Cassazione permettendo, corre l’obbligo di dire che, a questo mondo, c’è Cassazione e Cassazione. Fra qualche istante cercherò di spiegarmi meglio sul punto.
Sin da subito, però, voglio avvertire il lettore che quello che segue è un articolo scritto quasi 9 anni fa, recando infatti la data del 13 ottobre 2014. Quindi, al lettore si richiede la volontà di cogliere quello che per noi, allora, era il succo del problema, sapendo che 9 anni sono tanti e qualche riferimento, che all’epoca risultava di attualità, oggi potrebbe apparire anacronistico.
Il succo del problema è rimasto lo stesso. Anzi. Ove possibile, si è ulteriormente aggravato. Noi la pensiamo così.
E qui corre ora l’obbligo di spiegare cosa intendiamo affermando che c’è Cassazione e Cassazione.
Rispettiamo la sentenza della sesta sezione della Cassazione, assoluta e assolutoria, oltre ogni ragionevole dubbio, degli imputati che si trovavano alla sbarra: ufficiali dei carabinieri, uomini politici, boss mafiosi (questi ultimi prescritti). Tutti escono definitivamente di scena per non avere commesso il fatto contestato dall’accusa o perché è stato prescritto.
Ma a convincerci, con altrettanto vigore, con altrettanta certezza, con altrettanta consapevolezza che il succo descritto nove anni fa non sia cambiato, sono analoghe sentenze sulle stragi di Roma, Milano e Firenze, di secondo grado, e persino di Cassazione.
Sentenze che avevano già sancito che, fra il '92 e il '94, lo Stato e la Mafia trattarono.
Trattarono alla grande, all’oscuro degli italiani, e con esiti catastrofici. E anche questa volta, oltre ogni ragionevole dubbio.
Ecco perché sbagliano, a nostro avviso, tutti coloro i quali, in queste ore di ubriacatura collettiva, si stanno convincendo che la sentenza di assoluzione degli imputati, cancella per sempre le enormi responsabilità dello Stato italiano nell’escalation di sangue durata oltre settant’anni. E basterebbe un briciolo di buon senso per capirlo.
40 anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato
Le convergenze parallele nel Paese della Politica e dell’Assassinio
di Saverio Lodato - 13 ottobre 2014 - ANTIMAFIADuemila
Il rischio di ripetersi, di grattare il fondo del barile, di scadere negli slogans, di sperare, alzando la voce, di farsi sentire dai sordi, o, al contrario, di indulgere allo scetticismo, lasciarsi prendere dallo sconforto, concludere che le battaglie impossibili non si possono vincere a dispetto dei santi, c’è. Ed è innegabile. Nel Vangelo sta scritto che “non si vive di solo pane”.
Perché mai, allora, si dovrebbe poter “vivere di sola lotta alla mafia”? Perché mai soltanto un’élite scelta dalla popolazione, che, a seconda delle fasi attraversate, si dilata e si restringe a guisa di una fisarmonica, dovrebbe intestarsi un’opzione di vita, per quanto fortemente caratterizzata eticamente, intrisa di valori nobili, logicamente inattaccabile, che però ha il piccolo difetto di non esser fatta propria dalla stragrande maggioranza della popolazione? Insomma: chi ce lo fa fare?
Non sono domande qualunquistiche. Sono domande, semmai, con le quali “l’antimafia” - parole utilizzabili non ce ne sono altre - deve fare i conti. Perché se si vuole andare avanti bisogna pur sapere in che direzione andare.
Gli anni che trascorrono - meglio: i decenni che trascorrono - ci fanno avvertire un vento gelido che è impossibile ignorare. Le polemiche interne dilaniano i rappresentanti degli avamposti antimafia. Non sfugge a don Luigi Ciotti, che infatti avverte: “All’antimafia non giovano le polemiche”. Giustissimo.
Nino Di Matteo rischia la vita. Eppure…
Eppure: magistrati contro magistrati. Ex magistrati, nel frattempo diventati “onorevoli”, contro magistrati in servizio. Giornalisti contro magistrati e viceversa. Esponenti politici di tutte le parrocchie che sparano ad alzo zero - è sempre stato così, ma adesso si avverte un clima da finale regolamento dei conti - contro il principio stesso di controllo della legalità. Il fatto che il governo, alla Camera, sia stato battuto a scrutinio segreto con l’approvazione di un emendamento leghista che introduce norme vendicative in materia di responsabilità civile dei giudici, fa capire l’aria che tira.
I grandi storici e i grandi giuristi, forse - e lo diciamo a loro parziale attenuante -, piegati dalla vitalità di una materia mai doma, mai catalogabile per sempre, tanto da sembrare destinata all’eternità, si rifugiano ormai, mettendo da parte i ferri del mestiere, nell’armamentario della banalità: non è vero che la mafia ha vinto, ma siccome non si può neanche dire che la mafia abbia perso, ecco il topolino interpretativo: la mafia ha vinto sì e no, la mafia c’è e non c’è, una volta sparava oggi non spara più, visibile allora, invisibile oggi.
E rendendosi conto, da quei cervelloni dalla lunga coda che sono, che solo l’ipotizzare l’esistenza di una trattativa fra lo Stato e la Mafia nel ‘92-‘93 finirebbe con il mandare in fumo i castelli che vanno costruendo, eccoli “cacar sentenza” tuonando che mai trattativa ci fu e, se ci fu, fu a fin di bene e che alcuno può essere processato per il reato di trattativa che il nostro codice penale non contempla. Di fronte a cotanto argomentare, verrebbe da dire, per celia, che l’unico verdetto noto, per ora, è questo: la mafia ha sconfitto 3 a 0 tanto gli storici quanto i giuristi causidici. I quali, infatti, hanno finito con lo smarrire le ragioni del loro mestiere. Prova ne sia che, agli uni e agli altri, non resta altro che alimentare la saga del “negazionismo” (la trattativa non ci fu!) che porterebbe oggi a sicura bocciatura qualsiasi laureando in storia contemporanea che la facesse propria. Se ne facciano una ragione i Fiandaca e i Lupo, ma le cose stanno così.
Nino Di Matteo © Paolo Bassani
Tantissimi politici - e non solo - cavalcano simili tesi nella speranza di aggrapparsi a una scialuppa di salvataggio che li metta al riparo da una magistratura che spinga sempre più in alto il profilo delle sue indagini. Non vogliono che saltino fuori le loro magagne. Vorrebbero continuare a rubare a man bassa. Pretendono una qualità della vita da satrapi, a dispetto di un paese agonizzante. Espatriano, latitano, si iscrivono al “club del perseguitato politico”, non appena qualcosa per loro va storto.
Certo. Sarebbe tutto più semplice se venisse reintrodotto lo scudo dell’immunità parlamentare.
Il duo Calderoli (Lega, quello del porcellum) - Finocchiaro (Pd, con scorta a passeggio per l’Ikea) in tal senso si sta acconciando, proponendone la reintroduzione al Senato, giusto per “vedere l’effetto che fa” sull’Italia di oggi. E ora, messa sotto torchio dallo stesso Pd, la Finocchiaro balbetta di non voler restare con il cerino in mano*.
Ma quando ci si imbatte in questa quotidiana lista dei dolori, molti protestano, volendo zittire le fastidiose mosche cocchiere dell’antimafia: “Questa è cronaca, non è storia”. A voler sottolineare, in chi di cronaca si occupa, quasi una vocazione a quella “scienza dei nullatenenti” cui si riferiva decenni orsono il filosofo Lucio Colletti a proposito di una “metodologia” che pretendesse di leggere il mondo prescindendo dai suoi contenuti. Sarà.
Noi, invece, troviamo ben incise - e perfettamente valide ancora oggi - le parole di Giorgio Bocca, che storico non era né si fregiava d’esserlo; cronista, punto e basta: Un libro, Dieci anni di mafia - scrisse in una recensione su “L’Espresso”, più di vent’anni orsono - che ci fa capire perché ci saranno ancora cento, mille anni di mafia.
Forse Giorgio Bocca andrebbe considerato storico a tutto tondo in questo paese di mongolfiere svolazzanti che sono diventati certi “storici” con la patente. Ma non perdiamo il filo del nostro ragionamento.
Ci dà una mano, Giacomo Leopardi, con i suoi: “Pensieri”: “Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi. Quando due o più birbanti si trovano insieme la prima volta, facilmente e come per segni si conoscono tra loro per quello che sono; e subito si accordano; o se i loro interessi non patiscono questo, certamente provano inclinazione l’uno per l’altro, e si hanno gran rispetto”. E ancora: “Se un birbante ha contrattazioni e negozi con altri birbanti, spessissimo accade che si porta con lealtà e che non gl’inganna; se con genti onorate, è impossibile che non manchi loro di fede, e dovunque gli torna comodo, non cerchi di rovinarle …”. Così va il mondo, ci dice Leopardi: una lega di birbanti contro uomini da bene. Tranchant, non c’è che dire.
E l’Italia, invece, come va?
Quasi un secolo e mezzo dopo Leopardi, Goffredo Parise, autore, fra l’altro, di un meraviglioso reportage sul Giappone (dal titolo: “L’eleganza è frigida”, Adelphi) scrive di Marco - nome letterario del viaggiatore che altri non era che lui stesso -, e riferendosi all’Italia dalla quale era partito per volare a Tokio: “Marco … pensò ai costumi del paese della Politica e dell’Assassinio così lontani ma ancora così presenti nel suo animo”.
L’Italia: il paese della Politica e dell’Assassinio. Anche Parise non scherzava.
Siamo al nocciolo della questione.
E’ in Italia che la lega dei birbanti contro gli uomini da bene (Leopardi) ha sprigionato il meglio di sé nel paese della Politica e dell’Assassinio (Parise). E’ per questo che da oltre un secolo e mezzo, con buona pace di Giovanni Falcone che per un momento si convinse di intravederne la fine, Cosa Nostra detta ancora legge.
Ma ha ancora senso parlare di Cosa Nostra?
Non è un contenitore linguistico ormai in frantumi nell’Italia dell’Expo e del Mose?
Degli scandali che falcidiano tutte le regioni italiane, nessuna esclusa?
Nell’Italia di Scajola e di Dell’Utri, di Berlusconi e Matacena, di quei dirigenti Pd e Pdl che contano mazzette, nella Sicilia di Cuffaro e Lombardo e Genovese, o nella Lombardia di Formigoni, senza volerla fare troppo lunga?
In quest’Italia - dico - non vi sembra che tutti i soggetti che ho nominato (e quanto per difetto) “facilmente e come per segni si conoscono tra loro per quello che sono”? Basta sfogliare i giornali e leggere le intercettazioni telefoniche per capire che il “club dei potenti” annovera di tutto ormai fra le sue fila: il politico e il dirigente statale, il bancario e alti funzionari degli apparati repressivi (Deviati? Non deviati? Ma che differenza fa giunti a questo punto?), faccendieri e camorristi, alti prelati e docenti universitari, mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti, ministri e ex ministri, generali di corpo d’armata, sottosegretari e ex sottosegretari, uomini della P3, della P4, della P5, eccetera, eccetera, eccetera. Tutti costoro, per tornare a dirla con il Leopardi, si conoscono tra loro per quello che sono.
Una volta, dalle nostre parti, si diceva: “Se tutto è mafia niente è mafia”. E alla Politica italiana piacerebbe tanto parafrasare: “Se tutti siamo corrotti nessuno è corrotto”.
Matteo Renzi ha detto in proposito: “Fosse per me i politici che rubano li accuserei di alto tradimento e li manderei tutti a casa”. Meglio di niente. Fosse per noi, quelli che si sono auto assegnati vitalizi da centomila euro al mese li manderemmo tutti in galera. Sfumature, che però fanno la differenza.
L’Italia è così.
Ed è questa la ragione per cui - come ho già avuto modo di scrivere e ripetere in occasione del ricordo di Giovanni Falcone alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo (22 maggio di quest’anno) - la favoletta della Mafia contrapposta allo Stato (e viceversa), che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa, andrebbe sostituita da ben altra narrazione: sono sempre esistiti, in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai, come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche.
Dallo stragismo nero a quello rosso, dall’eliminazione di grandi personalità “incompatibili” con la “lega dei birbanti” allo stragismo mafioso, qualunque bandolo si prende della storia nazionale italiana in questi ultimi settant’anni il quadro finale resta lo stesso: migliaia di vittime e di verità negate, istituzioni colluse e compromesse, enormi ferite inferte al tessuto democratico. Limitiamoci all’attualità.
Farò solo qualche esempio per rendere l’idea: le “esternazioni” di Totò Riina. Il quale ha minacciato di morte Nino Di Matteo. E si è scagliato contro il processo sulla trattativa. E si è detto contrario alla deposizione, in quel processo, del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Ora, improvvisamente, tace. O lo hanno fatto tacere.
Il CSM, dal canto suo, prima ha messo sotto azione disciplinare Di Matteo poi - bontà sua - ha archiviato il caso.
Napolitano - ormai è arcinoto - ha preteso e ottenuto che fossero mandate al macero le sue telefonate con l’indagato Mancino Nicola.
Le truppe cammellate dell’Informazione, dei maitre a’ penser, della politica, delle istituzioni, si sono esercitate nel tiro al bersaglio contro i poveri Cirenei della Procura della Repubblica di Palermo, che sembrano ricordarci l’Alfieri: “volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”… indagare, si capisce.
Insomma, tutti, in quest’Italia, fanno il lavoro per il quale sono portati.
Salvatore "Totò" Riina © Shobha
Non si indaga - invece - sulla trattativa, ammoniscono i Napolitano, gli Scalfari, i Ferrara, i Macaluso, i Violante, gli Arlacchi, gli Sgarbi, i Cicchitto, i Gasparri, i Fiandaca, i Lupo, e chi più ne ha più ne metta. E perché il cerchio si chiudesse, con la testimonianza esclusiva e preziosa del morto, ecco Padovani farsi garante che se Falcone fosse ancora vivo la penserebbe, su questo processo per la trattativa, allo stesso modo: una “boiata pazzesca”.
Ora che vivi e morti hanno detto la loro (anche se a quest’ultimi gliel’hanno fatta dire) sorge spontanea una domanda: non è un po’ riduttivo tracciare una linea di demarcazione, asserendo tassativamente: qui finisce lo Stato e qui comincia la Mafia?
Come si fa a separare interessi della politica da interessi di mafia? Interessi delle istituzioni da interessi dei mafiosi? Non siamo in presenza di un grumo inestricabile?
A questo proposito, il caso di Marcello Dell’Utri è talmente esemplare che può aiutarci. Vediamo.
In cosa differisce il Dell’Utri che con Berlusconi fonda Forza Italia dal Dell’Utri senatore? Dove finisce il senatore e inizia il bibliofilo? Quand’è che il bibliofilo diviene saccheggiatore della biblioteca napoletana dei Girolamini? E perché il bibliofilo si improvvisa falsario pubblicando i finti diari veri di Mussolini? Insomma: quando finisce l’uomo dalla cultura raffinata che piaceva tanto (piace?) ai salotti milanesi e inizia l’incensatore di Vittorio Mangano, lo stalliere palermitano di Arcore che per lui fu “vero eroe”? O il Dell’Utri che fece ammattire Paolo Borsellino volendo introdurre cavalli in albergo?
Di quale pasta è fatto il boss del terzo millennio?
Ora che Marcello Dell’Utri è carcerato, chiede all’amministrazione penitenziaria più libri da leggere, minacciando, in caso di diniego, lo sciopero della fame. Vadano a scuola da lui i presunti capi di Cosa Nostra, i Totò Riina e i Bernardo Provenzano, un vero boss non rifiuta il rancio carcerario, non pretende dai suoi aguzzini un’insalata o una telefonata in più: chiede più libri! Non è più il tempo degli zoticoni ai vertici di Cosa Nostra! Chiaro?
Giunti a questo punto ci chiediamo: non diventerebbe tutto più semplice adoperando la chiave interpretativa alla quale facevamo riferimento prima: le eterne convergenze parallele fra lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato?
E infatti.
Perché tutti i soggetti che elencavamo prima si sono arrogati il diritto di considerare un regolare processo regolarmente istruito nel regolare rispetto delle parti - il processo sulla trattativa Stato-Mafia - come novelle Colonne d’Ercole sulle quali incidere il loro indispettito: “Non plus ultra”? A che titolo lo hanno fatto?
E tanti di quei soggetti non furono forse gli stessi che, una quindicina d’anni fa, scrissero il medesimo indignato “Non ci sto” sul processo a Giulio Andreotti? La politica non doveva forse astenersi di fronte a un processo che vedeva alla sbarra per mafia un sette volte presidente del consiglio?
Giulio Andreotti fu un personaggio politico ambiguo della Repubblica italiana (Parola di Cassazione) che incontrava abitualmente, a Palermo, il gotha di Cosa Nostra (Parola di Cassazione). E’ stato il principale artefice dell’immiserimento della politica a cinico e disinvolto strumento del potere.
Eugenio Scalfari, Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano, quando troveranno il coraggio di dire ad alta voce questa elementare verità? Che aspettano a chiudere quella pagina vergognosa che pesa come un macigno sulla storia di oggi? La smettano con le chiacchiere garantiste. Giuliano Ferrara, per sua stessa (e orgogliosa) ammissione, agente della Cia in Italia in quegli anni, può simpaticamente continuare a difendere Andreotti. Ma gli altri? Che motivo hanno?
Bernardo Provenzano
E più in generale: chi deve fare i processi in Italia? Chi è deputato a farli?
Che diremmo se un politico o un giornalista o un conduttore televisivo facessero irruzione in sala operatoria intimando al chirurgo: taglia qua, taglia là, anzi non tagliare per niente, e, come non bastasse, iniziassero a schiaffeggiare gli assistenti che fiancheggiano il chirurgo?
Il cosiddetto “garantismo” non c’entra nulla.
Il “garantismo”, lo stesso che oltre dieci anni fa impose in Costituzione la macchiettistica definizione bipartisan di “processo giusto”, nacque come “garantismo” a cinque stelle.
Avete mai sentito pronunciare, dai soggetti di cui sopra, una parola a sostegno di un povero diavolo incappato nelle maglie della giustizia italiana? Diciamo meglio: c’è un solo “ladro di polli” che abbia avuto l’onore delle prime pagine perché vittima di un “processo ingiusto”? Le scintille che a ondate ricorrenti hanno acceso il dibattito sulla necessità di una “riforma della giustizia” non sono forse sempre scaturite da iniziative investigative che prendevano di mira “blasonati”, a vario titolo, della Repubblica italiana? I primi vagiti di questo “garantismo”, che oggi è diventato un robusto giovanotto, datano dall’inizio di Tangentopoli. Un caso? Ma non scherziamo.
E gli azzeccagarbugli manzoniani da un tanto al chilo sono davvero scomparsi dal bel Paese? Diremmo di no. Oggi sono diventati più sfacciati. Il confronto delle idee non c’entra nulla. Non si pretende più, infatti, di contestare solo il lavoro del chirurgo, ma la figura del chirurgo in quanto tale. Gli azzeccagarbugli del terzo millennio sono l’espressione di un “garantismo” che, complici le televisioni e una caterva di giornali compiacenti, si è definitivamente “militarizzato”. Ci hanno preso gusto.
Basta sentirli parlare, quando si atteggiano a Padri della Patria, per capire che considerano la giustizia un “lusso” che l’Italia, così com’è, non può permettersi. Perché - questo è il succo - nella Patria della Politica (e dell’Assassinio, aggiungeva Parise) non possono esistere remore di alcun tipo che disturbino il Manovratore.
Ma quale giustizia, ma quale legalità, ma quale etica, ma quale questione morale: la Politica non ha il tempo per pettinare le bambole! I morti non ritornano. Se ne facciano una ragione le migliaia di familiari delle vittime!
Ma ciò che è ancora più sorprendente è che tutte le persone elencate prima - sia chiaro - sembrano non esserne consapevoli.
Davvero credono di esprimere “opinioni” libere, “giudizi” sinceri, “concetti” ponderosi. Credono di essere nel giusto. Indossano maschere, costumi di scena, recitano da tempo il medesimo copione e - da attori provetti - hanno finito con l’identificarsi nella parte del “Garantista Perfetto”.
Certo. Conoscono benissimo la storia d’Italia. Tanti di loro - in campi diversi - hanno attraversato stagioni cupe e nere della storia del nostro paese. Ma forse, avendoci fatto troppo il callo, come si dice, non si rendono più conto che, nella lotta contro la mafia, non sono date comode “terze vie”.
Ben altra - quarant’anni fa - fu la maniera di intendere la lotta al terrorismo. Furono anni, vale la pena tornarci, in cui la parola chiave, brandita come uno slogan, non fu “garantismo”, bensì: “fermezza”.
E come sa essere perfida la Storia nei confronti di chi pretenderebbe di attraversarne tutte le fasi acconciandosi, con giri di parole, a tutte le sue giravolte.
Con il terrorismo non si “tratta”, proclamavano i dirigenti politici di allora. Leonardo Sciascia, che si permise di affermare e scrivere: “Non sto con le BR, ma neanche dalla parte di questo Stato”, venne messo alla gogna. Eppure chi voleva “trattare” aveva un argomento non indifferente dalla sua: salvare la vita ad Aldo Moro. Craxi, per esempio. Invece, venne fatta una scelta diversa. E sappiamo come andò a finire.
Ma certo vien da sorridere, oggi, a sentire certi smemorati di Collegno quando, con riferimento alla trattativa di oggi, quella con la mafia, ne beatificano le finalità sostenendo che fu portata avanti “a fin di bene”. E volevate farla pure “a fin di male”? E perché non trattaste con il terrorismo “a fin di bene”, per salvare la vita di Aldo Moro?
La storia è un’altra. Il terrorismo rosso e il terrorismo nero furono arnesi momentanei del Potere adoperati per regolarizzare e reprimere forti conflitti sociali mentre in Italia volgeva al termine la grande stagione dello stragismo che datava dalla strage di Portella della Ginestra. Questi ferri del mestiere furono usati sin quando tornarono utili. Poi, quando non servirono più, si decise di metterli nel museo dei corpi contundenti.
Non ci insegna nulla il fatto che, quarant’anni dopo, si stanno levando flebili voci - ormai ignorate dai media e dagli “esperti” di terrorismo - di funzionari di Stato, avanti negli anni, che rivelano che il commando terrorista in via Fani era sapientemente infiltrato da agenti dei servizi segreti?
Perché i capi br detenuti ripeterono la litania d’aver fatto tutto da soli? Perché sapevano benissimo che questo volevano sentir dire da loro: che gli apparati deviati dello Stato non c’entravano nulla. E destra e sinistra andarono a braccetto nel Gran Teatro che ripropose all’infinito, in cartellone, e per la regia consumata di Francesco Cossiga, lo spettacolo sulla Chiusura degli anni di Piombo … Un teatrino, verrebbe da dire, per tutte le stagioni …
Concludendo: il terrorismo restò un corpo estraneo alla società italiana. La mafia no, non è mai stata un corpo estraneo. Né alla società, né allo Stato. Da cinquant’anni si susseguono le commissioni parlamentari antimafia. Con la mafia che, invece, è diventata l’altro grande “mestiere più antico del mondo”.
Ecco, allora, perché “trattare si può”. E si deve. Ed è “cosa nobile”.
Domanda: sono concetti tanto diversi da quell’altro: “Con la mafia bisogna convivere”, esposto candidamente dal ministro di Forza Italia, Pietro Lunardi, e che all’epoca (2001) sollevò una bufera e tanto fece indignare l’onorevole Luciano Violante? In fondo per trattare occorre convivere. O non è così? Che male c’è?
Ma chiediamoci adesso: che effetti produce questo modo di vedere le cose?
Da ciò discende, quasi a cascata, che l’opinione pubblica italiana è stordita dall’assordante coro di segnali discordanti sull’argomento.
E’ venuta a nausea - e anche questo si capisce - la retorica antimafia del “semel in anno” in cui celebrare valanghe di vittime.
Non ha lasciato un buon segno scoprire che i processi per la strage di via D’Amelio devono essere rifatti perché rappresentanti delle istituzioni costrinsero, a pugni e calci, Vincenzo Scarantino, un balordo di borgata, a dichiarare il falso.
Chi doveva essere protetto dalle indagini? Quali i mandanti di via D’Amelio che dovevano restare nell’ombra? Perché lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato avevano disperato bisogno di capri espiatori da attingere dalla manovalanza criminale? La Procura di Caltanissetta dovrà scalare una montagna, se vorrà - come vuole - venire a capo di quanto accadde in via D’Amelio e del perché.
Cadrà nel silenzio anche la clamorosa denuncia di Lucia Borsellino? Ascoltiamola: “Vent’anni fa con mio fratello andammo a consegnare l’unica agenda rimasta a casa, quella grigia dell’Enel, l’unico documento in cui si evince che mio padre incontrò l’onorevole Mancino e qualcun altro (Mancino continua a negare la circostanza, ndr)”. (…) “Quell’agenda l’andai a consegnare personalmente, un commesso me la stava sottraendo dalle mani perché fosse messa agli atti - ha aggiunto Lucia Borsellino -. Chiesi che venissero fatte le fotocopie davanti a me, pagina per pagina, e me la sono portata a casa. Ricordo dei volti quasi infastiditi. Quando Arnaldo La Barbera venne poi a casa mia a consegnare la borsa di mio padre ho scoperto, dopo vent’anni, che questa consegna non era stata verbalizzata agli atti”. Diciamolo chiaramente una volta per tutte: quanto sono scomodi per il Potere Italiano tutti questi Borsellino: da Salvatore a Lucia, da Agnese a Manfredi, a Rita, che non hanno mai chinato la testa nel Paese dell’Assassinio. Non potrebbero occuparsi d’altro?
L’elenco delle cose che non vanno è lungo.
Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica
Non giovano all’“antimafia” le laute prebende statali che alimentano la greppia di fondazioni e centri studi sull’argomento nei quali, ogni tanto, sorge il sospetto che si annidi - in questo caso sì - qualche spregiudicato “professionista dell’antimafia”.
Poi, c’è la piaga dolente delle candidature, a tempo di elezioni, dei parenti delle vittime, strattonate, da una parte o dall’altra, per dare lustro etico, apparente e momentaneo, a partiti e formazioni politiche ai quali della questione morale non importa un fico secco.
A non voler ricordare la “giostra” delle candidature dei magistrati che a questa classe politica vanno bene nei giorni pari e vanno male nei giorni dispari.
A questo proposito: da trent’anni, i magistrati vengono eletti indifferentemente in questa o quella lista. Questa meravigliosa ipocrisia è sotto gli occhi di tutti. Ma si dà il caso che oggi ci siano ex magistrati, che fan da grilli parlanti sulla lotta alla mafia - prendendo a randellate Di Matteo, i suoi colleghi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, e l’intera Procura di Palermo, guidata da Francesco Messineo - e che hanno all’attivo una carriera in politica (Camera, Senato, Europa che sia) temporalmente ormai ben più lunga degli anni trascorsi in magistratura.
Noi non apparteniamo alla schiera di quanti pretenderebbero che a un magistrato debba essere precluso a vita il diritto di entrare in politica. Ci mancherebbe. Ma se il cosiddetto “protagonismo giudiziario” non è atteggiamento commendevole in chi è titolare dell’azione penale, perché mai dovrebbe esserlo negli “onorevoli” di oggi che si atteggiano a “riservisti” delle campagne antimafia di ieri?
Quando si infuocano le polemiche, non farebbero meglio a tacere, vuoi per discrezione, vuoi per pudore, vuoi per rispetto nei confronti dei colleghi di un tempo che adesso rischiano la vita?
E’ tornata plumbea l’atmosfera persino nel Palazzo di Giustizia di Palermo. E questo è sempre un pessimo segnale.
Quei magistrati che oggi discutono, “in punto di diritto”, delle tesi negazioniste sulla trattativa e sulla mafia del professor Giovanni Fiandaca, ci ricordano, assai da vicino, i loro antesignani di trent’anni fa che, con analogo puntiglio, discutevano, anche loro “in punto di diritto”, dell’anzianità di carriera di Paolo Borsellino o delle tesi che portarono il giudice Antonino Meli a smembrare le inchieste di Falcone su Cosa Nostra prima di sparpagliarle in ogni angolo della Sicilia. Discussioni stucchevoli. Brutti tempi che non vorremmo si ripetessero.
Quali conclusioni trarre?
De te fabula narratur, Italia, Paese della Politica e dell’Assassinio…
E noi? Che possiamo fare?
Si potrebbe concludere che un’antimafia che non si rinnova, che si alimenta di un pensiero sempre uguale a sé stesso, che non riesce a liberarsi dalla zavorra retorica, si fossilizza e perde - inevitabilmente - consensi. L’antimafia non può fingere di non vedere, rinchiudendosi nella torre solitaria della sua supremazia etica. All’inizio ricordavamo le parole di don Ciotti: “All’antimafia non giovano le polemiche”.
Giunti alla fine, vogliamo ribadire: un’élite, per quanto scelta, per quanto motivata, da sola non può farcela. Accontentarsi di tenere il punto a tutela della singola indagine, del singolo processo, di singoli magistrati, è cosa giusta e nobile. Ma non basta più.
Come non basta più la “nave” che fa rotta su Palermo il 23 maggio di ogni anno con il medesimo nocchiero: Piero Grasso -, anche se oggi occupa la seconda carica dello Stato.
O “l’antimafia” riesce nel miracolo di ripensare sé stessa, riuscendo davvero a parlare alle nuove generazioni, dicendo sino in fondo le cose come stanno, o assisteremo inesorabilmente al rimpicciolirsi degli spazi di agibilità per chi crede, nonostante tutto, che nel Paese della lega dei birbanti contro i galantuomini, e dell’Assassinio, ci sia ancora la possibilità di continuare a sperare.
Per finire.
Salvatore "Totò" Cuffaro © Deb Photo
Papa Francesco scomunicando i mafiosi, né più né meno come Papa Wojtyla, nella Valle dei Templi di Agrigento vent’anni prima, dice le cose come stanno e ci spinge ancora a sperare. E per la prima volta, di fronte a duecentomila fedeli nella Piana di Sibari, in Calabria, ha esecrato la ‘Ndrangheta; quella ‘Ndrangheta che la Chiesa apostolica romana non aveva mai nominato.
“Era da un secolo” - ha osservato Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria - “che aspettavamo queste parole”.
Sono bastate le parole di un Papa sensibile perché la Chiesa, in un colpo solo, recuperasse un secolo di ritardo e di silenzio. Difficilmente le teorie strampalate di un gruppetto di “intellettuali stanchi”, e di qualche cervellone dalla lunga coda, ci faranno tornare indietro al “secolo del silenzio”.
Fosse solo per non darla vinta a lorsignori, faremo di tutto per vincere la nausea che ci assale.
P.S. Ricordiamo ai lettori che rispetto ad allora qualcuno dei protagonisti dell’articolo non c’è più (Emanuele Macaluso, Eugenio Scalfari; Amedeo Matacena, Totò Riina e Bernardo Provenzano); qualcuno nel frattempo è stato assolto (Raffaele Lombardo e Marcello Dell’Utri per la vicenda Gerolimini), qualcun altro ha espiato la sua pena (Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro).
Foto © Paolo Bassani
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La rubrica di Saverio Lodato