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Il sostituto procuratore nazionale antimafia a 'Tagadà' presenta "Il colpo di spugna", scritto con Saverio Lodato

📺 Guarda l'intervento al minuto: 1h.11'.06''


I fatti emersi "restano lì": primo fra tutti il dialogo "cercato" da "esponenti importanti delle istituzioni" tramite "Vito Ciancimino, Riina e Provenzano" per "far cessare la strategia delle stragi" mentre "c'era ancora il sangue della strage di Capaci sull'asfalto dell'autostrada".

Sono state queste le parole del sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, intervistato da Tiziana Panella per il programma Tagadà su 'La7'.

Il magistrato è tornato a parlare così del processo Trattativa Stato - Mafia ricordando di aver scritto "insieme al giornalista, grande esperto di mafia, Saverio Lodato" il libro “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia il processo che non si doveva fare”, edito da Fuoriscena-Libri Rcs) con l'intento di "cercare di riportare un po' di verità e di chiarezza su tutto quello che è stato detto all'indomani delle sentenze della Cassazione. È stato detto che quel processo era frutto delle fantasie complottistiche di pochi pm e pochi giudici. Ho scritto questo libro perché ho sempre ritenuto che le sentenze della magistratura devono essere rispettate ma possono essere criticate, anche quelle della Cassazione. La Cassazione non ha il dono della infallibilità e soprattutto devono essere vagliate attentamente le sentenze della Cassazione quando in poche pagine demoliscono un impianto probatorio che era stato riconosciuto valido in primo e secondo grado e spiegato agli italiani con decine di migliaia di atti e di motivazione di sentenza”.

Tuttavia la Suprema Corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni modificando la formula da ‘il fatto non costituisce reato’ a ‘non aver commesso il fatto’. Ugualmente i giudici giudicavano Marcello Dell'Utri non colpevole "per non aver commesso il fatto", mentre i soliti boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, venivano 'salvati' dalla prescrizione.


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Un giudizio "molto ingeneroso", secondo Di Matteo, non solo nei confronti dei pubblici ministeri ma anche dei giudici "che in primo e secondo grado avevano comunque accertato fatti importanti, storicamente importanti".

Primo fra tutti il dialogo tra l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino e l'ex ufficiale dell'Arma Mario Mori: in una sua deposizione del 1997, quando venne sentito come testimone al processo sulla strage di Via dei Georgofili a Firenze, raccontò che dopo la strage di Capaci aveva contattato l’ex sindaco chiedendogli: 'Cosa è questo muro contro muro tra stato e mafia', 'cosa vogliono questi signori per far cessare le stragi', 'veda di capire cosa vogliono'.

E fu sempre lo stesso Mori a riferire che Ciancimino ebbe poi a dirgli: 'Hanno accettato il dialogo'.

Una presa di posizione inconcepibile per un uomo di Stato perché "accedere a mediazione o compromessi significa rafforzare enormemente il potere delle mafie" ha ribadito Di Matteo ricordano come i boss, consapevoli che "la loro strategia stava dando dei frutti - che lo 'Stato si era fatto sotto' come disse Riina - hanno continuato e hanno fatto le stragi del '93".

Il sostituto procuratore nazionale antimafia ha poi ricordato i riferimenti delle prime due sentenze in cui "i giudici di merito avevano accertato che il dialogo a distanza tra parte delle istituzioni e l'ala cosiddetta moderata di Cosa Nostra (Provenzano) c'era stato. Avevano accertato che lo Stato, ai suoi massimi livelli, aveva percepito la strategia stragista di Cosa Nostra come una minaccia", come testimoniò ad un certo punto l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che all'epoca delle stragi era Presidente della Camera dei Deputati.

Al di là della sentenza della Suprema Corte il processo Trattativa è stato costruito sull'obbligo dei pubblici ministeri di promuovere l'azione penale facendo valere il precetto costituzionale di "eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge".


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La riforma della giustizia a due velocità

Durante il programma si è anche parlato delle recenti riforme della giustizia marchiate Cartabia e Nordio.

Guardandole con una "visione d'insieme", ha sottolineato il magistrato palermitano, si trae una conclusione molto "amara": "Si sta andando sempre più verso una giustizia a due velocità" e "verso uno scudo di protezione verso i potenti". Questo comporterà la creazione di un sistema che limiterà "l'incisività delle indagini dei pubblici ministeri, dei magistrati in generale, nei confronti dei potenti e che limita il diritto all'informazione su fatti che sono oggettivamente rilevanti dei cittadini".

Il riferimento è sul "bavaglio ai magistrati" e ai giornalisti, ai quali è stato imposto il divieto di "pubblicare atti non più coperti da segreto". Tutto questo delinea un quadro preoccupante che si fa ancora più sinistro nel momento in cui, tra le righe, emerge con fare strisciante il piano di rinascita democratica della P2 guidata da Licio Gelli. Non è infatti un caso che questo governo si sia posto come obiettivo la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice.

La stragrande maggioranza della stampa e chi dovrebbe informare il popolo resta in silenzio lasciando a pochi l'onore di esporsi: "Chi ha giurato sulla Costituzione, come noi magistrati, su questi temi non ha soltanto il diritto di intervenire, ma forse anche il dovere di farlo" ha ricordato Di Matteo.


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I buchi sulla cattura di Matteo Messina Denaro

"La mafia, Cosa nostra in particolare, era già riorganizzata a prescindere" da Matteo Messina Denaro ha detto Nino Di Matteo; per questo è necessario non lasciarsi prendere da facili trionfalismi, come se la mafia fosse stata sconfitta per sempre, "come se le stragi o la strategia di attacco frontale alle istituzioni non potesse essere nuovamente adottata da Cosa Nostra", ha detto Di Matteo.

Per ora le mafie si limitano a mimetizzarsi nel tessuto sociale e stringere rapporti con la politica, l'imprenditoria e altri settori della cosa pubblica.

L'arresto di Messina Denaro, avvenuto il 16 gennaio del 2023, "ha posto fine ad una latitanza trentennale di un soggetto condannato per numerosissimi e gravissimi reati, per le stragi del 93 ed in primo grado anche per quelle di Capaci e via d'Amelio del '92", ha detto Di Matteo.

Tuttavia non si può negare che rispetto ad altri arresti ha "avuto dei contenuti un po' particolari, nel senso che appunto è stato accertato come il latitante nell'ultimo periodo della sua vita girasse indisturbato, si facesse le fotografie con altri pazienti dell'ospedale oncologico dove si curava, adottava tutta una serie di comportamenti concreti che sono assolutamente incompatibili con la prudenza di chi si vuole sottrarre alla cattura".

"Quello è un successo dello Stato - ha detto - ma proprio perché lo Stato deve essere consapevole dei propri successi, ma anche dei propri fallimenti" ha aggiunto.


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E non può che definire un fallimento il fatto che un pluricondannato nonché detentore dei segreti di Salvatore Riina sia riuscito a sfuggire alla giustizia per trent'anni per poi essere "catturato a casa sua". Storia analoga a quella di "Riina, latitante per 30 anni prima dell'arresto del 15 gennaio 1993. Bernardo Provenzano, latitante per 43 anni, è catturato a Corleone". Per il magistrato è difficile pensare che queste latitanze siano il risultato dell'abilità dei boss di sottrarsi all'arresto con l'aiuto "di pochi familiari e pochi amici". Per questo le indagini dovranno proseguire al fine di scoprire "coperture più alte", come nel caso della "cosiddetta borghesia mafiosa" o di alcuni esponenti delle istituzioni; per questo "non dobbiamo nascondere la polvere sotto i tappeti" poiché solo in questo modo lo Stato può veramente vincere.

📺 Guarda l'intervento al minuto: 1h.11'.06''

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