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L'intervento del direttore de 'Il Fatto Quotidiano' all'evento 'Fuori la mafia dello Stato'

I depistaggi sulla strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992 “durano tutt’oggi, anche in Parlamento dove la commissione antimafia che dovrebbe occuparsi di mafia, si sta occupando invece di accreditare una delle bufale depistanti - purtroppo anche con il concorso di parenti di vittime innocenti di mafia e i suoi avvocati - ovvero il movente delle stragi del ’92, che sarebbe stato quello di bloccare e insabbiare l’inchiesta Mafia-appalti del Ros. Ed è incredibile come nelle audizioni antimafia si ascoltino cose senza senso e non attinenti alla realtà dei fatti. Si dice che l'inchiesta mafia appalti del Ros fu insabbiata e archiviata dalla procura di Palermo all'epoca capitanata da Giammanco e poi passata nelle mani di Caselli. Ma non è vero niente. Ci fu un'iniziale archiviazione di una parte che non era supportata da prove e poi ci fu una ripresa delle indagini; e poi ci furono un'ondata di arresti e una raffica di condanne. Nel frattempo quelli che oggi vengono accusati addirittura di avere insabbiato un'indagine che non fu insabbiata, per esempio il Pubblico Ministero Roberto Scarpinato (oggi senatore, ndr), il Pubblico Ministero Ingroia, il Pubblico Ministero Principato e tanti altri della stagione caselliana?".
Sono state queste le parole del direttore de "Il Fatto Quotidiano" Marco Travaglio, intervenuto in video durante l'evento "Fuori la mafia dallo Stato", svoltosi a Porto San Giorgio il 13 marzo.
La serata è stata organizzata dal gruppo locale del Movimento Agende Rosse. Ospiti dell’evento, oltre a Travaglio, Salvatore Borsellino, Luana Ilardo, figlia di Luigi Ilardo, ex boss mafioso divenuto confidente dei carabinieri, assassinato prima di diventare ufficialmente collaboratore di giustizia, Stefano Baudino, giornalista e scrittore, Angelo Garavaglia Fragetta, cofondatore e membro del direttivo del Movimento delle Agende Rosse, e Mario Ravidà, commissario in quiescenza della Polizia di Stato già in servizio alla DIA.
Abbiamo più volte scritto come il teorema secondo il quale il dossier (o più precisamente l'annotazione) 'mafia appalti' sia stata la causa scatenante della strage del 19 luglio 1992 si basi sul nulla. Si tratta di una tesi già sconfessata diverse volte ma che vede coincidere le posizioni dell'avvocato dei figli di Borsellino con quelle degli avvocati difensori degli ufficiali del Ros (Mori, Subranni e De Donno), nel processo trattativa Stato-mafia. Del resto non poteva essere diversamente dopo le immagini che hanno visto ritratti tutti assieme appassionatamente la delegazione del Partito Radicale, il generale Mario Mori e l’avvocato Fabio Trizzino, accorsi dalla Presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo per esprimerle la loro solidarietà dopo le critiche sulla sua elezione.
Dunque si può essere sorpresi, ma solo fino a un certo punto, per questa campagna di negazionismo e "revisionismo storico sulle vicende più torbide dei rapporti fra la mafia e la politica, fra le stragi, i mandanti diretti e i mandanti esterni che tutti sanno esistere. Anche se tutti si affrettano e si affannano a negare e a depistare".
La destra al governo, più berlusconiana di quando era vivo Silvio Berlusconi, è normale che appoggi la campagna di delegittimazione contro i magistrati che hanno avuto il coraggio di far luce su uno dei periodi più bui della nostra Repubblica.
Una campagna che parte da lontano, cioè da quando iniziarono le indagini sulla Trattativa tra lo Stato e la mafia.
È necessario ribadire per l’ennesima volta che non è un semplice teorema "perché chi ha condotto quella trattativa l'ha chiamata così e l'ha raccontata". Gli ex ufficiali dell'Arma Mario Mori e Giuseppe De Donno lo ammisero davanti alla "Corte d'Assise di Firenze che indagava sulle stragi del '93". "Sono loro che parlano per primi di trattativa insieme a Brusca", ha ribadito il giornalista sottolineando che "quindi non c'è nessuna sentenza che possa smentire i protagonisti, i testimoni oculari, gli artefici di quella trattativa e i destinatari di quella trattativa".
Nessuna sentenza, ha continuato il giornalista, potrà mai cancellare il merito del processo condotto dai magistrati Nino Di Matteo, Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, e cioè quello di "aver ricostruito nel dettaglio molte vicende che prima non erano note, testimonianze di politici e uomini delle istituzioni che per anni hanno taciuto fino a quando le rivelazioni di Brusca, Ciancimino jr e altri non li hanno costretti a ricordare. La ricostruzione storica presente nelle carte della procura di Palermo e soprattutto nella sentenza di primo grado non le può cancellare nessuno".
Certo, la Cassazione ha mandato tutti assolti. Mori, De Donno e Antonio Subranni, non colpevoli "per non aver commesso il fatto". Marcello Dell'Utri non colpevole "per non aver commesso il fatto". I soliti boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, "salvati" dalla prescrizione, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato, riformulato in "tentata minaccia a corpo politico dello Stato".
Fermo restando che le sentenze devono essere rispettate, seppur possono non essere condivise, non è accettabile che determinati fatti vengano obliterati.
Oltre alla Trattativa, infatti, Mori fu protagonista anche della mancata perquisizione del covo di Riina: è noto che per quella vicenda ci fu un processo che vide Mori ed il “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio) uscirne assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
Quella sentenza però mise in luce le pecche operative compiute nella scelta di non effettuare immediatamente la perquisizione ed individua condotte 'certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare'.
La magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione con la garanzia che sarebbe stata fatta un'osservazione del covo, ma che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non informarono le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.
Così, quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, la cassaforte smurata, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie ed i rivestimenti staccati, per eliminare eventuali tracce di DNA.
Non dimentichiamo anche un'altra sentenza di assoluzione che ha riguardato Mori: quella per il mancato blitz a Mezzojuso dove si nascondeva Bernardo Provenzano. Il nascondiglio, ricordiamo, gli era stato indicato più di una volta dall'infiltrato Luigi Ilardo, assassinato il 10 maggio 1996.
In quel processo l'ex generale era imputato con il colonnello Obinu ed anche in quella occasione vi furono assoluzioni perché "il fatto non costituisce reato". Durante il processo gli ufficiali dell'Arma si giustificarono dicendo che la cattura del super latitante non venne eseguita a causa dell'eccessiva presenza di pecore e pastori.
La sorte degli ex imputati la sappiamo quindi. Ma quella dei magistrati che hanno scoperto queste porcherie?
Secondo alcuni dovrebbero 'scusarsi' per aver fatto semplicemente il loro dovere.
Ma i soli che dovrebbero farlo sono coloro i quali "che ancora oggi nei loro libri, che vanno a presentare in giro, rivendicano di avere trattato con la mafia e dicono che lo rifarebbero un'altra volta".

Foto © Imagoeconomica

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