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Il 15 settembre 1993 non fu un giorno come tanti per don Pino Puglisi. Si recò in comune a richiedere l’utilizzo di uno stabile in via Hazon 18, nel quartiere di Brancaccio, da sempre zona di mafia. Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone entrarono in azione intorno alle ore 20:40, nel piazzale Anita Garibaldi, all’altezza del civico n. 5. Mentre rientrò a casa, Don Puglisi, venne avvicinato da Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza. Grigoli prese l’arma. Toccava a lui sparare. “Padre questa è una rapina” disse Spatuzza. Don Pino si voltò e con il sorriso sulle labbra rispose: “Me l’aspettavo”. Grigoli gli sparò alle spalle un colpo solo alla nuca, con una pistola calibro 7,65 munita di silenziatore, da breve distanza (come confessò quattro anni dopo, quando venne arrestato e iniziò a collaborare con la giustizia). Spatuzza gli strappò il borsello. Il corpo senza vita del parroco di Brancaccio cadde a terra, ma quel sorriso non si spense.
La sua morte, ricordiamo, avvenne dopo che la mafia colpì “al cuore la cristianità con le stragi in simultanea del 28 luglio 1993 nella Capitale ai suoi luoghi simbolo (la chiesa più antica, quella di San Giorgio al Velabro, e la basilica di San Giovanni in Laterano, cuore della Roma cristiana)”. "Sebbene la comunità ecclesiale non si sia costituita parte civile nei processi celebrati - ha scritto il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli sul 'Fatto Quotidiano' - il suo esempio di vita coraggioso (come lo è stato quello di Giuseppe Diana, ucciso in altro contesto territoriale, a Casal di Principe da appartenenti alla camorra il 19 marzo 1994) ha svolto una funzione di traino per l’azione di altri sacerdoti che, a partire da quel crimine, si sono impegnati in una concreta attività preventiva di contrasto al crimine mafioso, diffondendo un autentico messaggio evangelico non fatto di mere parole".
Ma chi erano i mandanti del suo omicidio?
"I famigerati fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, condannati come mandanti con sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 7 dicembre 2001". Loro "ordinarono che il medico Salvatore Mangano, insospettabile favoreggiatore dei mafiosi, fosse posto 'alle costole' di Don Pino per seguirne i movimenti che furono di preparazione all’assassinio, perché avevano il sospetto (rivelatosi infondato) che all’interno della parrocchia e del centro di accoglienza 'Padre Nostro' (posto a poche decine di metri dal domicilio anagrafico dei fratelli e su un’arteria di quel quartiere di interesse strategico: via Conte Federico) albergassero agenti di polizia in missione".
"Giuseppe e Filippo Graviano" sono i capi del mandamento di Brancaccio, "posto alla periferia di Palermo "e che "conoscono i contenuti dei patti che hanno segnato lo stragismo del biennio ’93-’94 e che mirano a uscire dal carcere, confidando sull’eliminazione/modifica della normativa sull’ergastolo ostativo, ritenuta dalla Corte costituzionale non più uniforme al dettato della Carta costituzionale".
Le ragioni dell'omicidio del sacerdote sono da ricercare nell'attivismo "antimafia del povero padre Puglisi - ha spiegato il magistrato fiorentino sul 'Fatto' - “che ha agito in solitudine" e che costituì "un grosso pericolo per” i fratelli Graviano e per la loro “libertà di movimento, di cui pur godevano durante la loro latitanza, grazie all’omertà e al terrore che regnavano nella zona”.
Dietro la morte di don Pino, omicidio comunque eccellente, vi è anche un buco nero che forse solo Giuseppe Graviano, qualora decidesse di collaborare con la giustizia, potrebbe svelare fino in fondo.
E' assolutamente verosimile che la morte del sacerdote di Brancaccio, oggi beato, possa essere stato un messaggio contro la stessa Chiesa Cattolica che al tempo, nei suoi vertici, aveva iniziato un'opera di distacco rispetto ai rapporti avuti con la mafia. Un legame forte che andava anche oltre alla semplice connivenza e che vedeva il suo lato più oscuro nei rapporti tra mafia e Ior. Pensiamo al ventennio della gestione a dire poco discussa del cardinale statunitense Paul Casimir Marcinkus (dal 1971 al 1989), che ebbe il suo apice nello scandalo della loggia P2 e nel crac del Banco Ambrosiano del 1982. E poi ancora i rapporti con il banchiere Michele Sindona, in rapporti con Giulio Andreotti e Papa Paolo VI, che riciclava il denaro della mafia nella banca del Vaticano e nel Banco Ambrosiano.
Ma dalla Chiesa, il 9 maggio 1993, si levò un grido. In quel giorno, nella Valle dei Templi, Giovanni Paolo II sferrò un duro attacco a Cosa Nostra: “Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, qualsiasi mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Questo popolo siciliano è un popolo talmente attaccato alla vita, che dà la vita. Non può sempre vivere sotto la pressione di una civiltà contraria, di una civiltà della morte. Qui ci vuole una civiltà della vita. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”, gridò il Papa. Parole forti da cui la Chiesa dovrebbe ripartire per rompere definitivamente quel legame con la mafia che nel corso della storia si è manifestato a più riprese.
Un testimone che è stato preso anche da Papa Francesco che ha scomunicato ufficialmente i mafiosi il 21 giugno 2015 ("I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati"). Queste parole che assumono ancora più forza se accompagnate dal sorriso e dall'esempio di don Pino. Un esempio che concretizza il vero messaggio evangelico: attaccare il potere corrotto ed essere al servizio degli ultimi, dei "minori a rischio" degli "anziani", delle "madri sfrattate", dei disadattati" e dei "familiari dei detenuti".
Essere senza "senza ambiguità, dalla parte dei deboli", "denunciare i soprusi mafiosi e di impedire ai potenti del quartiere di sponsorizzare iniziative volte a raccogliere sostegni elettorali".
Tutto questo fece don Pino Puglisi.
Per questo vivrà per sempre nel cuore e nelle menti di tutti coloro che vorranno seguire il suo esempio.
I fratelli Graviano avranno anche ottenuto la sua morte, ma il suo sacrificio ha marchiato nel profondo i due killer, divorati dal rimorso e dal pentimento fino a scegliere la via della collaborazione con la giustizia.
E' questo l'insegnamento più grande che giunge nel giorno della sua commemorazione. Un impegno etico e morale che dovrebbe essere proprio di tutti, oltre la fede, in una rivoluzione laica.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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