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Don Pino Puglisi venne ucciso a colpi di pistola il giorno del suo 56° compleanno il 15 settembre 1993.
Un prete missionario, un educatore e compagno di migliaia di giovani, un rivoluzionario in un quartiere, quello di Brancaccio a Palermo, dove Cosa nostra, ed in particolare la famiglia Graviano, regna.
Per quell’omicidio vennero condannati come mandanti i capimafia Filippo e Giuseppe Graviano, che il killer Salvatore Grigoli. Quest’ultimo, poco dopo l’arresto del giugno 1997, iniziò a collaborare con la giustizia, confessando 46 omicidi tra cui proprio quello di don Pino. Assieme a lui c’era un altro killer, Gaspare Spatuzza, anche lui divenuto collaboratore di giustizia a partire dal 2008, condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Palermo assieme a Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone, gli altri componenti del commando che aspettò nei pressi dell’abitazione il prete.
Spatuzza, in un memoriale in cui parla in terza persona, descrisse quei momenti con dovizia di particolari: ''Gaspare Spatuzza lo affianca alla sua sinistra, Salvatore Grigoli alla destra. Padre Puglisi, con un sorriso, prima guarda Spatuzza, poi Grigoli. Allora Spatuzza, cercando la mano di Padre Puglisi, per rubargli il borsello che teneva con la sinistra, gli intima: 'Padre, questa è una rapina'. Puglisi, sorridendo dolcemente e con serenità, dice: 'Lo avevo capito'. A quel punto Spatuzza prende il borsello di Padre Puglisi e china la testa per far capire a Grigoli che può sparare. Salvatore Grigoli, che nel frattempo aveva puntato l'arma alla nuca di Padre Puglisi, spara un solo colpo, come prestabilito, per farlo apparire un incidente nel corso di una rapina. Padre Puglisi cade a terra. Gli assassini, con passo regolare, si allontanano dal luogo del delitto, a bordo delle autovetture che li aspettavano''.
La sua morte, ricordiamo, avvenne dopo che la mafia colpì “al cuore la cristianità con le stragi in simultanea del 28 luglio 1993 nella Capitale ai suoi luoghi simbolo (la chiesa più antica, quella di San Giorgio al Velabro, e la basilica di San Giovanni in Laterano, cuore della Roma cristiana)”. "Sebbene la comunità ecclesiale non si sia costituita parte civile nei processi celebrati - aveva scritto il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli - il suo esempio di vita coraggioso (come lo è stato quello di Giuseppe Diana, ucciso in altro contesto territoriale, a Casal di Principe da appartenenti alla Camorra il 19 marzo 1994) ha svolto una funzione di traino per l’azione di altri sacerdoti che, a partire da quel crimine, si sono impegnati in una concreta attività preventiva di contrasto al crimine mafioso, diffondendo un autentico messaggio evangelico non fatto di mere parole".
Ma chi erano i mandanti del suo omicidio?


graviano filippo giuseppe da ilfatto

Filippo e Giuseppe Graviano


"I famigerati fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, condannati come mandanti con sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 7 dicembre 2001". Loro "ordinarono che il medico Salvatore Mangano, insospettabile favoreggiatore dei mafiosi, fosse posto 'alle costole' di don Pino per seguirne i movimenti che furono di preparazione all’assassinio, perché avevano il sospetto (rivelatosi infondato) che all’interno della parrocchia e del centro di accoglienza 'Padre Nostro' (posto a poche decine di metri dal domicilio anagrafico dei fratelli e su un’arteria di quel quartiere di interesse strategico: via Conte Federico) albergassero agenti di polizia in missione".
"Giuseppe e Filippo Graviano" sono i capi del mandamento di Brancaccio, "posto alla periferia di Palermo" e che "conoscono i contenuti dei patti che hanno segnato lo stragismo del biennio ’93-’94 e che mirano a uscire dal carcere, confidando sull’eliminazione/modifica della normativa sull’ergastolo ostativo, ritenuta dalla Corte costituzionale non più uniforme al dettato della Carta costituzionale".
Dietro la morte di don Pino, omicidio comunque eccellente, vi è anche un buco nero che forse solo Giuseppe Graviano, qualora decidesse di collaborare con la giustizia, potrebbe svelare fino in fondo.
E' assolutamente verosimile che la morte del sacerdote di Brancaccio, oggi beato, possa essere stato un messaggio contro la stessa Chiesa Cattolica che al tempo, nei suoi vertici, aveva iniziato un'opera di distacco rispetto ai rapporti avuti con la mafia. Un legame forte che andava anche oltre alla semplice connivenza e che vedeva il suo lato più oscuro nei rapporti tra mafia e Ior. Pensiamo al ventennio della gestione a dire poco discussa del cardinale statunitense Paul Casimir Marcinkus (dal 1971 al 1989), che ebbe il suo apice nello scandalo della loggia P2 e nel crac del Banco Ambrosiano del 1982. E poi ancora i rapporti con il banchiere Michele Sindona, in rapporti con Giulio Andreotti e Papa Paolo VI, che riciclava il denaro della mafia nella banca del Vaticano e nel Banco Ambrosiano.
Ma dalla Chiesa, il 9 maggio 1993, si levò un grido. In quel giorno, nella Valle dei Templi, Giovanni Paolo II sferrò un duro attacco a Cosa Nostra: “Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita, che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”, gridò il Papa. Parole forti da cui la Chiesa dovrebbe ripartire per rompere definitivamente quel legame con la mafia che nel corso della storia si è manifestato a più riprese.
Un testimone che è stato preso anche da Papa Francesco che ha scomunicato ufficialmente i mafiosi il 21 giugno 2015 ("I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati"). Queste parole che assumono ancora più forza se accompagnate dal sorriso e dall'esempio di don Pino. Un esempio che concretizza il vero messaggio evangelico: attaccare il potere corrotto ed essere al servizio degli ultimi, dei "minori a rischio" degli "anziani", delle "madri sfrattate", dei disadattati" e dei "familiari dei detenuti".
Essere "senza ambiguità, dalla parte dei deboli", "denunciare i soprusi mafiosi e impedire ai potenti del quartiere di sponsorizzare iniziative volte a raccogliere sostegni elettorali".
Tutto questo fece don Pino Puglisi.
Alle 18 di venerdì 15 settembre è prevista alla cattedrale di Palermo la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e concelebrata dall’arcivescovo Corrado Lorefice.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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