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di Pietro Del Re
Gli eserciti di Niger, Mali e Burkina Faso accusati di massacri e esecuzioni sommarie Ma Parigi è sott’accusa perché li addestra e fornisce le armi

Bamako. Contro i jihadisti del Sahel si combattono due guerre parallele: quella dei francesi con droni sofisticati e teste di cuoio, e quella più faticosamente condotta con armi fatiscenti e soldati sottopagati dagli squinternati eserciti di Mali, Niger e Burkina Faso. Nella prima, usando un linguaggio fin troppo asettico, si parla di «disattivazione di gruppi armati terroristici» e di «eliminazione di bersagli ad alto valore». I suoi protagonisti sono gli oltre 5mila soldati dell’operazione Barkhane dispiegati nel deserto da Parigi, che hanno negli uomini del Comando operazioni speciali la loro punta di diamante operativa. Sono loro che coprendosi di gloria lo scorso 3 giugno hanno scovato e ucciso nel nord del Mali Abdelmalek Droukdel, leader del gruppo Al Qaeda nel Maghreb islamico.
L’altra guerra, quella degli eserciti africani, registra successi decisamente meno eroici e fulgenti perché funestata da frequenti massacri inter-etnici che compiono le milizie locali e da esecuzioni sommarie di civili inermi da parte dei soldati. Con il risultato che, spaventati da possibili rappresaglie, sequestri o processi troppo sbrigativi, molti giovani preferiscono unirsi alle unità combattenti jihadiste. In un rapporto pubblicato il 10 giugno, Amnesty International denuncia «atti di terrore e massacri» compiuti dai tre eserciti tra febbraio e aprile di quest’anno, tutti perpetrati con il pretesto di svolgere operazioni anti- terroristiche. Sempre secondo l’attendibile Ong, nello stesso periodo i soldati avrebbero ucciso almeno 199 civili e in alcune regioni desertiche sarebbero state scoperte diverse fosse comuni. Negli stessi mesi, la Minusma, la missione Onu per stabilizzare il Mali, ha contato circa 650 violazioni dei diritti umani nel Paese.
Bisogna dare per scontato che nessun soldato francese ha partecipato o assistito passivamente a questi ammazzamenti. Tuttavia, l’accusa di questi crimini di guerra attribuiti agli eserciti regionali coinvolge in parte anche Parigi, poiché è lei che li addestra e li rifornisce di armi. E poi la Francia è il primo partner diretto di questi Paesi nella lotta contro i gruppi estremisti, siano essi affiliati ad Al Qaeda o allo Stato islamico. Secondo Ibrahim Traoré, ricercatore dell’Institut d’études de sécurité di Bamako, la strategia anti-jihadista dell’ex potenza coloniale è controproducente perché non fa altro che generare altra violenza. «Dall’inizio dell’intervento di Parigi, nel 2013, i gruppi armati si sono moltiplicati e l’anno scorso nel Sahel gli attentati sono aumentati del 70%. È vero, i francesi hanno neutralizzato più di mille terroristi ma il problema è che i loro attacchi provocano anche tante morti "collaterali", e che ognuna di queste crea nuovi miliziani». Anche Niagalé Bagayoko, direttrice dell’African security sector network considera piena di errori la cooperazione francese nel Sahel, «non solo sull’aspetto militare ma anche su quello dei diritti umani». Per Bagayoko il silenzio di Parigi sugli ammazzamenti compiuti dagli eserciti alleati equivale a una sorta di assoluzione. Oltre a combattere i battaglioni dell’estremismo islamico, Parigi vorrebbe conquistare i cuori e le menti della popolazione locale. «Ma non le riesce facile, anche per il risentimento che alcuni rigurgiti neo-colonialistici possono generare a Bamako, Niamey o Ouagadougou», spiega l’islamologo americano Alexander Thurston. «Una guerra non si vince solo militarmente».
Lo sapeva bene Ibrahim Boubacar Keita, il presidente del Mali deposto martedì scorso dalla giunta militare che ancora lo tiene prigioniero in una caserma non lontana dalla capitale. Lo scorso febbraio, dopo anni di sanguinarie battaglie e continue perdite di uomini e beni, Keita aveva avviato un dialogo con gli emiri di Al Qaeda nel Maghreb islamico, islamisti meno radicalizzati e feroci di quelli dell’Isis. «L’apertura dell’ex presidente è coincisa con una controffensiva di Al Qaeda, in particolare nell’Africa occidentale e in particolare in Mali. Una controffensiva non solo militare, ma soprattutto politica», aggiunge Thurston. Di fatto, l’iniziativa di Keita ha spaccato in due il fronte jihadista, perché l’aviazione di Parigi s’è concentrata sui battaglioni dello Stato islamico, il quale ha accusato di tradimento i confratelli qaedisti. «Questa decisione di accettare negoziati diretti con lo Stato del Mali ha così segnato un importante punto di svolta», dice ancora l’islamologo.
È verosimile che ora, sia pure senza un interlocutore politico a Bamako, i leader di Al Qaeda amplieranno la loro offensiva nel Sahel. E per reclutare nuovi uomini, compiere i loro saccheggi nei villaggi e strappare nuove terre all’Isis nel centro e nel nord del Paese potranno approfittare delle prossime settimane, durante le quali la giunta militare da pochi giorni al comando sarà troppo occupata a trovare un nuovo presidente.

Tratto da: La Repubblica

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