mannino-calogero-bigdi Lorenzo Baldo - 8 ottobre 2014
Palermo. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino entra in aula quasi in sordina. Passa frettolosamente accanto all’intero pool: l’aggiunto Teresi e i sostituti Di Matteo, Tartaglia e Del Bene. E’ la giornata che segna l’inizio della requisitoria al processo abbreviato che lo vede alla sbarra nello stralcio del procedimento sulla trattativa Stato-mafia. In aula è presente il referente territoriale del Coisp ed alcuni esponenti del mondo dell’associazionismo. Il gup Marina Petruzzella deve valutare il ruolo dell’ex deputato Dc all’interno di quel patto scellerato. Secondo l’impianto accusatorio Mannino avrebbe esercitato vere e proprie “pressioni” politiche ai fini dell’alleggerimento del regime carcerario del 41 bis per numerosi mafiosi a fronte dei timori per la propria incolumità sorti prima e dopo l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima. Nell’ottobre del 2009 l’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, aveva lanciato una sibillina provocazione: “La trattativa ha salvato la vita a molti politici”. Una frase emblematica, ma soprattutto un punto fermo nella tesi della Procura. Il pm Roberto Tartaglia esordisce sottolineando che “una parte importante delle istituzioni, non solo politiche, per esigenze egoistiche e individuali, contrabbandate da ‘ragioni di stato’” ha di fatto accettato “il dialogo e il compromesso con l’organizzazione mafiosa” realizzando così “i desiderata di Cosa Nostra”. Per Tartaglia è evidente che non sempre lo Stato si è trovato “unito” per combattere la mafia. E soprattutto è fondamentale “sgombrare il campo da un equivoco ricorrente e cioè che né Mannino né gli altri imputati sono imputati per avere trattato, ma gli sono contestate condotte nel corso della trattativa”. Inizia così un lungo viaggio in un pezzo di storia tra i più oscuri e ambigui del nostro Paese. Ma perché Mannino avrebbe avviato la trattativa con la mafia? Per semplificare si potrebbe rispondere: per salvarsi la vita.

Prima cronologia
Nel mese di febbraio ’92 (dopo il verdetto della Cassazione sul maxi processo) Mannino riceve a casa una corona di crisantemi. Pur avendo capito perfettamente quale messaggio di morte rappresentasse, si guarda bene dal denunciarlo. Qualche giorno dopo, però, confida al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. E così accade. Il 12 marzo Salvo Lima viene assassinato a Mondello. Tre settimane dopo, il 4 aprile, anche Guazzelli viene barbaramente ucciso. L’ex ministro democristiano vive nel terrore. Per gli inquirenti l’assassinio del maresciallo Guazzelli (mai del tutto chiarito) sarebbe stato deciso, dopo l’omicidio Lima, per lanciare un ulteriore messaggio di minaccia proprio a Mannino. Il sottoufficiale dei carabinieri aveva un legame diretto con l’ex deputato democristiano ed era diventato una sorta di trade-union tra lo stesso Mannino e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Lo stesso Riccardo Guazzzelli, figlio di Giuliano, lo aveva confermato successivamente agli inquirenti. Guazzelli jr aveva rivelato di un incontro, avvenuto prima dell’omicidio Lima, nel quale Mannino aveva esternato al suo padre il suo terrore di essere ucciso. Un’ulteriore conferma era giunta dalle annotazioni dell’ex colonnello del Ros, Michele Riccio, il quale, il 13 febbraio 1996, aveva scritto di suo pugno: “Sinico, confermato Subranni aveva paura della morte di Guazzelli (maresciallo) vicino a Mannino, De Donno fu fatto rientrare di corsa dalla Sicilia - Guazzelli fu avvertimento per Mannino e soci?”. Lo stesso Mannino, dopo l’omicidio di Guazzelli, incontra più volte a Roma il gen. Subranni, spesso in quegli incontri c’è anche l’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada.

Il contributo “morale” di Mannino
Nella sua requisitoria Tartaglia parla dei soggetti che hanno svolto altre funzioni: “gli intermediari di quelle minacce”. Coloro che sono stati “motore di quelle iniziative”. Nel caso di Mannino gli viene contestato un vero e proprio “contributo morale”, una sorta di “istigazione” all’attività criminale. Secondo la tesi della Procura Mannino è un “garante di continuità dell’interlocuzione intrapresa”. Secondo il pubblico ministero le condotte di Mannino e degli altri uomini dello Stato coinvolti “hanno oggettivamente portato alla realizzazione degli obiettivi” della mafia, contribuendo così ad “orientare la strategia stragista di Cosa Nostra nel 1992 e nel 1993”. Ma cosa c’entra Calogero Mannino con uno dei crucci dei mafiosi: il 41bis?

Quelle pressioni per un ammorbidimento sul carcere duro
Seguendo l’ipotesi accusatoria dei magistrati palermitani, dopo le minacce ricevute da Mannino Mori avrebbe contattato Vito Ciancimino per avviare una trattativa che vedrebbe tra i principali protagonisti proprio Calogero Mannino quale autore di “pressioni per un ammorbidimento del 41 bis”. Nei primi mesi del ’93 uno scambio epistolare tra l’amministrazione penitenziaria e il Ministero dell’Interno ci rivela che in quel periodo c’era una grande fibrillazione attorno alla possibilità di prorogare o meno i decreti di 41bis a scadenza annuale. Questa discussione si protrae nonostante le bombe di Roma, Firenze e Milano e si concretizza nel mese di novembre di quello stesso anno con la mancata proroga del 41bis per oltre 300 boss. Diversi anni dopo l’ex Guardasigilli dell’epoca, Giovanni Conso, dichiara di aver agito “in solitudine, senza informare nessuno”. Le testimonianze e la documentazione del biennio stragista lo smentiscono decisamente. Tra queste carte basta riprendere la nota del Dap del 26 giugno 1993 con la quale viene prevista una riduzione dei provvedimenti applicativi del 41bis in relazione proprio a quegli oltre 300 decreti emessi nel novembre del ‘92. Quel documento, così come scritto, è mirato a rappresentare un vero e proprio “segnale di distensione” a Cosa Nostra. La stessa ragione per cui, secondo l’ex ministro della giustizia, Conso, avrebbe lasciato scadere quelle proroghe. (segue)

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