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di-matteo-nino-c-giannini-big1Intervento integrale del pm Nino Di Matteo alla presentazione dell’opuscolo “Le memorie del male” organizzata lo scorso 9 aprile dall’ass. “Contrariamente”
“Non è facile intervenire in quest’aula, con tanti giovani e dopo avere visto un filmato così bello e per me emozionante. Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi, ai giovani, agli studenti, mi sento uno di voi. Se non altro, perché ormai tanti anni fa frequentavo quest’aula con il sogno di diventare un magistrato, di occuparmi di indagini e processi che riguardassero la mafia. Nei momenti di maggiore difficoltà o perplessità non dimentico mai di essere fortunato, perché sono riuscito a fare quello che sognavo fare.
Tutto questo mi crea una situazione che è veramente difficile da descrivere. Innanzitutto mi ricorda la cosa più bella del nostro essere magistrati.Non dovete infatti pensare sempre e soltanto a Nino Di Matteo, ma ad un gruppo di magistrati che ancora continua a sognare e a pretendere che la giustizia sia uguale veramente per tutti e, quindi, a cercare di fare il proprio dovere senza guardare in faccia nessuno. Queste vostre espressioni di vera solidarietà, spontanea, non organizzata, che non viene da partiti politici o sindacati, spesso nemmeno da associazioni ma da tanti cittadini liberi, per noi costituisce lo stimolo più autentico per andare avanti. Costituisce, soprattutto, un richiamo a quella che è la funzione essenziale del nostro lavoro, il servizio nei confronti della collettività. L’interesse, la solidarietà, la pretesa di verità e di giustizia che leggo nei volti, ascolto nelle voci di tanti giovani, da una parte costituisce lo scudo più efficace contro qualsiasi violenza o minaccia, dall’altra ci dà la forza di andare avanti, perché capiamo che, nonostante le difficoltà, nonostante l’indifferenza, nonostante gli ostacoli che tanti ci mettono sulla strada, c’è una fetta dell’opinione pubblica, e mi piace dirlo, soprattutto dell’opinione pubblica giovane e siciliana, che ha sete di verità e di giustizia.

Che ha voglia di liberarsi per sempre da quello stereotipo che ci vede condannati ad essere definiti mafiosi, di liberarsi per sempre non solo dall’organizzazione mafiosa intesa come Cosa Nostra, fatta da cosiddetti uomini d’onore, ma soprattutto di liberarsi per sempre dalla mentalità mafiosa, che ancora purtroppo pervade in maniera molto pregnante il tessuto sociale del nostro Paese.
di-matteo-baldo-le-memorie-del-maleTutto ciò che sta accadendo attorno ci fa un enorme piacere, ci responsabilizza enormemente. E' giusto che sia così, ci ricorda che il nostro è un lavoro bello, nonostante tutto entusiasmante, perché se fatto bene, con impegno, dà la sensazione di potere costituire un contributo veramente utile alla società. Questo è il riconoscimento più vero e più bello che un magistrato possa vivere dentro di sé. Altro che carriera, altro che notorietà, altro che acquisizione di prestigio o di potere. Ragazzi, il magistrato non è questo, il magistrato non è soltanto il tecnico del diritto, che deve aspirare a scrivere la bella sentenza o a pronunciare l’elegante requisitoria o a dimostrarsi un perfetto teorico del diritto. Guai se fosse questo, o solo questo.
Soprattutto, ci troviamo in un’aula nella quale hanno studiato non soltanto Chinnici, Falcone, Borsellino, ma penso a Saetta, penso a Livatino, penso a Ninni Cassarà, a tanti altri che hanno sacrificato tutto in nome di un ideale di giustizia e che hanno lasciato una traccia della quale noi dobbiamo essere orgogliosi, intanto come cittadini palermitani e siciliani, come studenti di questa facoltà di giurisprudenza. Io credo che non dobbiate mai dimenticarlo per un attimo,e avere sulle spalle e portare nel cuore l’orgoglio di poter tentare di fare, ciascuno con il vostro ruolo, la vostra capacità e il vostro contributo, quella che è una lotta di liberazione.
La lotta di liberazione dalla mafia e dalla mentalità mafiosa non è una lotta che possono vincere soltanto i magistrati e le forze dell’ordine. È una lotta che si vincerà, sono convinto, ma attraverso innanzitutto una rivoluzione culturale che deve partire dal basso, dai giovani impegnati come voi.
Questo è quello che vi voglio dire nel ringraziarvi, nel ringraziare tutti i cittadini e il movimento Scorta Civica per tutto quello che sta facendo. Ci dicono che siamo magistrati alla ricerca del consenso, della popolarità, ci accusano di essere 'magistrati star' e vi dico che non hanno capito assolutamente nulla. L’attenzione della gente non è nei confronti del personaggio magistrato, ma è una pretesa di cambiamento, di verità e di giustizia che tanti continuano a sottovalutare, perché pensano che il potere perpetui se stesso e che, anche nelle sue estrinsecazioni mafiose, sia inestinguibile.
Io sono convinto che attraverso il cambiamento che sta nascendo, soprattutto a partire dai giovani, tutto questo cambierà, ci vorranno anni, generazioni di uomini e donne che antepongano a tutto il resto, alla carriera, al potere, al quieto vivere, al benessere, il coraggio e la dignità. Anche nell’indossare quella toga di magistrato, di avvocato, che vi auguro di indossare al più presto. Fatelo sempre non dimenticando mai le persone che per indossare questa toga o per indossare con dignità una divisa hanno sacrificano persino la loro vita”.

Abbattere l’apatia e l’indifferenza per lottare la mafia
“Mi rivolgo soprattutto ai ragazzi, senza nessuna pretesa di insegnare nulla a nessuno: Rocco Chinnici, Falcone, Borsellino, Mattarella, Cassarà e tutti gli altri sono morti per mano dei mafiosi, sono morti a seguito delle autobombe o delle raffiche di kalashnikov, ma sono morti anche e ancor prima di essere uccisi per l'indifferenza che caratterizzava una fetta così ampia della popolazione palermitana, siciliana, italiana. Ho quasi pudore nel ricordare determinate situazioni che ho conosciuto soltanto dallo studio degli atti processuali, che invece Giovanni Chinnici ha vissuto personalmente e amaramente sulla propria pelle, ma non dimentichiamoci che il contesto in cui venne ucciso il consigliere Rocco Chinnici nell’83 e il contesto nel quale, da quelle prime indagini così importanti, l’opinione pubblica palermitana non soltanto nei quartieri difficili o permeati dalla mentalità mafiosa, ma anzi soprattutto nell'espressione della sua borghesia, chinnici-rocco-c-ansareagiva dicendo, più o meno a mezza bocca, che il dottor Chinnici era politicizzato, che era un giudice comunista, che perseguiva finalità di carriera, che era un giudice sceriffo che andando nelle scuole a parlare con i ragazzi dava sfogo alla sua voglia di protagonismo.
Le stesse accuse che una fetta altrettanto consistente della nostra società civile fece a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sono espressioni di una mentalità che è ancora dura a morire. Vi prego, ragazzi, una cosa sola: non lasciamoci vincere dall’apatia e dall'indifferenza rispetto al problema della mafia. Perché, oltre a questa ostilità di cui ho parlato, una larghissima fetta di opinione pubblica, con la sua indifferenza e con il suo stare a guardare questa partita, come se fosse una partita di calcio o di tennis tra la mafia e i pochi che si contrapponevano, ha di fatto rafforzato enormemente la potenza di Cosa Nostra. L’organizzazione mafiosa non sarebbe mai riuscita e non riuscirebbe mai, ora e in futuro, a sfidare nel modo in cui ha sfidato lo Stato, mettendo le bombe in pieno centro a Palermo, facendo saltare le autostrade, colpendo beni monumentali a Roma, a Firenze e a Milano, se non ci fosse stata una colpevole indifferenza di tanti, autorità pubbliche, politiche e anche semplici cittadini, rispetto al problema mafia.
Vi prego, non siate indifferenti. Conoscete, cercate di informarvi, criticate, è vostro sacrosanto diritto anche non avere tutti la stessa idea e non avere tutti lo stesso atteggiamento di consenso nei confronti della magistratura, ci mancherebbe altro. Anzi, state con il fucile puntato sui magistrati, ma con il fucile puntato della vostra attenzione, della vostra pretesa che la magistratura faccia la propria parte, che guardi al criterio della doverosità di quello che si fa. Senza tentennamenti, senza tatticismi, ma cercando soltanto di perseguire una via di verità e di giustizia secondo il criterio fondamentale dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge”.

Lotta alla mafia senza colore politico, ma che sia priorità!
“Il pittore Gaetano Porcasi, che con i libri che raccolgono i suoi dipinti narra una storia bellissima, tragica, ma anche nobile della Sicilia, ha detto una cosa dalla quale voglio prendere spunto per una riflessione: la lotta alla mafia non deve avere colore politico. Sono assolutamente d’accordo, però prendo spunto da questo concetto, credo incontestabile, per dire che se la lotta alla mafia non deve avere colore politico, la politica deve finalmente farsi carico (o tornare a farsi carico) della lotta alla mafia, che invece non ha costituito, al di là delle parole, negli ultimi decenni una vera priorità nella storia del nostro Paese.
La magistratura è stata accusata tante volte, soprattutto negli ultimi vent’anni, di essere politicizzata e di volersi sostituire alla politica. Io credo che sia avvenuto in Italia l’esatto contrario: la politica ha delegato esclusivamente alla magistratura il controllo di legalità. Si è arrivati ad una situazione in cui l’unico tipo di responsabilità che sembra potersi far valere in questo Paese è quella penale, che discende dalla dimostrazione che una determinata condotta costituisce un reato, e quando ci sono le prove costituisca un reato volontariamente e consapevolmente commesso da qualcuno in carne ed ossa e si possa arrivare ad una condanna di questo qualcuno.
porcasi-fava-dipintoIo dico che, proprio studenti di diritto come voi, prima di tutti gli altri, dovrebbero capire e riflettere su un dato. Non può esistere soltanto un criterio di responsabilità politica: tutti noi che siamo nati, vissuti e cresciuti in questa terra, per esempio, sappiamo quanto enorme sia il vantaggio per l’organizzazione mafiosa se io, eventualmente candidato in una qualsiasi elezione, comunale, regionale, nazionale, sapendo chi è il capomafia del mio paese, una domenica mattina me lo metto sotto braccio e mi faccio una passeggiata per la strada principale del paese. E' chiaro a tutti che quella condotta non costituisce un reato, che non potrà fare scaturire un processo. Ma vivaddio, sappiamo tutti quanto quel tipo di condotta rafforzi enormemente il prestigio mafioso, la capacità dell’organizzazione mafiosa di avere nuove adesioni, la capacità di intimidazione del potere mafioso nei confronti della collettività.
E allora, laddove non c’è responsabilità penale potrebbe e dovrebbe, ed è quello che è mancato a mio parere nella storia più recente della nostra Repubblica, farsi valere una responsabilità di tipo diverso. In quel caso, per esempio, una responsabilità politica degli organismi direttivi dei partiti e dei movimenti, che dovrebbero isolare, allontanare quel tipo di persona che si comporta in questo modo non candidandolo. Dovrebbe esistere una responsabilità diffusa a livello amministrativo e deontologico.
Noi abbiamo avuto, nell’indagine che poi ha portato all’incriminazione e alla condanna dell’ex Presidente della Regione Siciliana (Salvatore Cuffaro, ndr), l’esperienza di esserci imbattuti in un'intercettazione ambientale molto importante dal punto di vita investigativo processuale a casa del capo mandamento di Brancaccio, che non era il classico mafioso con coppola e lupara. Era un medico, ex primario dell’ospedale civico di Palermo, una persona che sapeva parlare brillantemente e che parlava con tutti. Al mattino riceveva i suoi affiliati alla cosca di Brancaccio e discuteva di estorsioni, di appalti, di omicidi, di intimidazioni, la sera riceveva colleghi medici e politici, che invece gli parlavano di candidature, di rappresentanti della Regione Siciliana a Bruxelles da individuare per poter favorire Cosa Nostra e quant’altro.
Tra questi soggetti che andavano a trovare il capomafia – un soggetto che era già stato definitivamente condannato per la sua appartenenza all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra – c’era un avvocato, il quale sapeva benissimo, se non altro per avere assistito il suo cliente nel precedente processo, che quella persona era stata accusata e condannata per essere un capomafia, ma gli andava a chiedere l’appoggio perché si impegnasse con l’allora aspirante Presidente della Regione per farlo inserire in una lista politica per le elezioni regionali del 2001. cuffaro-salvatoreUn avvocato chiedeva una cortesia di natura politica al mafioso: quell’avvocato non ha commesso un reato, non ha dato un contributo all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra per il quale la magistratura lo ha potuto incriminare per concorso in associazione mafiosa. Casomai ha chiesto un favore all’organizzazione mafiosa e al mafioso. Non è sanzionabile penalmente, ma dovrebbe essere sanzionabile da un punto di vista deontologico e questo, nel caso di specie, non è avvenuto, proprio perché si tende, volutamente o colpevolmente, a pensare che la responsabilità penale esaurisca il disvalore di una condotta.
Allora non è la magistratura che generalmente e genericamente ha invaso il campo della politica. Io credo che nella lotta alla mafia sia stata la politica a fare non uno, ma dieci passi indietro e a lasciare scoperta la magistratura, come se l’affare e la questione dell’antimafia dovesse essere appannaggio solo di magistrati e forze dell’ordine.
Ragionare in questo modo, consentitemi di dirlo, non è attaccare la politica. Da cittadino, prima ancora che da magistrato, non mi permetterei mai perché so che quella è la funzione più bella e più nobile, però sogno un politica antimafia diversa, sogno che si ritorni a quell’antimafia che, a prescindere dall’appartenenza politica dell’onorevole Pio La Torre, gli faceva scrivere già nel 1976 la Relazione di Minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia, primo firmatario Pio La Torre: in quella relazione c’erano scritti i nomi e i cognomi degli esponenti politici, i vari Lima, Ciancimino, Gioia, dei professionisti, il commercialista Mandalari, di tanti imprenditori che colludevano con i corleonesi di Riina e Luciano Liggio. C’erano scritti quando ancora quei nomi non erano contenuti nei rapporti di Carabinieri e di Polizia e non erano oggetto di indagini e processi dei giudici.
Ecco un esempio di una politica che non è che sta al fianco, ma addirittura sta avanti rispetto all’azione repressiva della magistratura e delle forze dell’ordine nel denunciare il malaffare politico, perché – ne sono convinto – un politico, un amministratore comunale, rispetto a una questione che nasconde interessi mafiosi sul territorio (l’insediamento in un centro commerciale, un'adozione di uno strumento urbanistico) è in grado di cogliere subito l’interesse mafioso e ha il dovere, prima che nasca l’indagine e prima che si crei il rapporto, di chiudere la porta in faccia al mafioso. Io credo che questo sia il salto di qualità attraverso il quale la politica potrà essere decisiva nella lotta alla mafia”.

Una trattativa nel nome di uno stato di necessità?
“Un altro concetto che volevo sviluppare è stato ricordato e sottolineato dal professor Militello: se lo Stato vuole, certamente è più forte della mafia. Una affermazione suffragata dai fatti. Allora mi chiedo, che senso ha poter scrivere e sostenere che un dialogo tra lo Stato e l’organizzazione mafiosa possa essere giustificato da uno stato di necessità? Non c’è bisogno di essere preclari storici, o preclari giuristi, basta conoscere un poco la storia dell’organizzazione mafiosa per poter dire che, ogni qualvolta la mafia è stata cercata, ha avuto la sensazione di essere cercata o di poter instaurare un dialogo con pezzi delle istituzioni, ha rafforzato il proprio intento criminoso, la propria consapevolezza della potenza del crimine e dell'impunità. È riina-salvatore-web1scritto in quelle sentenze definitive che quando Salvatore Riina acquisì la consapevolezza che qualcuno delle istituzioni lo stava cercando, per vedere cosa volesse in cambio della cessazione della strategia stragista, Salvatore Riina convocò la commissione provinciale di Cosa Nostra e disse: ‘Ci vuole subito un altro colpetto’, che significa un’altra bomba, un’altra strage. Storicamente non è avvenuto soltanto nel ’92 e nel ’93, quando lo Stato ha dimostrato di voler dialogare con l’organizzazione Cosa Nostra, a prescindere dall’aspetto eticamente riprovevole di riconoscere l’organizzazione mafiosa come interlocutore politico. Per andare ad un aspetto certamente più pragmatico, ha comunque rafforzatoil suo intento di violenza.
Al di là delle disquisizioni storico giuridiche, che avrebbero potuto avere anche il pregio di una documentazione più completa rispetto a quella che ha sorretto determinati scritti, soprattutto non posso essere io a entrare nel particolare e in questa sede di quella che ritengo una totale non condivisibilità di quello che è stato sostenuto nel libro di Fiandaca e Lupo, dico che storicamente non evidenziare che al dialogo con Cosa Nostra è sempre conseguito un accrescimento della sua potenza e una perpetuazione all’infinito del suo potere di ricatto è, a mio parere, una grave dimenticanza o negligenza.
Anche perché ho avuto l’opportunità, da un punto di vista professionale incredibile, forse troppo pesante per le mie spalle, ma da un punto di vista umano di arricchimento, di occuparmi, quando ero a Caltanissetta, del processo per la strage di Chinnici, la strage di Capaci, la strage di Via d’Amelio, per l’omicidio del Giudice Saetta e del figlio, per tanti altri fatti di uccisione di personalità istituzionali. E se quelle personalità istituzionali sono entrate nel mirino delle organizzazioni mafiose e non solo, sono entrati nel merito perché le organizzazioni mafiose hanno avvertito subito e hanno individuato questi come soggetti che, a differenza di altri, pur appartenenti alle istituzioni, non erano disponibili a chiudere un occhio e a trattare, non erano disponibili per quieto vivere a voltarsi dall’altra parte ma consideravano, come discendeva dal loro giuramento sulla Costituzione, l’organizzazione mafiosa e i delitti commessi come un qualcosa da perseguire a tutti costi, senza mediazioni, senza tentennamenti, senza trattative e senza opportunismi”.

Una (errata) questione di “opportunità”
“Un’altra cosa che mi preme trasmettervi è quella per cui il magistrato non deve mai abbandonarsi, nel momento in cui opera una qualsiasi scelta, da quella iniziale, dall’indagine, l’iscrizione di un soggetto nel registro degli indagati, a quella dell’esercizio dell’azione penale, a quella della richiesta o a quella della sentenza finale, non deve mai ispirarsi a dei criteri di opportunità. Troppo spesso sento, in questo Paese, dire: ‘quell’indagine’ o ‘quell’iniziativa processuale è lecita, è legittima, i magistrati non hanno violato alcuna norma del Codice Penale, di Procedura Penale, o di qualsiasi altro Codice, però non è opportuno, così si mettono in discussione le più alte cariche dello Stato. Non è opportuno’. Io sogno una magistratura che bandisca il criterio dell’opportunità dalle proprie regole di comportamento perché, se in funzione di un’attività investigativa un’intercettazione è legittima e come tale viene riconosciuta dal Giudice, quell’intercettazione è doverosa, auspicabile e opportuna sia se intercetto l’ultimo dei criminali di strada, sia se intercetto personalità istituzionali che magari possono parlare con altre personalità istituzionali. Eppure rispetto a quello che è accaduto nella vicenda del conflitto di attribuzioni, nessuno, nemmeno la Corte Costituzionale ha detto: ‘La Procura di Palermo ha violato una regola, non ha applicato una norma del Codice Penale e di Procedura Penale’. Tanti, anche autorevoli opinionisti,  hanno fatto ricorso a dei criteri o delle indicazioni di inopportunità”.

Le indagini da perseguire scritte nelle sentenze
“Certamente non posso entrare nello specifico di vicende processuali che seguo da Pubblico Ministero, ma dico una cosa: quando nel 2008/2009 la Procura di Palermo e la Procura di Caltanissetta, riaprirono contestualmente le vicende delle indagini sulla trattativa a Palermo e sulla strage di Via d’Amelio a Caltanissetta, anche in esito alle dichiarazioni del figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino, e di un mafioso come Gaspare Spatuzza, poi divenuto collaboratore di giustizia, l’allora Presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi, ndr), non un quisque de populo, disse che si trattava di soldi sprecati e tempo perso.
ciancimino-massimo-web6Io dico invece che è proprio nelle sentenze definitive che riguardano gli esecutori e gli organizzatori mafiosi che emerge la necessità di andare avanti. La necessità di capire tutte quelle anomalie che sono consacrate in quelle sentenze definitive e che gli stessi Giudici sottolineano. L’anomalia del fatto la strage di Via d’Amelio seguì di soli 57 giorni la strage di Capaci, che nella storia di Cosa Nostra non si era mai realizzato. L’anomalia dell’accelerazione improvvisa della volontà di uccidere Paolo Borsellino. L’anomalia di quarantatré anni di latitanza di Bernardo Provenzano. L’anomalia della mancata perquisizione del covo di Salvatore Riina in occasione del suo arresto. L’anomalia dell’individuazione di beni storico artistico monumentali da parte di soggetti, quelli condannati per le stragi del ’93 che – credetemi ragazzi io questi li ho conosciuti tutti, li ho interrogati per centinaia di ore – hanno un grado di preparazione culturale che non mi convince sul fatto che abbiano potuto loro scegliere e individuare i beni a Roma, a Firenze e Milano dove mettere le bombe. Le anomalie di rivendicazioni della Falange Armata che in certi casi erano annunci di attentato. Tutte queste cose sono scritte nelle sentenze.
Allora, se noi vogliamo dimenticare quello che è successo nel ’92 e nel ’93 e cercare di onorare, o fingere di onorare la memoria dei nostri morti soltanto con le rappresentazioni folcloristiche del 23 maggio e del 19 luglio lo possiamo fare, sono manifestazioni utili, ma quello che non è ammissibile è che ci si limiti a questo. Possiamo fare finta di commemorare, e possono farlo anche quei politici che vengono il 23 maggio e poi, durante tutto il resto dell’anno, ostacolano il lavoro dei magistrati. Ma se vogliamo veramente onorare la memoria di chi è morto, la memoria di tuo padre, Giovanni, la memoria di tutti, se vogliamo onorare la dignità di noi che facciamo questo lavoro, di voi che questo pomeriggio siete qua, non ad ascoltare, ma a partecipare, a respirare le vicende di mafia e antimafia, noi dobbiamo pretendere di andare avanti.  E voi dovete pretendere da noi, dallo Stato in tutte le sue articolazioni, che si vada avanti senza tentennamenti e senza indecisioni”.

Una rivoluzione culturale per sconfiggere la mafia
“Sento di dirvi un’altra volta grazie, per tutto quello che tanta parte della popolazione sta dimostrando a Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e agli altri magistrati, per quello che il popolo italiano sta dimostrando con una passione civile… trent’anni fa ero lì, ero seduto insieme a voi e coltivavo la mia passione per l’antimafia con pochi amici. Non a scuola o nelle università, non si parlava di queste cose. La coltivavo da solo con qualche amico, leggevo i giornali, cercavo di informarmi. Oggi avete molta più possibilità e questo a dimostrazione del fatto che nella nostra cultura siciliana siamo imbevuti dalla mentalità della rassegnazione, sapeste quante volte anch’io mi sono sentito dire e mi sento dire, anche da persone a cui voglio bene, pulite, coraggiose: ‘Ma chi te lo fa fare? Ma tanto non cambierà mai niente. Ma tanto non arriverete a niente’. Io vi dico che non stanno così le cose, perché le cose sono cambiate in questi trent’anni. Voi oggi siete qui all’Aula Magna di Giurisprudenza a parlare e a discutere di mafia e antimafia, trent’anni fa l’ala militare di Cosa nostra era padrona della Sicilia, i boss mafiosi camminavano per le vie della nostra città, dei nostri paesi e magari venivano riveriti anche da persone apparentemente pulite. Oggi sono sepolti al 41 bis, condannati definitivamente a decine di ergastoli che stanno scontando. di-matteo-stretta-di-mano-contrariamenteTanto è cambiato, a dimostrazione del fatto che si può cambiare, ma adesso abbiamo bisogno di uno scatto in avanti. Le istituzioni devono capire che si deve fare il salto di qualità. Si deve, con altrettanta incisività, rigore, coerenza e costanza, cercare di recidere i rapporti tra la mafia e la politica, la mafia e l’imprenditoria, la mafia e le istituzioni. Mi preoccupa, al di là del fatto a cui accennava il professor Militello, della differenza del testo che è uscito dalla Camera sul voto di scambio con quello che, a mio parere è molto migliore, era uscito dal Senato. Mi preoccupa che questa previsione di abbassamento della pena rispetto al 416 bis è figlio di una cultura che è dura a morire, per cui il fenomeno è grave soltanto se riguarda il partecipe. Magari il pensionato del paese dell’interno della Sicilia che venne affiliato vent’anni fa e che oggi, anche perché anziano, non è più capace nemmeno di camminare, quindi non fa estorsioni, non traffica in stupefacenti, non progetta omicidi, non fa più niente, però se scopriamo oggi le prove della sua appartenenza lo processiamo e lo condanniamo per 416 bis ad una pena più elevata rispetto a quella che potremmo comminare al mafioso e al politico che si mettono d’accordo, consapevolmente d’accordo, per uno scambio di consenso elettorale in favore di una promessa di appalti, di finanziamenti, di favori, di raccomandazioni.
Ma è più grave quel comportamento o quello del rapporto mafia – politica? Al di là dei casi specifici in cui poi, certamente, il Giudice può graduare la pena, credo che l’approccio del legislatore che considera meno grave il voto di scambio politico mafioso, con la previsione di pene editali molto più basse, è un approccio che risente di un pregiudizio ‘culturale’, per cui è pericoloso solo il delinquente che estorce, che spara e non è pericoloso, quello con il colletto bianco.
La politica può fare questo salto di qualità, può aiutare tutti a farlo, ma, così come ricordava con l’orgoglio del suo impegno, prima ancora che politico civile, l’assessore Scilabra, tutti noi cittadini e voi giovani in particolare avete la possibilità, con i comportamenti quotidiani, di portare avanti una rivoluzione culturale. E, al contrario di tante riflessioni giuste che mi fanno capire quanto sia lontana la fine della lotta alla mafia, penso che, come diceva Giovanni Falcone: alla fine il fenomeno mafioso verrà assolutamente debellato.
Mi piace concludere ricordando a me stesso, ma soprattutto sottolineando a chi, come Giovanni Chinnici, come tanti, hanno vissuto sulla propria pelle la tragedia della morte di un proprio caro, di un proprio congiunto, di un proprio amico, che quelle morti inutili non sono state. Se tanti ragazzi sono qua, se in tanti oggi a livello politico, istituzionale, a livello di magistratura, di forze dell’ordine, cercano quotidianamente di fare il loro dovere, l’esempio Rocco Chinnici, dei nostri morti, in questo impegno, in questa attività, ha un ruolo e uno spessore e un significato assolutamente fondamentali”.
(trascrizione a cura di Cristina Pinna)

Foto © Agnese Monasteri
Nino Di Matteo e Lorenzo Baldo, il dipinto di Gaetano Porcasi dedicato a Pippo Fava e la stretta di mano del pm

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