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calvi roberto pb int1. Premessa
Scopo di questo scritto è ricostruire, a distanza di un quarantennio, gli esiti giudiziari dei complessi e articolati accertamenti compiuti, a seguito della morte del banchiere Roberto Calvi, che hanno consentito di stabilire che si è trattato di un omicidio. Esso è ancorato a quanto accertato dalle Corti che si sono occupate della trattazione del processo e si prefigge di evidenziare il contesto in cui il delitto si colloca, le verità accertate e i quesiti rimasti irrisolti. Delle investigazioni si sono occupate più autorità giudiziarie.

In Gran Bretagna, sono state celebrate due inchieste affidate al Coroner (giudice che in Gran Bretagna è incaricato di stabilire le cause della morte), una nel 1982, altra nel 1983. In Italia, nel corso degli anni Ottanta, si è celebrato un processo civile innanzi al Tribunale di Milano su ricorso dei familiari del banchiere contro le Assicurazioni Generali per accertare le cause della morte. Numerosi pubblici ministeri delle Procure della Repubblica di Palermo, Milano e Roma hanno curato le indagini penali, con l’ausilio di più forze di polizia, sino a quando la Corte di Cassazione (nel 1992) ha attribuito la competenza alla Procura romana.
Presso tale ufficio vi sono state più volte richieste di archiviazione e riaperture del caso e il procedimento, monumentale per dimensioni, che ha consentito la celebrazione del processo è il n. 13094/1995 R. G. N. R. Noti. In esso sono confluiti anche gli esiti di un autonomo procedimento relativo alla contestazione di ricettazione della borsa a soffietto che il banchiere portava sempre con sé. Solo il 15 luglio 2003 si è giunti a predisporre l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Dopo la richiesta di rinvio a giudizio e la celebrazione dell’udienza preliminare, il dibattimento di primo grado si è concluso nel 2007, con la sentenza del 6 giugno 2007, quello di secondo grado il 7 maggio 2010 e la sentenza definitiva della Corte di Cassazione è intervenuta il 17 novembre 2011.

2. Il rinvenimento del corpo del banchiere e le prime pronunce.
Era il 18 giugno 1982 quando Roberto Calvi veniva trovato impiccato a una impalcatura - collocata sul greto del fiume Tamigi in corrispondenza di una riva sempre ricoperta da melma e da acqua alta dai 50 ai 90 centimetri, sotto il ponte di Black Friars (dei Frati Neri) di Londra, in un angolo seminascosto piuttosto buio. Il corpo, che pendeva da una corda, fu notato intorno alle 7,30 del mattino da un impiegato delle poste di Londra, Anthony Huntley, mentre camminava frettolosamente. Nel pomeriggio quel corpo senza vita veniva identificato come quello del banchiere Roberto Calvi, esponente di spicco della finanza cattolica, dal 19 novembre 1975 al vertice del Banco Ambrosiano. Il banchiere indossava due paia di mutande, più orologi, quattro paia di occhiali, di cui uno da sole e sul suo corpo venivano trovate lire e, soprattutto, valute straniere: sterline, franchi svizzeri, scellini, dollari americani, che, al tasso di cambio dell'epoca, costituivano una somma considerevole. Il solo equivalente in dollari corrispondeva a circa quindici milioni di lire. Sul cadavere venivano rinvenuti nelle tasche e all'altezza del ventre cinque mattoni per un peso di circa cinque kg. La pietra, rinvenuta all'interno dei pantaloni, veniva introdotta con forza, tanto da far cadere un bottone, e non dall'alto come sarebbe stato più logico (nessuna usura veniva rilevata al bordo superiore anteriore dei pantaloni). Con tutta evidenza era difficile immaginare che una persona di quell'età (aveva poco più di 62 anni), con una corporatura tutt'altro che atletica, con più di cinque chili addosso, nel cuore della notte e con una scarsa visibilità, si potesse essere autonomamente portata sull'impalcatura e suicidata. Dopo aver scavalcato un parapetto alto quasi un metro, essere sceso per una scala a pioli stretti e scivolosi per l’umidità notturna e aver superato con un balzo laterale lo spazio tra la scala e l’impalcatura, Calvi si sarebbe dovuto muovere su un traliccio scivoloso e inumidito dal contatto con le acque del Tamigi, con scarpe non adeguate, portandosi dietro delle pietre come zavorra che avrebbero reso ancora più penoso il suo arrampicarsi sul traliccio. Calvi non era stato trovato impiccato sullo stesso lato dell'impalcatura dalla quale poteva essere salito, ove era collocata la scala aggrappata all'argine ma in quello opposto, sicché una volta giunto sull'impalcatura, avrebbe dovuto attraversarla, con un balzo, lateralmente. Eppure bastò un giorno d'udienza al Coroner di Sua Maestà per la City di Londra, sir David Paul, incaricato di definire la prima inchiesta per assumere sommariamente le prove raccolte e ottenere dalla giuria un verdetto di suicidio, ponendo così fine al simulacro di indagini già il 23 luglio 1982, dopo che le stesse erano state congelate in attesa degli accertamenti medici svolti in fretta e furia. Una successiva inchiesta, davanti ad altro Coroner, avviata nel 1983, portò a un verdetto aperto. Frattanto, le procure della Repubblica di Milano, di Palermo e di Roma avviarono autonome indagini. L'autorità giudiziaria milanese privilegiò l'ipotesi suicidiaria, senza escludere quella dell’omicidio, alla stregua di una consulenza collegiale medico legale, basata anche su dati di fatto non veridici, come si accertò successivamente, vale a dire che l’impalcatura non fosse sempre coperta da acqua e fango.A seguito della risoluzione di un conflitto di competenza da parte della Corte di Cassazione, nel 1992, la competenza a procedere venne riconosciuta alla Procura di Roma. Nel 1988, nel decidere su una causa civile intentata contro le Assicurazioni Generali dalla vedova Clara Canetti Calvi il Tribunale di Milano si è pronunciò per l’ipotesi di omicidio.

3. Il contesto in cui maturò l’omicidio Calvi
L'assassinio di Roberto Calvi - così d’ora innanzi verrà considerato in questo scritto - si colloca in un periodo oscuro del nostro passato, caratterizzato da grandi tensioni sociali e segnato dall’attentato al Sommo Pontefice il 13 maggio 1981. A livello internazionale, era nel suo pieno la c.d. guerra fredda, con la contrapposizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e i rispettivi alleati. Nel dicembre 1981 un colpo di stato in Polonia, guidato dal generale Jaruzelski, aveva dichiarato fuori legge il sindacato Solidarność e il 2 maggio 1982 era iniziato l’attacco britannico alle forze argentine nelle isole Falkland. All’interno del nostro Paese, diretto da una compagine governativa poliedrica, costituita da più forze politiche, guidata da Giovanni Spadolini, si era innescata una spirale di violenza terroristica e mafiosa, nel quadro di ibridi connubi tra centri di potere e appartenenti alla criminalità organizzata. Al Nord e al Centro erano in azione le brigate rosse. In Campania, la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e di Vincenzo Casillo stava espandendo la propria influenza in un intreccio di nuove alleanze con i gruppi mafiosi e camorristici insediati su quel territorio. A Palermo e dintorni stava per entrare nella fase cruenta l’ultima guerra di mafia. Dall’inizio dell’anno, in Sicilia erano stati una settantina i morti ammazzati. Sparati, strozzati, decapitati, evirati, legati mani e piedi come capretti, chiusi in sacchi neri di plastica, dentro i bagagliai delle vetture. Il 30 aprile 1982 venivano uccisi il segretario del PCI, Pio La Torre, e il suo autista Rosario Di Salvo. Appena due giorni prima dell’omicidio del banchiere, il 16 giugno, sulla circonvallazione a Palermo, toccò al boss Alfio Ferlito e a quattro carabinieri che lo scortavano per accompagnarlo a un interrogatorio. Personaggi illustri, vittime eccellenti, servitori dello Stato, gente qualunque, mafiosi: una mattanza, mentre impazzava il delirio per il campionato mondiale di calcio e per la speranza di una vittoria finale dell’Italia. La mafia era considerata un’invenzione di un manipolo di esaltati, in vena di provocazione. Nel fosco panorama di quegli anni era stata portata alla luce la penetrazione della loggia massonica P2 nei più delicati gangli degli apparati statali e militari e si erano consolidate cointeressenze finanziarie, soprattutto in società offshore alle Bahamas, tra il piduista Calvi (iniziato al grado di maestro, tessera nr. 1624, rilasciata il 1 gennaio 1977), la banca vaticana, guidata da Paul Marcinkus, e la criminalità mafiosa. In sintesi complessi intrecci criminali erano penetrati in rilevanti settori della politica, del governo e dei vertici piduisti, dando vita ad una miscela esplosiva. È in tale contesto storico che si colloca l’omicidio di Roberto Calvi, preceduto dall’attentato del 27 aprile 1982, nei confronti di Roberto Rosone, il Direttore Generale e vicepresidente del Banco Ambrosiano, da parte di Bruno Nieddu e di Danilo Abbrucciati, il boss della banda della Magliana che morì lo stesso giorno a seguito del conflitto a fuoco che ne derivò. Ed è sempre in tale contesto che si svolge il depistaggio che ha caratterizzato le prime indagini sull’omicidio Calvi (dense di omissioni e negligenze), imperniato sulla convinzione (preconcetta) che si fosse trattato di un suicidio, coprendo con una cortina di ferro quello che rimane uno dei delitti più inquietanti e misteriosi della nostra storia.

4. Il processo celebrato e le verità accertate

a) La genesi del processo e il suo esito
Sull’omicidio Calvi è stato celebrato un processo che ha cercato di rimuovere il lenzuolo del tempo che aveva ricoperto una storia giudiziaria inquietante del nostro passato e ha contribuito alla ricerca di una porzione di verità, che prima di allora era apparsa per sempre perduta e irraggiungibile. A distanza di quasi un ventennio dall’omicidio, il 6 marzo 2002, chi scrive fu delegato dal procuratore della Repubblica di Roma Salvatore Vecchione alla trattazione del caso, unitamente alla collega Maria Monteleone, subentrando a Giovanni Salvi, il quale per molti anni se ne era occupato assieme al collega Andrea Vardaro. Era un procedimento enorme, costituito in quel momento da 170 faldoni di atti, con indagini svolte da più generazioni di pubblici ministeri e investigatori, nel cui ambito erano state richieste e applicate due misure di custodia cautelare, da parte del Gip Mario Almerighi, nei confronti di Giuseppe Calò e Flavio Carboni.

Il procedimento era stato, poi, congelato a seguito di una consulenza tecnica della difesa di Carboni che riproponeva l’originaria tesi del suicidio, che aveva indotto i magistrati procedenti a richiedere un incidente probatorio per accertare le cause della morte. Dopo una prima fase , necessaria per assimilare il contesto investigativo e studiare le attività svolte in precedenza, con la collega Monteleone imprimemmo una notevole spinta investigativa, escutendo numerosi collaboratori di giustizia e testimoni mai sentiti prima di allora (inglesi, italiani e di altre nazionalità) e ricostruendo i flussi finanziari riconducibili al Banco Ambrosiano e alle consociate estere nei limiti in cui era possibile a distanza di così tanti anni al fine di verificare se tra le loro pieghe vi fossero tracce di attività di riciclaggio. Ciò al fine di identificare e ricostruire il movente dei principali sospettati, sino ad allora solo intuito. Nell’aprile del 2003, si riuscì a completare l’incidente probatorio sulle cause della morte del banchiere, affidato a tre periti: il tedesco Berndt Brinkman e gli italiani Maria Annunziata Lopez e Luigi Capasso, che conclusero, a seguito di complessi accertamenti, per l'esclusione della dinamica suicidiaria, in linea con quanto avevano sostenuto i consulenti medico legali che avevamo nominato (Paolo Procaccianti e Fabrizio Iecher). Tuttavia, il giudice per l'udienza preliminare di Roma, nel disporre il rinvio a giudizio, motivò la decisione sostenendo che il dibattimento si rendeva necessario anche per provare quali fossero le cause della morte, vale a dire se ci si trovasse di fronte a un omicidio, essendo presente agli atti elaborati di consulenza di segno contrario. Il processo, nel cui ambito ho sostenuto l'accusa in primo e in secondo grado, iniziò nell’ottobre del 2005.
La trama probatoria della vicenda processuale era di tipo indiziario. Nessuno degli imputati o dei mandanti/esecutori aveva ammesso responsabilità e nessuno dei collaboratori di giustizia aveva personalmente assistito al conferimento del mandato omicidiario o alla sua esecuzione. In esito alle investigazioni, gli indizi apparivano gravi, precisi e sostanzialmente concordanti, nei confronti degli indagati (pur risultando differenziato il loro grado di coinvolgimento) e si erano incrementati rispetto al momento dell’emissione delle misure cautelari che erano state confermate dal Tribunale del riesame.


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Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli © Paolo Bassani


Perciò, la collega Maria Monteleone e io ci determinammo, con la piena condivisione dell’allora Procuratore della Repubblica di Roma Salvatore Vecchione, a chiudere le indagini e a chiedere il rinvio a giudizio. L'iter processuale terminò nel mese di novembre 2011, con la pronuncia della I sezione della Corte di Cassazione1. La Suprema Corte ritenne, fra l’altro, che non sussistessero elementi direttamente rappresentativi dell’ipotizzata responsabilità degli imputati e che i porgitori delle notizie riferite dai numerosi collaboratori di giustizia non avevano confermato il loro racconto, perché deceduti o ancora inseriti nel circuito mafioso. E’ un fatto che tutti gli imputati sono stati assolti (Giuseppe Calò, Flavio Carboni, Ernesto Diotallevi e Silvano Vittor, ex 530 II co, c.p.p., perché le prove sono state ritenute insufficienti o contraddittorie; Manuela Kleinszig, ex art. 530, c. 1, c.p.p.) e che gli sforzi investigativi rivolti in altre direzioni si sono rivelati non adeguatamente fruttuosi.

Vi sono però dati significativi emersi nel corso del processo che meritano di essere ricordati.

b) Le verità accertate
Roberto Calvi è stato assassinato, “mediante impiccagione” e “simulazione di suicidio” nella notte tra il 17 e il 18 giugno 1983, in un orario compreso tra le 3 e le 4 del mattino, come hanno consentito di dimostrare le circostanze del fatto, gli accertamenti peritali medico legali e le dichiarazioni indirette di tredici collaboratori di giustizia. In proposito, appaiono inequivoche le indicazioni riportate dalla Corte d’Assise d’Appello che così si è espressa, mostrando di condividere le argomentazioni e le conclusioni della corte di I grado. “Per il giudice della sentenza impugnata, sul punto in accordo col pubblico ministero impugnante, Roberto Calvi è stato ucciso dovendosi escludere che egli si sia dato la morte. La Corte d’assise di I grado ha considerato numerosi elementi dai quali dedurre l’indicata conclusione:

1) il Blackfriars Bridge distava oltre 7 Km. dal Chelsea Cloister, albergo presso il quale Roberto Calvi alloggiava;

2) la metropolitana londinese funzionava solo sino alle ore 23;

3) l’impalcatura si trovava in un luogo relativamente buio, in quanto l’illuminazione era

presente soltanto sulla strada e sul ponte, sicché la visibilità era scarsa e limitata;

4) il greto del fiume, alla base dell’impalcatura, era sempre ricoperto da melma e da acqua (alta dai 50 ai 90 cm), anche nei momenti in cui il livello raggiungeva il limite minimo;

5) nelle fasi di bassa marea emergeva una spiaggetta non sotto l’impalcatura, ma ad una distanza di almeno 7 metri e mezzo dalla stessa;

6) la scala metallica fissata al muro dell’argine distava circa 80 cm. dall’estremità opposta dell’impalcatura, rispetto alla scala metallica che all’impalcatura stessa avrebbe potuto dare accesso a piedi;

7) il corpo di Calvi era appeso ad uno dei tubolari situati all’estremità opposta dell’impalcatura, rispetto alla scala metallica che all’impalcatura stessa avrebbe potuto dare accesso a piedi;

8) all’impalcatura, per effetto della corrente del fiume e delle variazioni di marea, rimanevano spesso impigliate corde del tipo di quella usata per l’impiccamento, ma quest’ultima corda era stata annodata da qualcuno (con operazione manuale) all’occhiello metallico di un tubolare e non era solo impigliata (poiché altrimenti non avrebbe potuto reggere il peso del corpo);

9) all’interno degli abiti indossati da Calvi vi erano pietre e mattoni per un peso complessivo di oltre cinque chilogrammi ed un mezzo mattone si trovava sotto la patta dei pantaloni, all’altezza del cavallo;

10) i pantaloni presentavano strappi alle tasche e al cavallo, mancava il quinto bottone e il sesto risultava scheggiato (evidentemente a causa dell’inserimento delle pietre);

11) nella zona dei genitali non sono state rilevate lesioni in sede di autopsia;

12) Calvi portava ai piedi un paio di mocassini di cuoio;

13) nell’appartamento n. 881 del Chelsea Cloister, dove Calvi in Londra alloggiava in quei giorni, non venne trovato alcun scritto, contenenti frasi di commiato dirette ai familiari o ad altri;

14) nell’appartamento venne trovata una grande quantità di medicinali e, in particolare, di psicofarmaci, la cui assunzione in dose elevata avrebbe avuto sicuramente un effetto letale;

15) Calvi aveva con sé, in valute di diverse nazionalità, una somma pari a circa 15.000.000 di vecchie lire;

16) Calvi era in sovrappeso (pesava 85 kg), conduceva una vita sedentaria e non svolgeva alcuna attività sportiva;

17) nei suoi ultimi giorni, pur essendo chiaramente angustiato da gravi problemi (di carattere finanziario e professionale), Calvi non aveva in alcun modo manifestato alle persone con cui da ultimo si era accompagnato o ai suoi familiari l’intenzione di togliersi la vita, né aveva tenuto un comportamento che potesse far sorgere sospetti al riguardo.

Sulla base di questi dati il primo giudice ha formulato le seguenti riflessioni:

I. non si riesce a comprendere per quale motivo Calvi, se avesse avuto effettivamente la volontà di uccidersi, avrebbe dovuto raggiungere, in piena notte e verosimilmente a piedi, un luogo così lontano e impervio, anziché attuare un tale proposito in un modo più agevole e semplice, come ad esempio facendo uso dei numerosi farmaci che aveva a disposizione o magari gettandosi da una finestra del suo alloggio (situato a un piano molto alto del residence);

II. Calvi non poteva sicuramente sapere che sotto il Blackfriars vi fosse un'impalcatura e che alla stessa si potessero trovare impigliate corde utilizzabili per un impiccamento;

III. è impensabile che Calvi, con più di cinque chili di pietre negli abiti, con una scarsa visibilità e con uno stato fisico modesto (per l'età, il peso e le abitudini di vita), potesse aver raggiunto l'impalcatura e compiuto l'insano gesto dopo aver scavalcato un parapetto alto quasi un metro, dopo essere sceso per quella scala (con gradini alquanto stretti e certamente scivolosi per l'umidità notturna), dopo aver superato con un balzo laterale lo spazio tra la scala e l'impalcatura, dopo aver camminato ed essersi arrampicato (con scarpe del tutto inadeguate) su una tavola di legno e su tubolari altrettanto scivolosi e dopo avere, in condizioni di precaria stabilità, annodato la corda all'occhiello metallico e predisposto il cappio;

IV. è inspiegabile il motivo per cui Calvi, una volta deciso di impiccarsi, non l'abbia fatto nel punto più vicino alla scala metallica, ed abbia invece pensato di complicare ancor più la situazione, portandosi dall'altro lato dell'impalcatura;

V. non è assolutamente possibile che Calvi abbia raggiunto l'impalcatura passando sul greto del fiume, dato che per fare ciò (ammesso che la marea si trovasse nel momento di minimo livello) avrebbe dovuto percorrere diversi metri con l'acqua che gli arrivava almeno sino alle ginocchia e stando in equilibrio sulla melma e sui sassi; basti pensare che, durante l'esperimento effettuato in fase di indagini, la persona incaricata, benché addestrata al ruolo di 'stunt man', ha avuto serie difficoltà nel percorrere proprio quel tratto;

VI. l'inserimento delle pietre e dei mattoni all'interno delle tasche e della patta dei pantaloni non può essere avvenuto mentre Calvi era già sull'impalcatura, in quanto le sue mani sarebbero state impegnate per reggersi e per eseguire le operazioni preliminari dell'impiccamento; l'inserimento sarebbe potuto avvenire quindi solo nel momento precedente, ma ciò significa che, scendendo per la scala metallica o camminando sul greto del fiume, avrebbe riportato certamente lesioni, sia pure leggere, nella zona inguinale, a causa della pietra infilata sotto la patta (il che non si è verificato);

VII. se si fosse infilato da solo il mattone all'interno dei pantaloni, Calvi lo avrebbe fatto verosimilmente nel modo più comodo e semplice, slacciandosi la cinta o comunque facendolo passare dalla parte superiore; il fatto che sulla patta sia stata rilevata la mancanza di un bottone dimostra inequivocabilmente che il mattone è stato inserito dal basso a forza da un'altra persona.

Queste considerazioni sono, per il primo giudice, da sole, più che sufficienti per escludere l'ipotesi suicidaria e i risultati degli accertamenti, di carattere tecnico, eseguiti dai professori Brinkmann, Capasso e Lopez sono serviti soltanto per rafforzare ancor più un tale convincimento. Tutto ciò pur non potendosi escludere, rileva la prima Corte, che Calvi, prima di essere impiccato, sia stato ridotto in stato di incoscienza, con l'utilizzazione di sostanze idonee a tal fine, non trovate perché non cercate con metodiche adeguate (cfr dichiarazioni del perito Lopez). E non può ragionevolmente sostenersi che tale utilizzatore avrebbe necessariamente causato segni di compressione sulle labbra, poiché l'anestetico può essere stato avvicinato in modo non violento alle vie respiratorie, previa immobilizzazione del Calvi da parte di più persone". Sulla stessa linea la Corte di Cassazione ha sottolineato che “risultano insuperabili, invero, i passaggi fondamentali sui quali è ancorata la valutazione dei giudici del merito sul punto, quali - tra i principali (ma si rimanda comunque alle più complete argomentazioni delle precedenti sentenze4) - l’impossibilità di raggiungere in modo autonomo il traliccio interessato con le pietre, il luogo stesso dell’impiccagione (illogico e non praticabile da chi provenisse dalla banchina), la stessa evidenza dell’’impiccamento lento’ (o per scivolamento) che, escludendo il ‘salto’, dimostra - per logica apprezzabile da chiunque, oltre che per la scienza medicolegale - essere stato appeso da mano omicide un corpo già per precedente stordimento dovuto a sostanze volatili. Dunque, si è in presenza di elementi di fatto, correttamente valutati nelle precedenti sedi, che - come recita la sentenza di secondo grado - ‘esibiscono forza di autonomo e diretto valore dimostrativo a favore della tesi d’accusa’ e cioè di vera prova rappresentativa della modalità omicidiaria della morte di Calvi va di certo disattesa la tesi difensiva secondo cui l’argomento decisionale sul punto sarebbe solo la logica dell’esclusione (è omicidio in quanto non è suicidio), posto che le Corti di merito hanno stabilito - con argomentazione immune da vizi logici - che le modalità omicidiarie sono direttamente provate in fatto”5. L'impiego da parte di Cosa nostra del Banco Ambrosiano e dello IOR per attività di riciclaggio Si è appurato che Cosa Nostra, “nelle sue varie articolazioni, impiegava il Banco Ambrosiano e lo IOR come tramite per massicce operazioni di riciclaggio” che “avvenivano quanto meno anche ad opera di Vito Ciancimino, oltre che di Giuseppe Calò”, facendo confluire, fra l’altro, nelle casse dell’Ambrosiano i proventi del sequestro di persona in danno di Pietro Torielli (avvenuto a Vigevano il 18.12.1972, poi rilasciato il 7.2.1973). “Il fatto nuovo, rispetto alle acquisizioni di primo grado, consiste nella assunzione del dato per cui tali operazioni avvenivano ad opera di Vito Ciancimino, oltre che di Giuseppe Calo’”. Molteplici voci di appartenenti a più strutture criminali hanno sostenuto che Calvi, il Banco Ambrosiano e il prelato Paul Casimir Marcinkus hanno riciclato denaro di provenienza illecita, e che Calvi è subentrato in tale ruolo a Sindona, ricevendo da questi cospicue somme di denaro.

Diotallevi è risultato strettamente collegato a Calò da solidi rapporti anche economici e a Flavio Carboni da cointeressenze finanziarie. Secondo quanto ricostruito dalla Corte d’Assise d’Appello: “svolgeva un’intensa attività delinquenziale, essendosi tra l’altro occupato (dopo un periodo giovanile in cui si era specializzato nelle rapine) di traffico di sostanze stupefacenti con i principali esponenti della banda della Magliana (in collegamento con i mafiosi, rappresentati da Calò) e di usura con Filomena Angelina ed altre persone. Aveva, inoltre, secondo il primo giudice, stretti rapporti di frequentazione e comunanza di interessi economici con lo stesso Calò e con Carboni, con particolare riguardo alle speculazioni immobiliari nella Costa Smeralda”. Diotallevi, inoltre, ha contribuito a far espatriare Calvi e, sul punto, la medesima Corte ha riconosciuto che “non pare revocabile in dubbio che la sera dell’11 giugno 1982, su incarico di Carboni, Ernesto Diotallevi, utilizzando l’areo privato di Carboni, si recò presso l’aeroporto di Ronchi dei Legionari (in compagnia di un altro uomo, mai identificato), dove si incontrò con Pellicani, al quale consegnò una busta, contenente un passaporto falsificato (intestato a Gian Robero Calvini) e la somma di 7 o 8 milioni di lire in contanti (che dovevano servire per ricompensare Vittor)”. Le relative acquisizioni probatorie si sono rivelate estremamente utili per giungere nel dicembre del 2019, nell’ambito di separato procedimento di prevenzione, alla confisca definitiva del suo patrimonio, ivi compreso l’attico che si affaccia su Fontana di Trevi, ubicato in via San Vincenzo De Paoli, n. 32, di recente destinato a sede della direzione della Scuola per la magistratura.

I ritardi e le omissioni nelle indagini
Sull’esito del giudizio “hanno pesato i ritardi nelle indagini dovuti all’iniziale ipotesi che si trattasse di un suicidio” e “l’ambiguità di apporti dichiarativi la cui veridicità non sempre è stata possibile verificare, forse specchio dello scontro di non sopiti interessi forti intesi ad evitare l’emersione della verità”. L’allora maresciallo Francesco Rosato, dislocato a Londra per agevolare gli accertamenti, ha riferito che: non c’era alcuna collaborazione da parte della Polizia inglese” e che “non veniva assolto alcuno accertamento”. Ha aggiunto che: gli era stato “detto che quello che c’era da fare era stato fatto, cioè come era giunto e dove alloggiava, e…gli accertamenti sarebbero stati svolti nel giro di due o tre settimana (e), alla fine degli esami…sarebbero stati fatti sul cadavere”; gli investigatori inglesi “dicevano che ... in quel momento non c’era nulla da fare in attesa...delle analisi del CORONER, degli esami del CORONER”; le investigazioni le avevano “sospese e non facevano nulla, non c’erano, non c’erano altri accertamenti da fare secondo loro”. Durante la sua permanenza non era stato fatto “nulla”. Si erano limitati a verificare “come era giunto e dove aveva soggiornato”, prima del suo arrivo “lunedì pomeriggio”. Le indicazioni del maresciallo Rosato sono state confermate dal Detective Superintendent Trevor Richard Smith, designato per rivisitare le pregresse investigazioni svolte in Gran Bretagna, in ragione di una specifica competenza. Questi ha segnalato le seguenti omissioni investigative, dichiarando che “la maggior parte delle linee di indagine secondo la documentazione sono state sospese in attesa dell’esito dell’esame del Coroner, sono continuate alcune indagini, diciamo, di contorno, di base, però le indagini principali furono sospese”…“la decisione fu presa dall’Inquirente responsabile delle indagini, Detective Chiff (chief) Superintendent TABURN, ... questa sospensione durò fino alla fine di luglio per un totale di tre o quattro settimane”. Perciò, contro ogni logica, che presuppone la concentrazione degli sforzi investigativi subito dopo la commissione di un delitto, la macchina investigativa fu bloccata.

La fuga dall’Italia di Roberto Calvi, l’arrivo a Londra e la dinamica dell'omicidio
Il 10 giugno 1982 Calvi fuggì dall’Italia, utilizzando il falso passaporto procuratogli da Ernesto Diotallevi, peregrinò attraverso l’Europa, dall’Austria alla Svizzera (ove risultò presente anche Diotallevi dal 12 al 15 giugno 1982) per giungere a Londra martedì 15 giugno in esito a un percorso clandestino (essendogli stato da tempo ritirato il passaporto), ove pernottò al residence Chelsea Cloister. Le ultime persone che lo incontrarono la sera del 17 giugno 1982 furono Silvano Vittor e Flavio Carboni. La Corte d’Assise di Roma16 ha ricostruito gli accadimenti di quella tarda serata/nottata nei seguenti termini. Calvi era stato fatto uscire dal residence, con tutta probabilità da una porta secondaria sul retro del Chelsea Cloister. Era stato accompagnato in auto in un cantiere non distante dal Blackfriars Bridge (che era a sette chilometri dal residence) ove sarebbe stato reso incosciente con una sostanza volatile che non ebbe a lasciare traccia. Nello stesso luogo aveva subito l’introduzione nelle tasche e sotto i pantaloni di alcune pietre, ivi prelevate, del peso complessivo di circa cinque chili. Era stato condotto con una barca sotto il ponte ed ivi era stato impiccato, azione che ebbe a provocare la morte non per salto (non essendovi lesioni a livello delle vertebre cervicali) ma per scivolamento (c. d. “impiccamento lento”). Nella serata del 18 giugno 1982 è risultato un contatto telefonico tra Carboni e Diotallevi. Silvano Vittor, compagno di Michaela Kleinszig (sorella di Manuela), è risultato acclarato che, con la sua donna, si era portato a Londra al seguito di Carboni e di Calvi, dopo aver contribuito all’espatrio clandestino del banchiere. Sono apparse evidenti, alla Corte d’Assise, reticenze e contraddizioni dell’imputato su plurimi passaggi della sua versione. Egli era stato nello stesso appartamento (il n. 881) del residence Chelsea Cloister in cui era stato alloggiato Calvi e - ha rilevato la Corte - non era comprensibile l’allontanamento suo e di Carboni la notte del 18 giugno proprio in concomitanza con il prelevamento, secondo l’accusa, del banchiere per condurlo alla morte. Inducevano “forti sospetti anche le lunghe telefonate del Carboni (che era all’Hotel Sheraton) ad esso Vittor (che era nell’appartamento 881 del Chelsea Cloister) proprio nella notte in questione, così come la fuga dello stesso Vittor (ritornato in aereo in Austria) la mattina successiva, senza informarsi o interessarsi di nulla era evidente che il Vittor era esecutore del preponderante Carboni, ma non partecipe del suo mondo, dei suoi interessi e delle sue entrature, e - in sostanza - probabilmente all’oscuro, almeno parzialmente, delle trame e degli intenti del più coinvolto coimputato”. Anche Carboni e Diotallevi, come riconosciuto dalle Corti di merito, hanno più volte mentito nel corso delle dichiarazioni rese e sono risultati reticenti e i loro racconti contraddittori su plurimi passaggi delle loro versioni. In esito alle vicende del dissesto del Banco Ambrosiano e delle banche collegate all’estero, il 17 giugno, giorno antecedente a quello dell’omicidio, il Consiglio di amministrazione della banca gli aveva revocato a Calvi la carica di presidente. Va anche ricordato che Francesco Pazienza ha pernottato a Londra, all’Hotel Dorchester, Park Lane di Londra, W1, nei giorni 11 e 12 giugno 1982, vale a dire sino ad alcuni giorni prima dell’arrivo di Flavio Carboni e del banchiere Roberto Calvi e che Maurizio Mazzotta ha pernottato dal 9 al 12 giugno 1982 nella medesima struttura alberghiera (nel periodo di comune permanenza, Pazienza e Mazzotta risultano aver soggiornato alle stanze n. 835 e 836.

La borsa a soffietto del banchiere e la disponibilità di Flavio Carboni
Il 1 aprile 1986, nel corso della sua trasmissione il giornalista Enzo Biagi mostrò ai telespettatori la borsa di Calvi, portatagli da un Senatore della Repubblica, Giorgio Pisanò, insieme a documenti, chiavi, fotografie che erano in essa contenuti; alla trasmissione partecipò anche Carboni, attestando l’autenticità della borsa. “Si è acquisita la certezza che Carboni ha avuto la disponibilità della borsa e di ciò che in esso era contenuto quanto meno a partire dal 1984, dal momento che in quell’epoca ha tessuto contatti prima con i familiari del defunto banchiere e poi con esponenti del Vaticano, per utilizzare a fine di profitto chiavi e documenti”. In proposito, è utile ricordare il punto di arrivo rappresentato dalle valutazioni della Corte di Cassazione con riferimento alle attività volte al recupero della borsa il 18 giugno 1982 e al viaggio effettuato da Ugo Flavoni. “non meno ambivalente la questione legata al recupero della borsa a soffietto del banchiere e la sua consegna a tale Ugo Flavoni (per transitarla in Italia senza che esso Carboni corresse rischi); il tema è davvero assai rilevante ed inquietante, posto che si dia per certo che tale borsa (da cui Calvi mai si separava) conteneva le carte più scottanti, quelle, forse, cui egli affidava le sue speranze (magari anche attraverso ricatti ad enti e personaggi di notevole spessore); in una lettera accusatoria della vicenda, dunque si tratterebbe proprio del compendio del delitto, pressoché coessenziale alla decisione di sopprimere il banchiere; orbene, sul punto, è ben plausibile che il Carboni, che certo era a conoscenza di borsa e contenuto, sia intervenuto dopo la morte del Calvi, a prescindere da un proprio coinvolgimento nell’omicidio, con il fine di sfruttare l’enorme potenziale che detta borsa conteneva, come poi è comunque risultato; in tale prospettiva è del tutto evidente che la borsa rappresentava un elemento di sospetto, e comunque ascrivibile ad area illecita, di tal che non depongono in senso univoco in favore della tesi accusatoria le modalità della sua spedizione, modalità che ben possono trovare coerente spiegazione alternativa18”. Appare significativo ricordare che, in più lettere predisposte a ridosso del suo omicidio, Roberto Calvi ha scritto di aver finanziato il sindacato polacco Solidarnosch (per un importo di circa 1 milione di dollari). Egli ha anche esplicitamente ammesso, nella lettera indirizzata al Papa, datata 5 luglio 1982, dal tenore sottilmente minatorio, di aver sostenuto il finanziamento di Paesi e associazioni politico - religiose dell’Est e dell’Ovest, su incarico di rappresentanti vaticani. È utile riportare il relativo passo della missiva: “Santità, sono stato io che, su preciso incarico dei suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti paesi e di associazioni politico-religiose dell’Est e dell’Ovest;…Molti sono coloro che mi fanno allettanti promesse d’aiuto a condizioni che io parli delle attività da me svolte nell’interesse della chiesa; sono proprio molti coloro che vorrebbero sapere da me se…Ho fornito mezzi economici a Solidarnosch od anche armi e finanziamenti ad altre organizzazioni di Paesi dell’Est; ma io non faccio e non voglio ricattare; io ho sempre scelto la strada della coerenza e della lealtà anche a costo di gravi rischi!”. E, ancora, nella lettera diretta al cardinale Pietro Palazzini, del 30 maggio 1982, Calvi scrive: “In siffatte condizioni, cosa posso sperare io; responsabile come sono di aver svolto di un’intensa opera di banchiere nell’interesse della politica vaticana in tutta l’America Latina, in Polonia ed in altri paesi dell’Est?”. Il ruolo di Vincenzo Casillo Segretamente passato dalla parte del clan Nuvoletta, legato ai Corleonesi, Casillo21 e gli appartenenti a cosa nostra volevano uccidere Calvi perché si era appropriato del loro denaro. Il collaboratore di giustizia Claudio Sicilia, per primo, accusò Vincenzo Casillo (luogotenente di Raffaele Cutolo, legato a esponenti dei Servizi segreti, assassinato il 29 gennaio 1983, nel corso di un attentato con autobomba) di aver eseguito l’omicidio (circostanza appresa da Corrado Iacolare), accusa che poi gli fu rivolta da Pasquale Galasso (per averlo appreso da Giuseppe Cillari), da Carmine Alfieri e da altri collaboratori di giustizia. Giuseppe Cillari ha confermato le asseverazioni di Galasso, precisando, di avere cognizione in parte diretta dei fatti, per avere accompagnato Casillo al momento della sua partenza per Londra all’aeroporto e di essersi recato a Ciampino a prenderlo al momento del suo ritorno da Londra due o tre giorni la morte di Calvi. Ha aggiunto che l’8 giugno 1982, nel corso di un pranzo con Casillo, Iacolare, Lettieri, Papa ed altre quattro persone, in un ristorante romano, apprese che Casillo e Iacolare si erano recati a Londra, dove avrebbero partecipato all’omicidio di Roberto Calvi, insieme ai siciliani e che, prima di andare a Londra, Casillo e Iacolare si sarebbero recati prima a Milano e poi a Trieste e quindi in Austria. L’avvocato Enrico Madonna, tratto in arresto per associazione di tipo camorristico, il 17 settembre 1987, affermò che Casillo gli aveva confidato di avere personalmente ucciso Roberto Calvi. Le sue indicazioni sono anche riscontrate da quelle di Raffaele Cutolo e di Oreste Lettieri, i quali hanno sostenuto che, in quei giorni Casillo, si trovava a Londra. Accusato da Francesco Marino Mannoia (con dichiarazione de relato, raccolta da Pullarà) di essere stato esecutore materiale dell’omicidio, Francesco Di Carlo che in quegli anni viveva a Londra ha narrato che, tra il 15 e il 18 giugno 1982, Nunzio Barbarossa, uomo di fiducia di Pippo Calò gli aveva detto che Calò lo stava cercando e gli aveva chiesto “se era al suo paese” intendendo riferirsi a Londra. Ha aggiunto di essersi messo in contatto immediatamente con il suo capo mandamento Bernardo Brusca, il quale gli aveva mandato a dire che “Mario” (pseudonimo di Calò) lo cercava e di mettersi a disposizione con lo stesso Barbarossa; che si erano rincorsi, invano, telefonicamente, per due-tre giorni, con Barbarossa, finché questi il 18 giugno 1982, gli aveva detto: “l’ho visto [Calò], ha fatto tutto, non c’è bisogno d’incontrarvi, ha fatto tutto con i napoletani. Ce l’hanno sbrigata i napoletani”. La temuta collaborazione di Roberto Calvi e la convergenza dei collaboratori di giustizia sull’essere la mafia mandante dell’omicidio Una collaborazione con la giustizia di Roberto Calvi sarebbe stata dirompente, come apparve chiaro sin dal momento in cui fece alcune dichiarazioni durante la sua detenzione nel processo per gli illeciti valutari poco prima della sua fuga. Calvi era divenuto pericoloso, aveva finanziato tutti i maggiori partiti politici italiani, aveva minacciato alti prelati della Chiesa Cattolica (o, quantomeno, aveva l’intenzione di farlo), Cosa nostra non era riuscita a recuperare integralmente il denaro che aveva investito suo tramite e in molti avevano un interesse alla sua eliminazione. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono state concordi sul fatto che mandante dell’omicidio del banchiere “fu la mafia”. Calvi aveva manifestato l’intenzione ricattatoria, anche a piani elevatissimi (in tal senso vanno ricordate le lettere al Cardinale Palazzini e allo stesso Sommo Pontefice).

La spremitura finanziaria del banchiere
Calvi era stato spremuto finanziariamente prima dell’omicidio. Flavio Carboni è stato condannato in via definitiva per la bancarotta del banco Ambrosiano per aver distratto, in concorso con Calvi, 19 milioni di dollari, dal febbraio al giugno 1982. Calvi aveva, infatti, trasferito sui conti riconducibili a Carboni, in epoca assai prossima a quella del delitto, 4 milioni di dollari, il 30 aprile e il 1 giugno, rispettivamente, cinque e dieci milioni di dollari. Diotallevi aveva percepito 530.000,00 dollari, mediante bonifico bancario (effettuato da Carboni una settimana dopo l’attentato a Roberto Rosone e 46 giorni prima dell’omicidio del banchiere. Licio Gelli è stato condannato sempre per il crac dell’Ambrosiano per essersi appropriato di 82.370.135,46 dollari e 2.458.082 di franchi svizzeri25. Va sottolineato che Gelli si è reso protagonista del più grave dei fatti di spoliazione del Banco Ambrosiano, e cioè quello connesso alle operazioni di ricapitalizzazione della Rizzoli. Non va dimenticato che l’operazione Rizzoli ha consentito al gruppo Calvi - Gelli - Ortolani26 di acquisire il controllo del principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, e le attività editoriali a esso legate. Pare opportuno soffermarsi succintamente sulla circostanza oggettiva della contestualità e identità di provenienza tra la prima delle erogazioni (11 febbraio 1982, a valere sui conti BAOL, per il tramite della Inversionista Dalavi S.A.) effettuata a beneficio diretto di Carboni (4.000.000,00 US $ a beneficio del conto UBS Lugano A/C 677031) e quelle effettuate a beneficio di Francesco Pazienza (5.000.000,00 US $ a beneficio del conto A/C Andros S.A., Panama) e di Maurizio Mazzotta (3.000.000,00 US $ a beneficio del conto A/C Mertanil Assets, Ginevra), a tutte le quali è stata attribuita dal giudizio di bancarotta del Banco Ambrosiano natura distrattiva.

Un delitto mascherato da suicidio senza colpevoli. Le dichiarazioni rese da Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e Antonino Giuffré
A oggi non sappiamo chi volle l’omicidio di Calvi e come venne eseguito a Londra. Vari protagonisti della vicenda sono deceduti (come, ad esempio, Flavio Carboni, Licio Gelli, Paul Marcinkus, Giuseppe Calò, Lorenzo Di Gesù, Vincenzo Casillo, Francesco Di Carlo) e hanno portato con loro i segreti che non hanno mai voluto rivelare. Vi sono stati, però, alcuni collaboratori di giustizia di comprovata attendibilità che hanno fornito indicazioni che possono aiutare a comprendere il contesto nel quale è avvenuto il delitto e costituire, forse, uno spunto per futuri approfondimenti.
Il 30 luglio 1984 Tommaso Buscetta, davanti al giudice Giovanni Falcone ha dichiarato: “Pippo Calò, secondo Badalamenti era certamente invischiato nella vicenda Calvi, anche se esso Badalamenti non era in possesso di ulteriori particolari”. Nell’interrogatorio del 3 ottobre 1991 Buscetta ha poi precisato che Gaetano Badalamenti, tornato dall’Italia, in Brasile, gli mostrò una rivista italiana contenente un articolo sulla morte del banchiere

Roberto Calvi e, indicando la fronte, gli disse in dialetto siciliano “u vidi u to figliozzu, intra sta cosa ci trasi fino a ccà”. Il 16 novembre 1992, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, Buscetta ha aggiunto che Calò all’epoca era in rapporti di affari illeciti con “la gente di Roma”, come Balducci, Diotallevi e Abbrucciati: in particolare era socio con Balducci in tutti i sequestri di persona che si facevano nella provincia di Roma e in Toscana. Infine, ha riferito che nel 1980, pochi giorni prima che venisse compiuto l’attentato a Roberto Rosone, si era recato presso l’abitazione romana di Calò e vi aveva trovato anche Danilo Abbrucciati (morto proprio in occasione di quell’attentato). In data 15.7.1991, Francesco Marino Mannoia ha riferito di aver appreso: da Giovan Battista Pullarà che il motivo dell’omicidio era dovuto al fatto che Calvi “si era impadronito di una grossa somma di denaro che apparteneva a Licio Gelli e a Calo’”; che Calvi “si era appropriato dei soldi affidatigli da Gelli ma che in parte erano anche di Calo’”; che Calò e Gelli avevano recuperato, in tutto o in parte, i soldi (nell’ordine di decine di miliardi) prima della morte di Calvi, ma che “ormai Calvi era inaffidabile”. Nel corso della deposizione dibattimentale innanzi alla Corte d’Assise di Roma, Mannoia ha riferito che il principale canale di investimento e di riciclaggio di Bontate era Sindona, mentre Calò investiva i suoi soldi attraverso Roberto Calvi, Licio Gelli e Carboni, aggiungendo che Calvi si era impossessato di forti somme di denaro appartenenti all’ala vincente di Cosa Nostra come Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Brusca. Prima dell’assassinio di Calvi una parte del denaro consegnatogli era stato “recuperato”. Non era, però, in grado di precisare le modalità ed il quantitativo. Tra il denaro consegnato a Calvi ve ne era anche di non appartenente a cosa nostra, vale a dire Licio Gelli. Antonino Giuffré ha dichiarato che parte del denaro, investito da Cosa Nostra e riciclato tramite il Banco Ambrosiano, non era stato recuperato29. I soldi che erano stati investiti nel Banco Ambrosiano erano di Calò, del suo mandamento e, più in generale, di Salvatore Riina e di Cosa Nostra siciliana. Ha, poi, riferito che vi era un altro motivo per cui si era deciso di eliminare Calvi. Era “diventato un pericolo per tutto il contesto”, nell’ultimo periodo in cui la magistratura aveva cominciato a “indagare”. Aveva avuto paura, aveva chiesto aiuto e minacciato altri dello stesso contesto. Era “diventato pericoloso e inaffidabile”31 nel momento in cui CALVI aveva iniziato ad avere dei guai giudiziari. Tra le persone che Calvi aveva minacciato di portarsi appresso vi era l’arcivescovo Marcinkus, il quale si era servito di Calvi e dell’Ambrosiano per far transitare ingenti capitaliappartenenti ad altre banche e a Cosa Nostra. Perciò, Calvi era nelle condizioni di minacciare e di diventare pericoloso per Marcinkus34. Marcinkus aveva un interesse all’eliminazione di Calvi perché Calvi poteva parlare con la magistratura. Nessuno, però, gli aveva detto che Marcinkus era uno dei mandanti. Le notizie su Marcinkus le aveva apprese da discorsi tra Lorenzo Di Gesù e Francesco Intile. Marcinkus era particolarmente esposto con Calvi ed era coinvolto “in certi discorsi con Sindona”. Egli era uno degli amministratori dello IOR e riciclava i soldi della mafia. Il collaborante ha, poi, riferito che vi era un contesto a tre, rappresentato dal Cardinale Marcinkus, da Cosa Nostra, dalla Loggia Massonica P2 e, in particolare, Licio Gelli, i quali collaboravano tra loro. Ben presto Calvi, nella seconda metà degli anni ’70 e sino agli inizi degli ’80 entrava in un grosso giro di denaro proveniente dal traffico di stupefacenti38. Calvi era nelle condizioni di minacciare tutti costoro perché tali soggetti avevano avuto a che fare con lui, avendolo “appoggiato nella sua ascesa al potere” e lo avevano “usato” per la creazione di un’economia sommersa e per il riciclaggio. Calvi aveva preso il posto che era stato di Sindona. Le persone che giravano attorno a Calvi, nell’ultimo periodo, avevano cominciato ad avere paura39. Nel momento in cui Calvi aveva cominciato “a fare minacce” per lui era stato “l’inizio della fine”40. I plurimi possibili moventi. I dati enigmatici e i quesiti senza risposta.
La Corte d’Assise d’Appello ha riconosciuto che diversi erano i possibili moventi e molti anche i soggetti, individuali e collettivi, potenzialmente interessati all’eliminazione del banchiere. Si legge, infatti, nel corpo della motivazione: “Col primo giudice occorre ripetere ciò che vale per la posizione di ciascuno degli imputati di questo processo ‘troppi sono i moventi alternativi ipotizzabili e troppi sono i soggetti e le organizzazioni che avrebbero avuto interesse all’eliminazione di Calvi: dalla mafia, alla camorra, alla P2, allo IOR e ai politici italiani (beneficiari delle tangenti o interessati a cambiare l’assetto del Banco Ambrosiano o a mutare gli equilibri di potere all’interno del Vaticano). In tale ambito di ipotesi non sufficientemente dimostrate, possono anche comprendersi i servizi segreti inglesi, essendosi acclarato che Calvi aveva, tra l’altro, finanziato l’invio di armi ai dittatori argentini nel periodo in cui era in atto il conflitto bellico per le isole Falkland. E così anche i Servizi segreti italiani, che hanno mostrato (avvalendosi pure del loro ambiguo collaboratore Pazienza) di essere sempre informati di tutto e di aver seguito sino all’ultimo le mosse di Carboni e di Calvi; e che potrebbero aver perseguito lo scopo di evitare la destabilizzazione che sarebbe derivata da uno scandalo avente per oggetto il sistema politico italiano e la Chiesa Cattolica o potrebbero essere stati deviati e manovrati da occulti entri di potere”. Permangono, poi, dati enigmatici, come la sparizione di alcuni fogli dell’agenda di Flavio Carboni, tenuta da Anna Pacetti, relativi a date significative in corrispondenza di una serie di giorni dei mesi di maggio e di giugno 1982.

Numerosi quesiti sono rimasti senza risposta
Chi è il fantomatico “biondino” (uomo rimasto senza nome e un volto) che aveva viaggiato con Diotallevi, a bordo dell’aereo privato predisposto da Flavio Carboni, allorché portarono il falso passaporto e del denaro al banchiere? Chi è il “Sergio” che risultava annotato in tale agenda il 9 giugno 1982, a partire dalle ore 11.15, con riferimento a telefonate di Ernesto Diotallevi, relative a un ragazzo di nome “Sergio” (e, in particolare, al suo arrivo)? Sussistono legami tra Sergio Vaccari, appartenente alla massoneria, assassinato nel suo appartamento a Londra il 16 settembre del 1982, il Sergio annotato nell’agenda e l’esecuzione dell’omicidio di Calvi, Vincenzo Casillo e Francesco Di Carlo? Chi sono i due soggetti, rimasti ignoti, che, secondo le dichiarazioni rese da Cecil Coomber (il quale soggiornava al Chelsea Cloister), hanno portato via Calvi dal residence? Fra loro, vi erano Casillo, il biondino o Di Carlo? Come mai la fonte Podgora, identificata in Eligio Paoli, venne tratta in arresto quando aveva iniziato a fornire importanti indicazioni sull’omicidio, lanciando accuse nei confronti di Licio Gelli e di Flavio Carboni, evidenziando che Silvano Vittor aveva visto le persone con le quali Calvi si era allontanato la sera dell’omicidio? Da chi provenivano i 211,9 milioni di dollari, individuati dagli ispettori della Banca d’Italia, guidati da Giulio Padalino, che avevano contribuito tra il 1971 e il 1977 a far lievitare i depositi della Cisalpine Overseas Bank Ltd, poi trasformata in Banco Ambrosiano di Nassau e chi ottenne, poi, le restituzioni prima dell’omicidio del banchiere. L’inaccessibilità della documentazione e della contabilità inerente allo IOR e alla liquidazione del Banco di Nassau non ha mai consentito di conoscere quali risorse finanziarie abbiano alimentato detti innesti di denaro. E, ancora, perché lo Ior si è determinato a versare 241 milioni di dollari alla liquidazione del Banco Ambrosiano e a rinunciare alle sue pretese verso il banco? È stato effettivamente erogato denaro mafioso da Calvi per impedire l’avanzata comunista nei Paesi dell’America Latina e contrastare l’egemonia dei regimi marxisti nell’Europa orientale? Lo stesso ha scritto di aver effettuato finanziamenti (senza specificare quale fosse la provenienza del denaro impiegato) in lettere rinvenute all’interno della borsa che portava con sé e che, solo dopo il suo assassinio, è stata mostrata nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi? Cos’altro era contenuto nella borsa che Calvi portava con sé durante il suo peregrinare attraverso l’Europa? Come mai Ugo Flavoni si recò con un aereo privato a Londra, all’aeroporto di Gatwich il 18 giugno 1982 per incontrare Flavio Carboni, preferendo patteggiare una pena per il reato di falsa testimonianza? L’auspicio di poter conoscere la verità Senza verità completa non potrà mai esservi davvero giustizia. È necessario, dunque, che si arrivi a conoscerla se vogliamo davvero procedere a una riconciliazione con il nostro passato, permeato dal tristo connubio tra Cosa nostra, camorra, esponenti dello IOR, della loggia P2, di esponenti di partiti politici e di centri finanziari, che ha avvolto uno dei più inquietanti delitti mai compiuti. Se Pippo Calò decidesse di raccontare quanto a sua conoscenza, ritengo che potrebbe accendere un faro su quanto è accaduto o, almeno, far conoscere una parte significativa di una verità forse indicibile. Le collaborazioni qualificate con la giustizia potrebbero essere incentivate. E in questa prospettiva sarebbe importante che gli appartenenti al crimine organizzato percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione, non smantellando gli strumenti esistenti, ma potenziandoli e considerando il contrasto alla criminalità organizzata in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie. Diventa, perciò, importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza, potenziando l'efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato.

Tratto da: questionegiustizia.it

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