L'ex ministro “è l'istigatore del contatto Ros-Cosa Nostra”
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo - 11 dicembre 2014
Palermo. “Chiediamo una condanna per Mannino a nove anni di reclusione più le pene accessorie previste dalla legge”. E' questa la richiesta di pena formulata dall'accusa (rappresentata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene) per Calogero Mannino al processo contro l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato con il rito abbreviato per la Trattativa Stato mafia. Mannino è imputato del reato disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Teresi, che oggi ha concluso la propria requisitoria davanti al gup Marina Petruzzella, ha indicato nel politico democristiano come “l'istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra affinché non lo si ammazzi. E non voglio dire che questo è l'unico fine della trattativa ma sicuramente è l'unico fine di Mannino che si adopera anche con altri esponenti istituzionali per scegliere la via del dialogo”. “Quando Mannino disse a Gargani 'la Procura di Palermo ha capito tutto' diceva il vero - ha aggiunto Teresi - Si è riusciti a trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, 'ora ci fottono', 'Ciancimino ha detto la verità su di noi' vanno direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis.
E' lui l'istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra affinché non lo si ammazzi”. Il pm ha chiarito che evitare l'omicidio di Mannino, che temeva di essere ammazzato come Salvo Lima per non aver tenuto fede all'impegno con i boss per un buon esito del maxiprocesso, “non è l'unico fine della trattativa, il che sarebbe riduttivo, ma è certamente l'unico fine di Mannino”. Con il suo agire l'ex ministro "rafforza con questo la determinazione di Mori, De Donno e Subranni a parlare con Riina. Mannino vuole che Cosa Nostra pensi ad altro, cinicamente pensi ad altri. Altre vittime, altre stragi, non Mannino”. Secondo l'accusa l'imputato ha quindi sollecitato “l'interlocuzione con Cosa Nostra, ma anche con altri esponenti istituzionali, perché bisogna scegliere la via dell'accordo mentre gli uomini dello Stato avrebbero dovuto cercare la strada per distruggere Cosa Nostra, non quella di conviverci e coesisterci".
Con il processo a Mannino, che è stato rinviato al 3 marzo per proseguire con gli interventi delle parti civili, per la prima volta un giudice si esprimerà sulla trattativa. Una vicenda che secondo l'accusa, così come spiegato nella requisitoria, vede il coinvolgimento di Mannino in più fasi. Prima di tutto il suo è uno dei nomi che viene inserito nella lista di politici da eliminare, stilata da Cosa Nostra. E' da quel momento che su richiesta dell'ex ministro prenderebbe il via il dialogo. “Quando Mannino disse a Gargani 'la Procura di Palermo ha capito tutto' diceva il vero - ha detto stamattina Teresi - Si è riusciti a trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, 'ora ci fottono', 'Ciancimino ha detto la verità su di noi' vanno direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis allo stesso Di Maggio”.
L'interlocuzione a colpi di bombe
Durante la requisitoria Teresi si è concentrato in particolare sull'analizzare quanto avvenuto nel corso del 1993 non solo all'esterno, con le bombe di via Fauro, via dei Georgofili, via Palestro, San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, ma anche all'interno delle istituzioni. E' quello infatti l'anno degli scossoni sia all'interno dell'universo politico (come la sostituzione del ministro della Giustizia Martelli con Conso), che in quello carcerario (la sostituzione di Amato con Capriotti alla direzione del Dap e la nomina di Di Maggio come vice). Nella sua requisitoria Teresi ha ricordato quindi che all’indomani della strage di via dei Georgofili Mannino rilasciò un'intervista in cui, contrariamente a quanto detto dai principali investigatori dell'epoca, Mannino diceva che a compiere la strage non erano i boss. Per il procuratore aggiunto l’ex ministro democristiano è “perfettamente consapevole che, dopo la strage di Capaci, ha bisogno dell'interlocuzione con la mafia perché sa che è nel mirino della mafia. In questo momento iniziano i suoi incontri con Mori e Contrada come testimoniano le agende dell’uno e dell’altro. Lui (Mannino, ndr) conosce ed interferisce con il Dap per realizzare cosa è possibile dare ai mafiosi, per convincere alcuni settori istituzionali, per acconsentire alle richieste, le uniche che gli possono oggettivamente salvare la vita”. Ecco quindi che si arriva alle mancate proroghe di centinaia di 41bis così da dare “un segnale di distensione”.
Interferenze con il Dap
Nella documentazione citata dal pm si fa riferimento ad una prima riduzione del 10% dei decreti firmati da Martelli. Il tutto avviene meno di un mese dopo la strage di Firenze. Per Teresi si tratta di “un segnale di distensione immotivato, ma fortemente voluto dal Dap e da chi, fuori dal Dap, aveva assoluta necessità di far vedere a Cosa Nostra che stava adempiendo alle obbligazioni assunte”. Ma chi c’era fuori? “Mannino che telefona a Di Maggio” per chiedere di “non far applicare” e di “ritardare” alcuni 41 bis. Il pm ha ricordato che in quel momento ai vertici del Dap si parlava anche, in maniera riservata, di creare all’interno delle carceri delle “aree omogenee” da “destinare ai dissociati di mafia”. Secondo la ricostruzione del pm il 41 bis “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. “Per capire cosa accade nel 1993 - ha spiegato Teresi - bisogna capire la rivoluzione copernicana al ministero della giustizia accompagnata dalla sostituzione al Dap dove il problema carcerario era una risposta”. Il Dap “doveva essere controllato da personaggi che fossero disposti a consentire la realizzazione di talune richieste di Cosa Nostra”, soprattutto in merito all’“attenuazione del 41 bis”. Torna quindi sotto i riflettori la questione dei messaggi della “falange armata” contro il 41bis. Teresi ricorda che l’allora capo del Dap Nicolò Amato è “meno in sintonia” con il neo Guardasigilli Conso precisamente in tema di carcere duro. “Conso non tiene in nessun conto” le indicazioni di Amato sull’effettivo potenziamento del regime del 41bis. Non solo. Tra i primi atti compiuti vi è un annullamento di un decreto firmato da Martelli con cui venivano potenziati i regimi carcerari a Secondigliano e a Poggio Reale dopo gli omicidi “simbolici” del sovraintendente Pasquale Campanello e dell’agente penitenziario Michele Gaglione. Nel ripercorrere le varie fasi degli avvicendamenti ai vertici del Dap Teresi ha evidenziato le “anomalie” di certe procedure come “l'intervento di figure ecclesiastiche come l’ex ispettore generale dei cappellani delle carceri, Cesare Curioni, e del suo fedele vice, Fabio Fabbri, chiamati appositamente da Scalfaro per farsi consigliare sul sostituto di Amato al Dap. Oppure come l'azione mirata a conferire l'incarico di vice direttore al Dap a Francesco Di Maggio, semplice magistrato di tribunale, privo di quel livello di professionalità per potersi occupare delle carceri.
Il parere di D'Ambrosio
Per unire i vari tasselli che ruotano attorno alla nomina di Di Maggio al Dap Teresi ha ripreso la conversazione telefonica tra Nicola Mancino e l’ex consulente giuridico del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Loris D'Ambrosio. L’intercettazione è quella del 25 novembre 2011 quando a Mancino il dott. D’Ambrosio dichiara: “Uno dei punti centrali di questa vicenda comincia a diventare la nomina di Di Maggio”, per sentirsi rispondere: “E certo, non aveva i titoli”, prima di replicare: “Ecco, e diventa dirigente generale attraverso un decreto del presidente della Repubblica no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda (…) Io ricordo chiaramente il decreto scritto, il Dpr scritto nella stanza della Ferraro (Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli affari penali del Ministero, ndr.), il Dpr che lo faceva vice capo del Dap”. Di fatto si tratta della dimostrazione plastica della piena conoscenza di D’Ambrosio dell’irritualità della nomina di Di Maggio al Dap, una notizia inizialmente taciuta ai magistrati che lo avevano interrogato.
Mori e la sua immorale definizione di “baratto”
“L'altro giorno, Mori - ha sottolineato Teresi - intervistato ad una nota trasmissione tv, dopo essere stato convocato al Copasir, anziché andare in quella sede, ed evocando i fatti per la prima volta, usa una parola che è a dir poco scandalosa nella sua immoralità. Dice (Mori, ndr) che è stato sostanzialmente un ‘baratto’ (uno scambio di cose) ‘abbiamo dato un regime carcerario meno pesante’… si, e loro hanno dato i morti… Questo è un cinismo che fa paura. E’ questa la logica di quei commentatori che parlano di una trattativa ‘per evitare le stragi’. No! Tutto questo ha indotto le stragi. Da quel ‘baratto’ abbiamo avuto i morti!”.
Quelle carte che profetizzavano la trattativa
Nella sua lunga requisitoria il pm ha ripreso inoltre due documenti fondamentali per contestualizzare il grado di consapevolezza istituzionale del patto che si stava consumando tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato: la nota della Dia del 10 agosto ’93 e il rapporto dello Sco dell’11 settembre di quello stesso anno. In quelle carte, inviate ai gangli vitali degli apparati statali, per la prima volta compariva il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - avevano scritto gli analisti della Dia -. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”. Nel documento veniva specificato che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Per gli uomini dello Sco Cosa Nostra stava seminando il terrore in tutta Italia per “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Parole pesantissime, e soprattutto profetiche. Per Teresi le revoche di quei 41bis “sono inevitabilmente una deviazione del comportamento istituzionale da parte degli organi dello Stato”.
Dalle revoche del 41bis alle “preoccupazioni” di Mannino per De Mita
Teresi ha ricordato quindi il fax mandato il 29 ottobre del ’93 dalla Procura di Palermo per sancire il parere contrario alla possibile revoca del 41bis per 474 detenuti di prima grandezza (esponenti di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita) proposta dal Dap. Di fatto il parere della Procura palermitana era stato totalmente disatteso. Il pm ha sottolineato che a godere di quelle mancate proroghe erano stati “uomini d'onore, ma anche di capi mandamento che nella loro storia hanno abbracciato la causa corleonese stragista: Francesco Spadaro, Diego Di Trapani, Giuseppe Giuliano, Vito Vitale, Giuseppe Farinella, Antonio Geraci, Raffaele Spina, Giacomo Giuseppe Gambino, Giuseppe Fidanzati, Andrea Di Carlo, Giovanni Prestifilippo, Giuseppe Gaeta, Giovanni Adelfio ed altri”. “Il motivo di dare questo segnale di distensione ai mafiosi poi condannati per le stragi non si capisce”, ha ribadito laconicamente Teresi. Che, infine, ha ripreso quel noto dialogo tra l’ex esponente democristiano, Giuseppe Gargani, e Calogero Mannino “intercettato” casualmente dalla giornalista del Fatto Quotidiano, Sandra Amurri, il 21 dicembre del 2011. “Hai capito, questa volta ci fottono - aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri -, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
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