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Ancora una volta subisce un duro colpo il castello di carta creato dagli Stati Uniti per incriminare il giornalista ed editore Julian Assange, reo di aver rivelato crimini di guerra. Di recente, infatti, Sigurdur Ingi Thordarson, un ex volontario di WikiLeaks poi diventato informatore dell'FBI e testimone chiave nel processo contro Assange, ha ammesso di aver inventato le sue accuse in un’intervista rilasciata al giornale Stundin, noto bisettimanale islandese. Tra tutte, la menzogna che ebbe più peso nel processo fu quella secondo cui, Assange, gli aveva ordinato di commettere intrusioni informatiche o hacking contro computer governativi in Islanda. Già demolita nel 2020 dalla difesa del giornalista, si trattava di un’accusa fondamentale nel dimostrare che Assange era un criminale e un hacker piuttosto che un giornalista.

La “talpa” di Wikileaks: dalle braccia di Assange a quelle dell’FBI
La storia di Sigurdur Ingi Thordarson in Wikileaks inizia nel 2010, quando il ragazzo aveva solo 17 anni e quando la piattaforma divulgativa era al culmine delle sue pubblicazioni. In quell’anno diversi cittadini islandesi si erano uniti a Wikileaks, dopo che questo aveva pubblicato documenti bancari interni relativi alla crisi finanziaria dell’Islanda. A quanto sembra, fin dall’inizio Thordarson si sarebbe ‘infiltrato’ nell'organizzazione per fabbricare false prove contro Julian Assange per conto degli Stati Uniti. La sua permanenza in Wikileaks, infatti, durò circa un anno. Il tradimento di Thordarson è stato innanzitutto un tradimento contro lo stesso Assange, che, come dicono gli ex colleghi, prese Thordarson sotto la sua ala protettrice e lo tenne in vita di fronte a critiche e controversie legali.
Nel giugno del 2011, prima ancora di attuare la mega truffa a Wikileaks, Thordarson aveva contattato di sua iniziativa e senza alcuna autorizzazione Hector Xavier Monsegur, noto come “Sabu”, un hacker e membro del celebre gruppo di hackeraggio LulzSec. Lo sollecitò ad hackerare per conto di Wikileaks i sistemi governativi islandesi e, nel farlo, inventò di essere una persona importante dentro l’organizzazione, nonché di aver ricevuto l’autorizzazione da Julian Assange in persona. Come rivelato per la prima volta dalla giornalista Parmy Olson nel suo libro su Anonymus, Thordarson come “prova” girò ed inviò con il cellulare un video di 40 secondi in cui mostrava prima lo schermo di un computer con la chat con “Sabu” e poi, spostandosi in un’altra stanza, Assange che lavora con un associato. Tutto questo mentre era ospite a Ellingham Hall, la villa inglese dove Assange era agli arresti domiciliari. Probabilmente, ma non è sicuro, Thordarson non sapeva che, nello stesso mese, “Sabu” era stato arrestato dall’FBI e dunque diventato un loro informatore e collaboratore.
L’attacco DDoS (Distributed Denial of Service) contro i siti Web di diverse istituzioni governative arrivò puntuale e, si può dire con non poca certezza, sotto gli occhi dell’FBI la quale, tramite il loro uomo “Sabu”, deve averlo autorizzato se non addirittura avviato. Sempre nel giugno del 2011, l’FBI contattò le autorità islandesi per avvertirle di un’imminente e grave minaccia di intrusione contro i computer del governo, ottenendo così l’autorizzazione a recarsi in Islanda per aiutare a contrastare questo grave pericolo. Il giornalista Jónasson ipotizza che già allora gli Stati Uniti stavano gettando le basi per il loro scopo ultimo, ossia non aiutare l'Islanda ma intrappolare Julian Assange. Infatti, fu proprio in quei mesi che avvennero di persona, nell’ambasciata statunitense e nell’Hotel Reykjavik Centrum, gli incontri e scambi di informazioni tra l’FBI e Thordarson, come lo stesso ragazzo ha testimoniato. Una lunga collaborazione che si sarebbe estesa anche al di fuori dell’Islanda dopo che, a causa di un incidente politico, venne revocato all’FBI il permesso di stare sull’isola. Wikileaks, infatti, è ben considerata in Islanda (in quell’anno, tra l’altro, Julian Assange stava lavorando con i membri del parlamento per aggiornare le leggi islandesi sulla libertà di stampa per il XXI secolo, includendo una legge sulla protezione del whistleblowing e del giornalismo investigativo) e, quando si venne a scoprire che l’FBI non stava interrogando Thordarson per avere informazioni su LulzSec, ma su Wikileaks, si creò un forte dibattito politico nel paese.
Gli incontri continuarono anche dopo l’agosto 2011, ossia quando Thordarson venne cacciato da Wikileaks per essersi finto Assange ed aver deviato sul suo conto personale 50 mila dollari diretti all’organizzazione (ricavati dalla vendita di magliette e da donazioni libere). Negli incontri, stavolta in Danimarca e negli Usa, in cambio di 5 mila dollari il ragazzo diede all’FBI dischi rigidi, archivi e documenti rubati dallo staff di Wikileaks e dal team di avvocati dell’organizzazione e di Assange (in particolare i documenti di Renata Avila).
Le fortune di Thordarson cambiarono nel 2013 e nel 2014 quando, scaricato dall’FBI perché non più utile, si macchiò di altri reati tra cui, oltre alla già citata appropriazione indebita di denaro e informazioni private rubate da Wikileaks, l’aver molestato più ragazzi minorenni. Ma il ruolo di Thordarson non era ancora finito.
Il ragazzo ricompare, infatti, nel 2019 quando Assange viene arrestato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra e, conseguentemente, quando inizia il famigerato processo contro il giornalista. In cambio della sua testimonianza - o, meglio, delle sue menzogne - contro Assange, a Thordarson è stato concesso un accordo di immunità dall'amministrazione Trump, firmato da Kellen S. Dwyer, il vice del procuratore generale William Barr: un’immunità totale da qualsiasi accusa e reato commesso non solo negli USA. Le autorità statunitensi hanno infatti accettato anche di nascondere all'Islanda e ad altri paesi qualsiasi illecito commesso dal truffatore, anche se comporta hacking e minacce alla loro sicurezza nazionale. Secondo il giornale Stundin, Thordarson ha sfruttato al meglio l'affare, iniziando una grande ondata di criminalità che coinvolgeva furti su larga scala, falsificazione e inganno finanziario.
E’ soprattutto per la sua falsa testimonianza, volta a descrivere Assange come un criminale che ha incitato gruppi di hacker ad attaccare dei computer governativi, che, il 4 gennaio di quest’anno, nonostante sia stata negata l’estradizione del giornalista per motivi di salute, la giudice Vanessa Baraitser ha riconosciuto la validità delle accuse statunitensi.

Tre cose non possono essere nascoste a lungo: la Luna, il Sole e la Verità
E, così, cade un’altra menzogna minuziosamente fabbricata contro Assange. L’ennesima di un intero sistema creato per distruggere un giornalista che ha avuto il coraggio di pubblicare crimini di guerra e altri abusi commessi dagli Stati Uniti. Edward Snowden ha twittato la notizia del testimone commentando, con un condivisibile ottimismo, “Questa è la fine del caso contro Julian Assange. Bisogna però anche essere consapevoli che chi vuole estradarlo, non si fermerà comunque e sarà anzi pronto a tutto pur di continuare, non smettendo di fabbricare nuove menzogne. Per questo, se Assange riuscirà ad uscire da questo tunnel di ingiustizie e sofferenza, non basterà più far cadere definitivamente le vergognose accuse contro di lui, ma bisognerà portare di fronte ad una corte internazionale chi gli ha strappato 10 anni della sua vita, solo per aver detto la verità. E’ forse utopia, ma solo questa sarebbe giustizia.

Foto © acidpolly is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

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