spiegando come il Miccichè non mancava però di adoperarsi per “trovare ulteriori vie per la soluzione del problema”. “Ho l’impressione – è la voce dello stesso indagato – che non si riesce a manovrare bene ... qua dovremo forse a mio avviso fare un altro tipo di rapporto”. Ovvero, si legge, ricorrendo alla Massoneria, alla strada “sia pure segretissima del Vaticano” o alla necessità di aprire un “fronte milanese” per allargare ulteriormente la possibilità della cosca di risolvere i propri problemi utilizzando la via istituzionale.
Per quest’ultima occorrenza, il faccendiere cambia versante politico ed entra in contatto con uno dei maggiori esponenti del partito di opposizione pro tempore: il senatore Marcello Dell’Utri. E’ con lui, e per il tramite dell’amico Aldo, che il 2 dicembre del 2007 parla al telefono Gioacchino Arcidiaco. Ed è con lui che il boss fissa un appuntamento a Milano, in piazza San Babila, al quale prenderà parte anche l’avv. Francesco Lima, più volte contattato dal Miccichè per i suoi “agganci notevoli” e, sembrerebbe, per la sua disponibilità verso le cosche.
In vista di quell’importante incontro, come già accennato, lo stesso Miccichè impartisce all’Arcidiaco precise direttive sul tipo di discorso da intrattenere con il senatore. Su cosa chiedere e su cosa offrire in cambio, in un periodo in cui il Partito delle Libertà si sta riorganizzando.
“E’ importante che capisca chi siamo”, è la voce del Miccichè, “fagli capire che quando Aldo era segretario provinciale della Dc tutti i comuni della provincia di Reggio, 100 erano democristiani... secondo: Aldo pigliava 105.000 voti”. “La Piana è cosa nostra facci capisciri… il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi, insomma! Hai capito o no? Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi, mi hai capito?  ... ”.
Gioacchino, però, non è convinto e chiede delucidazioni: “...adesso l’oggetto che... voglio capire... è stato lui a cercare noi tramite te... perché avesse bisogno di qualcosa giù”... E Micciché si spiega meglio: “Sono stato io a collocare i miei due pupilli, Gioacchino ed Antonio (Arcidiaco e Piromalli ndr.), in mano loro quando ho capito che la loro forza politica che si stava svolgendo in questo senso...”. “Ora fagli capire – prosegue - che in Calabria  o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro ha bisogno di noi … hai capito il discorso? E quando dico noi intendo dire Gioacchino ed Antonio, mi sono spiegato  ..”?
Il successivo passo dell’intercettazione spiega quale sarebbe stata una delle principali richieste che l’Arcidiaco avrebbe rivolto al senatore nell’interesse del “cugino” Antonio Piromalli. E che consisteva nel far ottenere l’immunità allo stesso Piromalli attraverso il conferimento di una funzione consolare per conto di un qualsiasi stato estero. Che sia “russo, vietnamita, arabo, brasiliano, non mi interessa”, sottolinea Arcidiaco, “perché se c’è zio fuori e pure lui ... eh ... poi siamo rovinati!”.
In riferimento alla presenza dell’Avv. Lima all’appuntamento Miccichè sottolinea: così “capisce che non sei l’ultimo arrivato! Mica è facile parlare con Marcello Dell’Utri, parliamo chiaro... parlare con Marcello Dell’Utri significa l’anticamera di Berlusconi”.
E ancora aggiunge: “...Lui vorrà che si facciano i centri della Libertà...” “...e tu gli dici che noi siamo a disposizione che quando deve partire l’operazione per i Centri lui deve venire incontro”.
Il giorno dopo, 3 dicembre 2007, sono ancora le intercettazioni a confermare che quella riunione è realmente avvenuta.
E’ Marcello Dell’Utri a sentirsi con l’Arcidiaco, che in presenza di Antonio Piromalli lo chiama e viene intercettato. La conversazione tra i due non solo conferma l’avvenuto incontro, ma consente di accertare quale fosse stato uno degli oggetti del summit: “La piena disponibilità offerta dall’Arcidiaco all’uomo politico di organizzare le basi del partito (Circoli) nel territorio di Gioia Tauro, ed altri luoghi, e pienamente accolta dal Dell’Utri”.
mastella-clemente-web.jpgLo stesso giorno, al telefono con Arcidiaco, Miccichè riferisce di un colloquio avuto con il senatore in riferimento alla riunione tenuta poco prima. Dell’Utri “mi ha chiamato... era entusiasto”, e di Arcidiaco aveva detto: “pensa a quante cose possiamo fare... un giovane meraviglioso”.
Nel corso di quella lunga telefonata il politico del Pdl  e Micciché parlano di Berlusconi, di azioni da intestare al figlio di Marcello, di una faccenda riguardante il petrolio e del noto politico calabrese e avvocato Armando Veneto. In riferimento agli asseriti rapporti che il Veneto avrebbe con ambienti legati alla criminalità organizzata, il senatore – sorprendentemente - ritiene che siano positivi. Ma commette un errore, che il suo interlocutore si affretta a evidenziare: “Quelli che gli possono dare la copertura completa, le cose nostre sono segrete, ricordatelo, sono le persone che tu hai ricevuto (i boss della famiglia Piromalli ndr), mi hai capito o no?... che erano contro di lui”.
E della straordinaria forza di quella cosca Dell’Utri avrà piena conferma nei mesi a venire, quando potrà constatare con mano il buon andamento dell’attività posta in essere dai consociati per lo sviluppo dei Circoli della Libertà. O almeno così apparirebbe, ancora una volta, in uno dei tanti dialoghi intercorsi tra Gioacchino Arcidiano e Aldo Micciché, nel corso dei quali è il secondo a dichiarare: “Politicamente va benissimo e bisogna incrementarli al massimo in modo tale da riuscire a fare, grazie alla riconoscenza del Senatore per i Circoli, ciò che loro intendono ottenere”.

A completissima disposizione
Il tempo intanto scorre inesorabile e si avvicina a grandi passi la data del 1° febbraio in cui verrà ucciso Rocco Molè. Un evento storico inserito in un contesto in piena trasformazione nel quale fondamentale importanza assumeva la necessità di un concreto ritorno di Giuseppe Piromalli alla guida della sua “famiglia”. Poiché solo lui, con l’autorevolezza e la saggezza del capo, avrebbe potuto riportare l’ordine all’interno di un sodalizio che, in mano ad esponenti più giovani e più intolleranti, mostrava segni di turbolenza.
Aldo Miccichè ne è perfettamente cosciente e in una corsa contro il tempo tenta affannosamente di attivare tutti i suoi contatti politici ed istituzionali, pur se impossibilitati a risolvere la situazione per una serie di problemi dovuti sia alla paura di muoversi in un terreno così pericoloso che alle difficoltà giudiziarie del Ministro della Giustizia. Lo stesso “Senatore – si evince dalle intercettazioni - in questo campo si può muovere poco perché è combinato male”.
E tra i contatti illustri del Miccichè il documento di fermo evidenzia quello con l’on. calabrese Mario Tassone, già esponente della Democrazia Cristiana e dell’Udc, sottosegretario e viceministro della Repubblica, ex vicepresidente della Commissione Antimafia nella scorsa legislatura e ancora oggi deputato.
E’ Antonio Piromalli, lo si apprende dalle intercettazioni, che lo deve incontrare  per sottoporgli una serie di questioni, ivi compresa quella del padre. Ed è al Tassone che Miccichè si riferisce quando ad Antonio afferma: “Si è messo a vostra completissima disposizione”, prima di comunicargli che darà a Gioacchino Arcidiaco i numeri di cellulare “riservati” per contattarlo (cosa che poi avrebbe fatto ndr) e di aggiungere che anche il consigliere regionale Nucera aspetta Antonio “a braccia aperte per tutto quello che avete bisogno”.
In successive conversazioni telefoniche il riferimento all’on. dell’Udc come di persona “a disposizione” torna insistentemente e in una di queste Miccichè esclama: “Ti stanno aspettando a braccia aperte, da Casini a scendere”, prima di sottolineare: “L’aria di elezioni dovrebbe far cambiare la situazione” e soprattutto ora che “ci sarà il congresso provinciale a Reggio Calabria e Antonio ha la possibilità di gestire tutto il partito (l’Udc ndr.) a suo piacimento!”.
Nel prosieguo della conversazione Antonio chiede ad Aldo se “per l’altro discorso la situazione è andata avanti o si è fermata” e dopo aver appurato che il giovane faceva riferimento a “Pinuccio” (Giuseppe Piromalli ndr.) si affrettava a rispondere: “Fatti i cazzi tuoi... ti voglio bene, non parliamo per telefono”.




Soffiate da Reggio
Alla fine di novembre, la situazione già precaria per la cosca, si complica ulteriormente. Mentre a Giuseppe Piromalli viene rinotificato il 41bis Gioacchino Arcidiaco chiama Aldo e gli chiede di contattare “il nostro amico che mi hai mandato tu l’altra volta che siamo stati a riunione”. Il frasario in codice non impedisce agli investigatori di capire che il soggetto in questione è Marcello Dell’Utri e il motivo di quel linguaggio criptico, utilizzato su una linea apparentemente protetta è presto detto: “Ieri ci hanno chiamato e ci hanno detto che hanno tappezzato la macchina di mio cugino dell’ira di Dio”. E’ in effetti in quei giorni che l’automobile di Antonio Piromalli viene sottoposta a controllo ambientale. E l’affermazione dell’Arcidiaco mette in allarme gli inquirenti all’ascolto, non meno di quella successiva, pronunciata invece da Aldo Miccichè: “Vi dovete muovere con molta cautela – dice - perché ho ricevuto una telefonata da Reggio (il luogo dove si stanno svolgendo le presenti indagini ndr.) da persone che tu nemmeno ti immagini”. Ovvero: Peppe Tuccio e Peppe Viola, due grossi personaggi della magistratura calabrese, entrambi in pensione - “gente legata a me... mani piedi e culo” - e un soggetto “importantissimo di cui non ti faccio nome per motivi facilmente comprensibili”. “Una persona molto ma molto alta”.
Più avanti Miccichè suggerisce al “suo pupillo” di chiedere all’avvocato Lima, che incontrerà il giorno successivo, il sistema più pratico per rendere sicure le sue comunicazioni telefoniche raccomandandosi per quella riunione: “Se non risolviamo questo problema di Pino – dice - si trova Totò in un mare di merda”.
Il 9 dicembre Arcidiaco conferma per telefono l’avvenuto incontro con il Lima, ma per il timore delle intercettazioni non ne comunica l’esito al Miccichè accennandogli soltanto che sarà lo stesso Lima a chiamarlo, “ovviamente con linea del tutto riservata”. La stessa conferma della riunione tenutasi con il legale giunge dalla viva voce di Lorenzo Arcidiaco, padre di Gioacchino, che in altra occasione ad Aldo domanda: “Hai saputo del nostro colloquio con l’avvocato sì?” sentendosi rispondere: “Io mi sono sentito con... con un amico intimo di... lì al Palazzo dei Marescialli (sede del Csm, ndr.)...”, “che molto, molto importante ... in questo giro...della magistratura”. “Mi ha chiesto uno/due giorni di tempo”, prosegue, “ma ha visto tutto il problema... perché per loro non ci sono... in questo momento in cui... soprattutto il ministro è guardato in modo particolare... gli stanno controllando telefoni, cose ecc.”.  Tanto che, sottolinea, “per parlare con lui devo chiamare la Presidenza della Regione...e tramite il telefono interno della moglie”.
Alla luce degli eventi in corso sempre più urgente si profila quindi la necessità di far ottenere ad Antonio Piromalli la nomina a console onorario, per la quale Miccichè si raccomanda ancora con Gioacchino Arcidiaco di parlarne “... a quattr’occhi e riservatamente... con chi ti sei riunito tu, però non... non credo che lo possiamo fare a Como... in ufficio sì, quando vuoi... ma con molto tatto!”
Il riferimento è ovviamente, ancora una volta, a Marcello Dell’Utri, del quale Aldo parla anche con il padre Lorenzo, con il solito linguaggio in codice:

Aldo: Ora... quello che è importante è che con Marcello Dell’Utri... ti può essere di grande aiuto perché significa Berlusconi... per parlare chiaro...
Lorenzo: sì...
Aldo: ...è saper condurre le cose, hai capito?
Lorenzo: è perfetto! E Lui per fare questo tipo di ragionamento e non cade in... inc...
Aldo: e così vedete... vedete là la faccenda di... di Mario Tassone e del Consigliere regionale... io vi sto dando tutte le forze possibili...
Lorenzo: ho capito... ho capito...
Aldo: quando vieni qua, parliamo... parliamo concretamente!
Lorenzo: va benissimo! Va benissimo!
Aldo: ti voglio bene! Ciao!
Lorenzo: pure io, ti abbraccio, ciao ciao.


Vota e fai votare
tassone-mario-web.jpgA febbraio, dopo la morte di Rocco Molè, Aldo Miccichè è preoccupato per le sorti di Antonio Piromalli che, a suo dire, ha ormai “la famiglia sulle spalle”. Al rischio della reazione dei Molè alla morte del boss Rocco si sommavano le vaste battute delle forze dell’ordine sulla Piana di Gioia Tauro, con perquisizioni, rinvenimenti di bunker e le dichiarazioni di alcuni soggetti che “stanno cantando come canarini”. E’ lo stesso Micciché a rivelarlo a Gioacchino Arcidiaco chiedendo poi ai compari di raggiungerlo in Venezuela dove, per ovvie ragioni, sarebbero al riparo da possibili arresti. Anche se, prima di partire, avrebbero dovuto sistemare “una certa faccenda” riguardante il solito Senatore Dell’Utri e le imminenti elezioni.
Questa ennesima vicenda inizia con l’ennesima intercettazione il 17 marzo 2008, nel corso della quale Lorenzo Arcidiaco riferisce ad Aldo Miccichè la volontà di trasferirsi a Milano insieme al figlio Gioacchino, per ragioni di sicurezza. Per aiutare il compare, Aldo decide di giocare la carta del senatore Dell’Utri, “l’unica strada che abbiamo”, riferisce, perché con il “padrone” (Silvio Berlusconi ndr.) è in quel momento impossibile parlare a causa delle imminenti elezioni.
E siccome è proprio il momento elettorale uno dei più significativi per la gestione del potere mafioso, nell’ambito del suo discorso Micciché riferisce di essere nella posizione di chiedere qualche favore (sistemare lavorativamente Lorenzo e la fidanzata di Gioacchino, Roberta Foti ndr.) poiché ora “ho un certo potere per il fatto delle elezioni all’estero”. Spiega quindi che il 25 marzo si incontrerà a Caracas con Barbara Contini, vice di Berlusconi, candidata in Campania alla quale, in quell’occasione, farà avere il curriculum di Roberta Foti.
Ma è il 26 marzo che i dialoghi tra Lorenzo Arcidiaco e Aldo Miccichè si fanno più interessanti. In quella data, infatti, Lorenzo chiama Aldo per riferirgli di un imminente appuntamento con il Senatore nel corso del quale gli avrebbe parlato, tra le altre cose, di un amico di “Totò” (Antonio Piromalli ndr.) “da diversi anni in auge a livello sindacale e compagnia bella che sposta un bacino elettorale di 5.000 – 10.000 voti” a Milano e provincia. Tale soggetto, continua, “era praticamente sempre su... collegato con i Coluccio, il Questore della Camera” e “adesso che i Colucci gli hanno promesso promesso e non gli hanno mai dato nulla... si è spostato su Casini. Tu pensi che farlo spostare su Marcello potrebbe essere interessante per lui?” Miccichè, felicemente sorpreso dalla notizia, risponde subito di sì e si incarica di parlarne con il senatore Dell’Utri prima del pianificato incontro. Anche se a Marcello aveva già detto: “gli ho anticipato,,, che c’è una tradotta di calabresi che lì a Milano lo votano! E – rivolto a Lorenzo Arcidiaco - tu gli dici che vai lì a nome di questi... mi sono spiegato?” “In modo da fargli capire che ha bisogno di noi”. Il successivo 1° aprile Lorenzo chiama Aldo e confermandogli l’avvenuto incontro sottolinea: il senatore ha fissato un appuntamento “con questo qui di Cinisello”.

Le indagini proseguono
Il 22 luglio dello scorso anno, allarmati da alcuni colloqui intercettati in carcere tra gli uomini della famiglia Molè, gli inquirenti decidono di intervenire con il blitz eseguito dai carabinieri del Ros di Reggio Calabria del tenente colonnello Valerio Giardina, dagli agenti della Squadra Mobile reggina di Renato Cortese, dal commissariato di Gioia Tauro diretto dal vicequestore Pino Cannizzaro. Che ha aperto le porte del carcere per venti persone, tra le quali figurano anche imprenditori e professionisti legati alle cosche nella gestione di alcuni affari.
A far decidere i magistrati della Dda di Reggio di operare i fermi – eseguiti, oltre che in Calabria, anche a Roma e Milano – la consapevolezza del pericolo reale di fuga di alcuni degli indagati, ma soprattutto il tentativo di evitare il compimento di omicidi in risposta al delitto del boss Rocco Molè. E mentre ancora si attendono gli esiti di una serie di perquisizioni disposte dai magistrati in varie carceri italiane – alla ricerca di eventuali pizzini – il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone ha trasmesso al Pg di Palermo Antonino Gatto le carte riguardanti il senatore Dell’Utri. Gatto, che rappresenta l’accusa al processo di secondo grado che vede il senatore imputato di concorso esterno in associazione mafiosa (in primo grado il politico è stato condannato a 9 anni di reclusione) si è riservato di decidere sull’utilizzo di quelle carte, mentre la procura di Reggio ha convocato il senatore - che come gli altri politici coinvolti nell’inchiesta non risulta iscritto nel registro degli indagati – come persona informata sui fatti. In una lettera inviata alla stessa procura Dell’Utri ha però dichiarato che non intende rispondere alle domande dei magistrati. Attraverso il proprio difensore, l’avvocato Giuseppe Di Peri, ha fatto sapere che si avvarrà infatti della facoltà di non rispondere perché le sue eventuali dichiarazioni potrebbero essere utilizzate dai magistrati siciliani.




BOX1

Affari di cosca

“Oggi alle cinque e mezza (ora di Caracas) è qua con gli importatori... dovrebbe portarne quattro”. Così il 20 settembre del 2007 Aldo Micciché, rivolto ad Antonio Piromalli, annuncia il suo imminente incontro con “Don Ugo”, alias Ugo Di Martino, importante esponente della comunità italiana in Venezuela, nato a Pachino (SR) e residente in Caracas. Nonché candidato nel collegio estero del Sud America per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008 nelle fila del partito del Popolo della Libertà. Don Ugo per Miccichè è sinonimo di affari. Uno dei tanti che caratterizzano il decreto di fermo di Reggio Calabria e soltanto accennati nei discorsi tra boss della cosca Piromalli captati dagli investigatori e riportati nel documento. “Un primo di questi affari”, nel quale sarebbe coinvolto lo stesso Di Martino,  scrivono i magistrati, riguarda “un vaccino, che il Micciché afferma di aver ‘collocato a livello governativo’ in Sudamerica sì da essere un buon ‘colpo per noi’”. E dalla conversazione che segue è facile comprendere “come sia il Piromalli (formalmente gestore di uno stand di prodotti ortofrutticoli a Milano ndr.) il dominus della situazione, avendo i contatti con una multinazionale americana”. In un altro passaggio i due interlocutori accennano invece a un milione di tonnellate di cemento americano da vendere ogni anno a Italcementi, (Antonio: “e se gli girano questa nota a Lima si prenderebbe tanto di parcella”) e in un’altra ancora a un affare che riguarda “il petrolio” per il quale l’avv. Lima si sarebbe incontrato con un prete che gli indagati chiamano “padre Bonifacio”. Di auto nuove, usate o a Km 0 parlano invece Aldo Micciché e Gioacchino Arcidiaco mentre Antonio Piromalli e Arcidiaco Lorenzo discutono degli interessi dello stesso Piromalli in un settore particolarmente delicato quale quello del mercato orto-frutticolo di Milano, “notoriamente oggetto delle mire di dominio delle cosche mafiose”. Ma il più grande affare delle ‘ndrine della Piana è sempre il Porto di Gioia Tauro, la cui gestione è una delle cause della guerra di mafia in corso con gli storici alleati Molè. Al centro dei contrasti la società cooperativa All Services, che dal 1999 svolge presso il Porto attività di movimentazione delle merci alla rinfusa operando anche nel settore del trasbordo dei container. Su tale società si era rivolta l’attenzione delle cosche, un tempo limitata alle attività puramente estorsive, poi rivolta ad affermare la propria presenza interna, come impresa, nella gestione degli affari. Per circa due anni, dal 2006 fino ai primi mesi del 2008, a contendersi l’acquisizione della All Services -  portata allo stato di liquidazione coatta amministrativa attraverso una ben preventivata strategia – proprio i Molè, da una parte, e i Piromalli dall’altra. I primi tramite il braccio operativo Giuseppe Arena e i secondi per mezzo di Pietro D’Ardes, titolare della Cooperativa Lavoro di Roma, ma con attività in Calabria, affiancato dall’avv. Giuseppe Mancini ed alleatosi con gli Alvaro di San Procopio, proprio con l’avallo dei Piromalli.
La lunga contesa era terminata con la vittoria del gruppo capeggiato dal D’Ardes, che il 31 gennaio del 2008 otteneva la cessione della All Services attraverso l’affitto d’azienda, grazie alla complicità dei liquidatori della cooperativa, le cui informazioni e le cui illecite attività di ausilio si erano rivelate determinanti. E grazie al vero e proprio “patto d’azione”, come lo definiscono gli inquirenti, con gli Alvaro di San Procopio, ma soprattutto “all’avallo ‘concesso’ dai Piromalli”.
Il giorno successivo, 1° febbraio, veniva ucciso Rocco Molè, fratello di Girolamo e reggente della ‘ndrina mentre il 26 aprile saltava in aria, dilaniato da un’autobomba, Antonino Princi, imprenditore legato agli stessi Molè.


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Il rifiuto di Veltroni

Nel mese di marzo, mentre i Piromalli sono impegnati a procurare voti al senatore Dell’Utri, nelle intercettazioni captate dagli inquirenti non mancano i riferimenti a Walter Veltroni. Che proprio in quei giorni inizia a denunciare il voto di scambio politico-mafioso e ad annunciare una linea dura contro la criminalità organizzata. A Lorenzo Arcidiaco, commentando la volontà di Veltroni di non volere di voti della mafia, Miccichè esclama: “Hai capito il discorso? Hanno respinto ogni forma, ogni cosa!”. Insomma, scrivono sul punto i pm di Reggio Calabria, la mafia avrebbe percepito “come una sventura il rifiuto dei propri voti da parte di una formazione politica, a perfetta conferma, sia delle dinamiche comportamentali delle organizzazioni mafiose, che della particolare e spiccata mafiosità dei soggetti in questione, che delle ragioni per le quali hanno, invece, offerto il loro appoggio ad altra formazione politica i cui rappresentanti entrati in contatto con loro, non solo non hanno rifiutato, ma in qualche caso hanno accettato tale tipo di appoggio, e li hanno sollecitati ad attivarsi per la fornitura” dell’appoggio stesso.


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50mila schede da barrare

La notizia di presunti legami tra la cosca Piromalli e il senatore Marcello Dell’Utri era emersa, per la prima volta, lo scorso 11 aprile quando alcuni quotidiani avevano pubblicato indiscrezioni, provenienti da ambienti investigativi, secondo le quali boss della mafia calabrese avevano ricevuto da un uomo di partito – poi identificato nel senatore Marcello Dell’Utri - il mandato di mettere mano al voto degli italiani all’estero.
Le indiscrezioni – a seguito delle quali i magistrati della Dda di Reggio Calabria, allarmati, avevano informato l’allora ministro dell’Interno Amato che aveva preso immediate contromisure – erano legate all’inchiesta poi sfociata nel blitz dello scorso 22 luglio. E rivelavano il contenuto di alcune delle intercettazioni telefoniche intercorse tra Dell’Utri e il faccendiere Aldo Miccichè, non presenti nel documento di fermo. Riferite alla presunta disponibilità degli uomini della ‘ndrina di stanza in America latina di favorire il controllo del voto degli italiani all’estero e dirottare a favore del partito di Berlusconi le cosiddette schede di ritorno: quelle che non arrivano all’elettore e che dovrebbero essere rispedite in Italia non compilate. Un affare da 200mila euro che avrebbe visto il coinvolgimento anche di consoli onorari ed addetti ai seggi e che sarebbe riuscito a far guadagnare al Partito delle Libertà più di 50mila voti. Insomma un gioco da ragazzi per la cosca Piromalli che, per dirla con Miccichè, sarebbe stata in grado di raccogliere quegli stessi voti “in un paio d’ore”,  pagando “qualche addetto ai lavori”.
“I responsabili delle votazioni – avrebbe spiegato il faccendiere al suo interlocutore – si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl”. Cosa che avrebbe spinto il senatore ad alzare il tiro per chiedere un aiuto anche per il voto in Calabria e sentirsi rispondere: “Nessun problema”.
La notizia, appena uscita, aveva infastidito non poco Marcello Dell’Utri, che alla stampa si era affrettato a dichiarare: “Stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, io questo purtroppo non lo posso impedire. Ma stiamo dando i numeri”. Poi aveva assicurato: “Non conosco personalmente Aldo Micciché, ma l’ho sentito per telefono”, “ero da qualche mese in contatto con lui per ragioni di energia. Lui si occupa di petrolio. Io ero in contatto con una società russa che ha sede anche in Italia, per cui conoscendo questi russi ho fatto da tramite”. Un giorno Micciché “mi ha detto: “Posso occuparmi del voto degli italiani all’estero qui in Sudamerica? Io l’ho messo in contatto con la nostra rappresentante, Barbara Contini. Poi il discorso si è chiuso”. Le intercettazioni racchiuse nel decreto di fermo, che in questi pagine in sintesi riportiamo, raccontano però un’altra verità.

Tratto da: AntimafiaDuemila N°60

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