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“Agenda rossa fu presa ma non dalla mafia”. Chiesta la condanna dei poliziotti

"Figura centrale di questo depistaggio è Arnaldo La Barbera. Mi auguro di non sentire affermazioni, da parte della difesa, sul fatto che si processano i morti, chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado. Perché al di là delle frasi ad effetto mi piacerebbe capire cosa dovrebbe fare un pubblico ministero quando c'è l'ipotesi di un'azione delittuosa concorsuale nel momento in cui la figura centrale è deceduta. Dovremmo archiviare anche per gli altri? E nemmeno si possono omettere tutte le argomentazioni che riguardano la figura centrale". Ad affermarlo è il pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla procura generale, iniziando la sua requisitoria nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio che si celebra a Caltanissetta nei confronti degli ex appartenenti al gruppo di indagine Falcone-Borsellino, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di concorso in calunnia aggravata dall'avere agevolato Cosa nostra depistando le indagini sulla strage di via D'Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta.
Il tribunale di Caltanissetta, in primo grado, aveva dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei. Invece il terzo imputato, Ribaudo, era stato assolto.
Nella sua ricostruzione il pm si è concentrato proprio sul ruolo di La Barbera, la cui figura secondo la Procura di Caltanissetta sarebbe coinvolta anche nella sparizione dell'agenda rossa del giudice Borsellino.
"Dobbiamo partire dalle risultanze su Arnaldo La Barbera che ci danno l'immagine di un soggetto che è un ponte tra due mondi, quello di Cosa Nostra e quello dei servizi deviati, entrambi interessati al mancato accertamento della verità - ha continuato Bonaccorso rivolgendosi alla corte all'interno del aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta - Alla scorsa udienza ho iniziato la requisitoria parlando dell'anomala collaborazione, per non dire inquietante, tra la procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase preliminare delle indagini. Questa collaborazione nasce dall'ostinazione del dottore Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, che all'indomani della strage sollecitò una collaborazione con il Sisde. La cosa singolare è che l'attività del Sisde, anziché entrare in collisione con l'attività della Squadra Mobile di Palermo, si salda perfettamente con essa. Il Sisde veste di mafiosità Vincenzo Scarantino, che fino ad allora era stato un delinquente comune".
Sul punto già in primo grado il collegio presieduto da Francesco D'Arrigo aveva messo in evidenza le anomalie che portarono al "picciotto" della Guadagna (così era definito Scarantino).
In questo senso un peso lo ha avuto indubbiamente la nota del 10.10.1992, con cui si ricostruisce la presunta caratura criminale e le parentele mafiose di Vincenzo Scarantino. Una nota che, scrivono i giudici, servirà successivamente a “vestire il pupo”, cioè a presentare come stragista di Cosa nostra uno “scassapagliaro” che vendeva sigarette di contrabbando.
Altro argomento affrontato da Bonaccorso, che ha criticato la sentenza di primo grado che non ha valorizzato il dato, è quanto emerso in questi anni sul Capo della Squadra mobile La Barbera, il quale aveva già intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il Sisde (dal 1986 al marzo 1988), con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia. "Solo dopo la morte di Arnaldo La Barbera si scoprì che c'era un rapporto di collaborazione tra il poliziotto e il Sisde. - ha ricordato il pm - Il dottore Arnaldo La Barbera era finanziato dal Sisde in nero. Sono soldi che lui prendeva non per pagare i confidenti ma per cose personali. Per pagarsi l'albergo, dove amava stare. Un tenore di vita assolutamente considerevole in relazione a quello che poteva essere la capacità reddituale di un funzionario di polizia. Situazione di una gravità inaudita. Il fatto che La Barbera venisse sovvenzionato vi sembra poco?". "A raccontarci un episodio fondamentale - ha proseguito Bonaccorso - è stato Vincenzo Pipino. Era in carcere, dopo essere stato detenuto a Venezia con Vincenzo Scarantino, e vede Scarantino in televisione e dice: 'ah il collaboratore dei servizi segreti'".


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Giovanni Arcangioli


L'agenda rossa non in mano a Cosa nostra

Nel corso della requisitoria uno degli argomenti trattati, ovviamente, è stato la sparizione dell'agenda rossa di Borsellino, sparita il giorno stesso della strage. Un tema ritenuto “fondamentale”. “Abbiamo una serie di fonti dichiarative che ci confermano l'importanza per Borsellino di questa agenda rossa. In questa agenda lui annotava una serie di riflessioni sulla strage di Capaci nella speranza di essere sentito a Caltanissetta - ha continuato Bonaccorso - La signora Agnese Piraino Borsellino ha spiegato che, nella certezza di essere ucciso, Borsellino aveva cominciato a usare due agende, quella grigia e quella rossa, dove annotava sue riflessioni. Il secondo dato è la presenza dell'agenda rossa nella borsa di Borsellino il 19 luglio 1992. Abbiamo sul punto le dichiarazioni della dottoressa Borsellino che ci dice: papà aveva tre agende, una marrone, dove metteva qualche dato e numeri di telefono, l'altra grigia, dove annotava alcune cose, e quella rossa che per lui era importantissima. Quella mattina aveva portato l'agenda con sé perché non verrà ritrovata a casa dei familiari. In macchina venne accompagnato dal figlio Manfredi che gli porta la borsa e gliela consegna. E l'agenda era in quella borsa. Quando Borsellino scende dalla macchina in via D'Amelio non ha con sé in mano l'agenda rossa. Primo perché lui guida la macchina e poi dalle testimonianze emerge che il dottore Borsellino, prima di andare a citofonare alla madre, si accende una sigaretta. Quindi aveva in una mano la sigaretta e nell'altra l'accendino, quindi non poteva avere l'agenda in mano. Altro dato su quale abbiamo certezza è l'inesistenza di una seconda borsa di Borsellino".
Sulla sparizione dell'agenda rossa il magistrato ha comunque offerto una sua chiave di lettura sugli eventi: “Altro dato significativo è che questa agenda non è stata più trovata, quindi qualcuno se n'è appropriato. E non è qualcuno di Cosa Nostra. Perché non è pensabile che sulla scena della strage ci fossero dei mafiosi intervenuti per appropriarsi dell'agenda rossa. Altro dato è che la borsa ricompare nella stanza di Arnaldo La Barbera a mesi di distanza, in maniera irrituale, senza che sia stato fatto un verbale di sequestro, e soprattutto viene riconsegnata in maniera irrituale alla famiglia di Borsellino. E ancora La Barbera invita Magi a predisporre una relazione di servizio sulla borsa”.


Rinnovate indagini

Il pg ha evidenziato che molti dati acquisiti con l'ultima indagine non possono essere utilizzati nel dibattimento (“Ho il rammarico che, purtroppo, in questo processo non è stato possibile effettuare la discovery completa degli elementi finora emersi, e mi auguro che un giorno non dovremmo mangiarci le mani in relazione all'esigenza di preservare un indagine in corso”).
In particolare il riferimento è all'inchiesta che vede coinvolti alcuni familiari di La Barbera. Nell'ambito di quelle indagini a settembre 2023 sono stati sequestrati diversi documenti bancari dalla casa dell'ex dirigente della Squadra mobile. "Fra il 1990 e il 1992 furono fatti versamenti per complessivi 114 milioni delle vecchie lire. Le anomalie riguardano soprattutto il 1992, la Guardia di finanza ha accertato una sperequazione di circa 97 milioni rispetto al reddito percepito'', ha ribadito in aula il pm Bonaccorso.
Per la borsa di Borsellino "qualcuno mente e qualcuno dice la verità", ha detto il pg.
Secondo la ricostruzione della procura generale con le nuove indagini si sarebbe fatta luce parzialmente nel passaggio della borsa di Borsellino da via D'Amelio fino all'ufficio di La Barbera. “Al di là dei cattivi ricordi di Arcangioli - ha detto - abbiamo dichiarazioni per ricostruire la fase tra il possesso della borsa di Borsellino dalle mani di Arcangioli fino alla stanza dell'ex dirigente della squadra mobile". Sul punto, però, rimangono diversi dubbi a partire da ricordi sfumati e tardivi di diversi testimoni auditi.


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Agnese Piraino Borsellino © Imagoeconomica

 

Stop all'indagine sui mandanti esterni

Ma La Barbera sarebbe stato protagonista anche di un'altra attività “depistante”, volto a lasciare fuori dalle indagini tutti i collegamenti possibili con i cosiddetti mandanti esterni. "C'era stato il tentativo di Arnaldo La Barbera di coinvolgere Gioacchino Genchi in questo scopo - ha detto il pm - Certamente comportava la chiusura delle indagini sulla strage di Via D'Amelio indicando la pista mafiosa e lasciando fuori tutti gli ambienti esterni e le responsabilità esterne dell'esecuzione della strage rappresentando che era un input che veniva dalla scala gerarchica e cercando di convincere Genchi di limitare le indagini sulla strage con la possibilità di promozione e progressione di carriera". Genchi, come è noto, è un funzionario di Polizia che inizialmente collaborò con il Gruppo investigativo 'Falcone e Borsellino' come emerso nei processi fin qui celebrati abbandonò improvvisamente le indagini in polemica con La Barbera, l'ex dirigente della Squadra mobile di Palermo.
Che nella strage siano comunque coinvolte figure istituzionali per la Procura generae non vi è dubbio.
"Ci sono una serie di elementi che danno certezza del coinvolgimento di figure istituzionali nell'eliminazione del dottore Borsellino - ha ribadito Bonaccorso - Innanzitutto abbiamo le dichiarazioni di Spatuzza sul garage di via Villasevaglios, dove la Fiat 126 fu imbottita di esplosivo. All'interno del garage c'erano Renzino Tinnirello e un soggetto che lui dice di non aver mai visto prima e che non vedrà mai più dopo. Un soggetto che Spatuzza definisce estraneo a Cosa Nostra. Spatuzza dice 'se fosse stata una persona che conoscevo sarebbe rimasto qualcosa di più incisivo ma era un'immagine sfocata. Sono sicuro che non era un'immagine riconducibile a Cosa Nostra'. Il primo dato da cui occorre partire - ha aggiunto il magistrato - è che Spatuzza partecipa oltre al segmento esecutivo alla strage di via D'Amelio a tutte le stragi di Roma, Milano e Firenze, tra il '93 e '94. Ci spiega che in ogni occasione, ogni volta che ha partecipato a uno degli attentati, ogni qualvolta c'era qualche personaggio che non conosceva gli veniva spiegato chi fosse e il perché della sua presenza. Nel garage di via Villa Sevaglios invece non solo nessuno gli disse chi era questa persona ma non la vedrà mai più dopo. E questo per lui è significativo del fatto che non fosse appartenente a Cosa Nostra". "Le dichiarazioni di Spatuzza si conciliano con un'intercettazione tra Santino Di Matteo e la moglie Francesca Castellese", ha continuato Bonaccorso. "Nell'ottobre del '93 - ha detto il pm - Santino Di Matteo comincia una collaborazione sulla strage di Capaci. E durante l'interrogatorio del 25 ottobre dopo aver parlato della strage di Capaci dice che è in grado di riferire circostanze significative sulla strage di via d'Amelio ma per la stanchezza e l'ora tarda preferisce rimandare. Qualche settimana dopo viene rapito il figlio presso un maneggio e arriva un primo messaggio al padre del collaboratore con la scritta 'tappaci la bocca' e la foto del bambino, a dicembre arriva un altro messaggio in cui dicono che il figlio ce l'hanno loro e non deve parlare. Nell'intercettazione tra Santino Di Matteo e la moglie quest'ultima tenta di convincerlo a non fare dichiarazioni sulla strage di via D'Amelio dicendo peraltro che era coinvolto anche qualche poliziotto. Effettivamente poi Santino Di Matteo, nel nuovo interrogatorio, non farà più quelle dichiarazioni su via D'Amelio. I due coniugi su quella intercettazione si sono sempre nascosti dietro i 'non ricordo' e non hanno mai fornito chiare spiegazioni su quella conversazione".


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Strage via D'Amelio © Imagoeconomica


Sentenza da riformare

In un altro passaggio della requisitoria Bonaccorso ha detto di “essere convinto della colpevolezza dei tre imputati” ma anche di provare “un certo imbarazzo perché i demoni non sono solo loro. Questa fila, del banco degli imputati, doveva essere piena di tanta di quella gente che, o perché ha avuto la sfortuna di morire prima, o perché è nata con la camicia, l'ha fatta franca”. Secondo l'accusa, comunque, non vi sarebbero dubbi sulla colpevolezza degli imputati. "Arnaldo La Barbera era il ponte di collegamento tra i due mondi, Sisde e mafia, e ha depistato le indagini, agevolando la mafia, per impedire che si svelassero quei rapporti tra Cosa Nostra e apparati dello Stato fondamentali per la sopravvivenza dell'associazione. Il progetto criminale del dottore La Barbera non è un progetto criminale coltivato segretamente da lui ma qualcosa di condiviso, o quanto meno conosciuto, dai suoi più stretti collaboratori che con lui hanno condotto le indagini.
Risulta assolutamente accertato - ha detto il pm - che abbiamo due anime all'interno della squadra mobile di allora: coloro che vengono buttati fuori o si allontanano spontaneamente dal gruppo investigativo e coloro che hanno lavorato a stretto contatto con La Barbera. Questi ultimi negli anni si sono resi responsabili di gravi illeciti: torture su Salvatore Candura, interruzioni di intercettazioni, attività di studio con Vincenzo Scarantino e una serie infinita di false testimonianze".
Precedentemente ad intervenire nella requisitoria era stato il sostituto Procuratore generale Gaetano Bono il quale ha chiesto di riformare la sentenza di primo grado in particolare nella decisione di far cadere l’aggravante mafiosa.
Secondo il pg la sentenza va riformata "sia per i profili di fatto che di diritto". In quanto la "pronuncia assolutoria è incoerente". Per l'accusa la "contraddittorietà riguarda l'associazione mafiosa che è la questione più importante di tutto il processo. Si ritiene sussistente la circostanza aggravante che permetterebbe alla Corte di pronunciarsi sulle responsabilità di Mario Bo e Fabrizio Mattei ma anche su quella di Michele Ribaudo". Secondo Bono "siamo in presenza di una motivazione insufficiente" e da parte dei poliziotti non vi era "nessuna banale voglia di fare carriera ma la volontà agevolativa a Cosa nostra nel depistare le indagini" sulla strage di via D'Amelio.


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Vincenzo Scarantino


Nodo Scarantino

"La sentenza di primo grado è illogica, iniqua e fuorviante - ha detto proseguendo la requisitoria - Si registra una illogicità della sentenza di primo grado che a distanza di poche pagine traccia un quadro incoerente sull'attendibilità di Vincenzo Scarantino".
Su Scarantino, secondo il Pg, i giudici di primo grado sbagliano quando scrivono che "è da ritenersi sussistente un nucleo di limitata attendibilità" ed elenca 4 punti. Successivamente viene affermato che "Scarantino è pienamente attendibile ove evidenzia un indottrinamento fin dal primo interrogatorio del giugno 1994". Poi, i giudici di primo grado definiscono Scarantino un "mentitore id professione", che è "una definizione iniqua e fuorviante, illogica". Se così è, "come si fa se è stato costretto a mentire?", si è chiesto Gaetano Bono.


Chiesta la condanna

A concludere la requisutoria, con la richiesta di condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, è stato il Procuratore generale di Caltanissetta Fabio D'Anna. "Quello che si sta per chiudere - ha detto nel suo intervento - è l'ultimo capitolo di una vicenda iniziata 30 anni fa e non ancora conclusa. A breve avremmo l'apertura di un nuovo processo con altri quattro poliziotti". "La sentenza di primo grado - ha continuato il procuratore generale - ha stabilito che due dei tre imputati hanno sicuramente contribuito all'inquinamento delle prove delle indagini. A questo inquinamento probatorio hanno contribuito anche alcuni colleghi, sicuramente poco attenti, che non sono stati in grado di cogliere elementi di falsità dell'ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino. L'inquinamento probatorio c'è stato. C'è stato anche un tradimento da parte degli apparati dello Stato che hanno tradito non solo Borsellino ma anche gli agenti della scorta. Un tradimento che non può essere perdonato. Si può tradire per tanti motivi: per soldi, sì ce ne sono stati nei confronti di La Barbera ma non nei confronti degli odierni imputati, per la carriera, ma La Barbera non ne aveva bisogno, era ancora giovane e a breve sarebbe diventato questore, che motivo aveva di impelagarsi con un balordo come Scarantino". "Un altro motivo - ha continuato - poteva essere il fatto che occorreva dare un colpevole da dare all'opinione pubblica: ma perché Scarantino? Cioè l'unico che faceva parte di una famiglia che non c'entrava. Ma perché lui? La risposta me la sono data: l'unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi".

Foto di copertina © Imagoeconomica

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