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I giudici: “Agenda Rossa sottratta da uomo delle istituzioni”

Cosa nostra ebbe delle "convergenze di interessi" con "ambienti esterni" nel decidere l'esecuzione della strage di via d'Amelio. Non agì da sola, ma in sinergia con "soggetti o gruppi di potere co-interessati all'eliminazione di Paolo Borsellino", i quali hanno avuto un ruolo nella fase "ideativa, quanto nella esecutiva" della strage.
Così scrivono i giudici del Tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del processo sul cosiddetto depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio depositate ieri.
I giudici del Tribunale nisseno hanno dunque spiegato i motivi per cui il 12 luglio del 2022 avevano dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei e avevano assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.
Ovviamente va ricordato che in punta di diritto gli imputati rispondevano di calunnia aggravata (art. 368 comma 3 e 416 bis.1 c.p.) in quanto la fattispecie di depistaggio è stata introdotta solo con la legge 11 luglio 2016, n. 133.
Certo è che a distanza di trent'anni da molti fatti non è semplice ricostruire ciò che in precedenti sentenze, come il Borsellino quater, è stato definito come il "depistaggio più grande della storia".
Sul punto i giudici hanno evidenziato che vi sono certamente ancora delle verità nascoste "o meglio non completamente" disvelate.
Ma una cosa appare evidente: la tesi secondo la quale Borsellino sarebbe stato ucciso in 'risposta' all'esito del maxi processo non sarebbe credibile, considerando anche i "tempi della strage, oggettivamente 'distonici' rispetto all'interesse di Cosa nostra".
Infatti Salvatore Riina ben sapeva che ci sarebbe stata una reazione delle istituzioni: basti pensare che il parlamento convertì in legge il 6 agosto 1992 il 'decreto antimafia Martelli-Scotti' (il regime del 'carcere duro' 41 - bis') rimasto nel limbo dall’8 giugno 1992.
Per i giudici, dunque, “anche senza volere ritenere scontato che si possa parlare di 'accelerazione' più o meno repentina, non è aleatorio sostenere che la tempistica della strage di via d'Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali e ciò nella logica di frenare l'attività di reazione delle istituzioni”.
Le anomalie principali di quella strage, avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci, ravvisata dal Collegio presieduto da Francesco D'Arrigo, sono la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza (indicato dai giudici come soggetto altamente credibile) di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.


foto borsellino scorta shobha

© Shobha


L’uomo che il pentito non aveva mai visto, non faceva parte di Cosa nostra. “La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra – si legge nelle motivazioni – si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”. Se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, svelando il depistaggio, non ci sarebbe stato alcun processo. I giudici scrivono che “tale circostanza deve fare riflettere sulle possibili disfunzioni, sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia. In altri termini, si è assistito al fallimento del sistema di controllo della prova al punto da determinare che, in ben due processi, sviluppatisi entrambi in tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà”.
A conti fatti il movente della strage rimane ancora uno dei tanti punti da chiarire ma, secondo i giudici sarebbe intimamente connesso con il depistaggio, ergo con la sparizione dell'agenda rossa.
Su quest'ultimo punto la visione dei giudici è netta: non è stata Cosa nostra a farla sparire.
"A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell'ordine - si legge - può ritenersi certo che la sparizione dell'agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra".
"Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l'appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l'agenda. Gli elementi in capo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all'asportazione dell'agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre".

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L'allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, con in mano la borsa del magistrato Paolo Borsellino


E dunque a sottrarre l’agenda fu sicuramente un uomo delle istituzioni. “In secondo luogo – continuano le motivazioni – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via d’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”.
“Quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile - si legge nelle motivazioni - Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico”. Il collegio riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni come il carabiniere Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa.
Ad avviso del collegio “solo (se e) quando si potrà stabilire a fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia dopo mesi, n.d.r) - soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa – si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.
Secondo i magistrati “sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto”.

La partecipazione del Sisde alle prime indagini sulla strage di via D’Amelio
Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno scritto che “qualsivoglia contributo alle indagini relative alla strage di via d’Amelio non poteva (e non doveva) né essere richiesto né essere autorizzato”.
E di questa “impropria partecipazione” del Sisde alle indagini ne erano al corrente in molti: il procuratore Tinebra (che pure la sollecitò), “ma anche Narracci (che su ordine del Prefetto Fausto Gianni, in gran segreto, accompagnò il funzionario Sergio Costa, genero del capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi, da Tinebra presso la Procura Generale di Palermo) e dal Bruno Contrada”. È legittimo ritenere - hanno scritto i giudici – “che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa così ‘extra-ordinem’ senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca”.


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A sinistra l'ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada © Archivio Letizia Battaglia


Tuttavia il Ministro dell’Interno di allora, Nicola Mancino, ha affermato di non avere ricordo della questione: un “non ricordo” poco convincente secondo la Corte.
Di contro l’elemento che certifica in maniera indiscutibile la partecipazione dei servizi segreti alle indagini è proprio l’agenda di Bruno Contrada: un documento che testimonia “il pieno coinvolgimento del Sisde”.
Passando dal tema generale della profonda anomalia istituzionale della collaborazione dei servizi alle prime indagini sulla strage di Via d’Amelio i giudici, così come era avvenuto nel Borsellino quater, hanno evidenziato l'esistenza di tre note che si ritengono cruciali per l’indagine Scarantino.
“La prima è un appunto trasmesso via fax alle ore 1.00 del mattino del 20.07.1992 contenente alcune valutazioni investigative trasmesse dal Sisde di Palermo a Roma”.
In merito a questa i giudici nisseni hanno argomentato che sussiste uno “sfasamento temporale”: Tinebra e Contrada si erano incontrati la sera del 20.07.1992, da ciò non è “comprensibile come la notte precedente, alle ore 01:00, Andrea Ruggeri (Capo Centro di Palermo n.d.r) possa trasmettere un fax al centro Sisde di Roma contenente proprio le valutazioni formulategli da Contrada dopo il colloquio con Tinebra”.
Ancora più inspiegabile è la seconda nota a livello temporale, datata 13.08.1992.
“Si tratta dell’appunto con cui il centro Sisde di Palermo comunicava alla Direzione di Roma del Sisde che ‘in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all'autobomba parcheggiata in via d’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abita la madre del Giudice Paolo Borsellino. (...) In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stara custodita prima di essere utilizzata nell’attentato’”.
Secondo i giudici questa nota rende “palpabile” come ci si preparasse ad una rapida “chiusura del caso”, poi puntualmente “avveratasi con l’arresto di Candura Salvatore e, a seguire, di Vincenzo Scarantino”, il 26.09.1992.
Infine, vi è la nota del 10.10.1992, con cui si ricostruisce la presunta caratura criminale e le parentele mafiose di Vincenzo Scarantino. Rapporti che, ha evidenziato il Collegio, erano “‘a dir poco remoti’ (‘una cugina paterna, anch’essa di nome Ignazia, è coniugata con Lauricella Maurizio. Il predetto è figlio di Madonia Rosaria, a sua volta figlia di Madonia Francesco, cugino omonimo del noto boss mafioso di Resuttana’).
Tale ultima nota, scrivono i giudici, servirà successivamente a “vestire il pupo”, cioè a presentare come stragista di Cosa nostra uno “scassapagliaro” che vendeva sigarette di contrabbando.


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L'ex capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica


Le forzature e gli abusi di Arnaldo La Barbera
Pesante il giudizio su Arnaldo La Barbera, l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo che guidava le indagini. Non vi è dubbio alcuno – si legge nelle motivazioni – che fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto – non solo oggi ma anche nel tempo – prima ancora che con la legge, con gli stessi dettami costituzionali". La Barbera, secondo i giudici, “pose consapevolmente in essere una lunga serie di forzature, abusi e condotte certamente dotate di rilevanza penale”. Poi però i magistrati specificano che “gli elementi probatori analizzati non consentono di ritenere che La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o di gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta”. Per i giudici La Barbera era “anche egli un anello intermedio della catena e sarebbe stato importante potere risalire quella catena per potere apprendere appieno scopi e obiettivi dell’attività di cui si discute”.
Oltre al ruolo dei servizi segreti i giudici hanno posto l’accento anche sull’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, il quale, scrivono i giudici, "mortificò la storia professionale" di Paolo Borsellino "imbrigliandone le iniziative investigative". "Si pensi alla circostanza che egli aveva impedito a Borsellino di sentire Buscetta dopo l'omicidio Lima, e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 luglio del 1992". "Inoltre la sua figura - scrivono i giudici - non può non legarsi alla certamente inadeguata protezione di Paolo Borsellino".


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Il falso collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino


La testimonianza di Vincenzo Scarantino: "Un intreccio indissolubile di verità e menzogne"
"L'indissolubile intreccio tra verità e menzogna che caratterizza la testimonianza dell'ex falso collaboratore Vincenzo Scarantino impedisce al Tribunale di ritenere l'attendibilità di Scarantino nelle sue propalazioni eteroaccusatorie, impedendo così di trarre considerazioni a carico in ordine alla responsabilità degli imputati". "È difficile - si legge - distinguere quando le lacune narrative siano frutto di iati mnemonici e quando siano espressione di un racconto volutamente caotico e nebuloso". "Egli per sua stessa ammissione, ha infarcito i suoi racconti, falsi, di conoscenze reali da lui effettivamente possedute. Questo modus procedendi ha irrimediabilmente compromesso la possibilità di discernere con sicurezza il falso dal vero all'interno del suo portato dichiarativo". "A ciò deve aggiungersi la costante tendenza a manipolare le risposte fornite all'interlocutore al fine di suggellare la tesi che egli stesso propone". "Nel corso di poco meno di un ventennio Scarantino ha fornito alle diverse autorità giudiziarie ricostruzioni divergenti, caratterizzate da un costante andirivieni di racconti, intrisi di circostanze radicalmente false e circostanze vere, dando vita a una altalena di versioni che hanno reso oltremodo difficile 'valorizzare' le parti, poche ma certamente significative, davvero genuine del suo racconto".
Secondo i giudici “il narrato dello Scarantino, in un senso o nell'altro, non può avere alcuna autonomia probatoria, potendo essere utilizzato solo ed esclusivamente quando le circostanze da lui riferite sono supportate da dati oggettivi e autosufficienti” anche se “la tendenza irresistibile a mentire di Scarantino prescinde anche dalla falsa collaborazione”.
Poi, entrando nello specifico delle imputazioni a uno dei tre poliziotti, Mario Bo, che, secondo Scarantino, lo avrebbe maltrattato, i giudici dicono: "Se è noto che Scarantino ebbe realmente a incontrare Arnaldo La Barbera in tre occasioni e il dottor Bo in una occasione, mentre era detenuto a Pianosa, non è dato conoscibile che il complesso di maltrattamenti patiti possa essere riferibile a condotte ascrivibili all'operato del funzionario e non invece a una suggestione dello Scarantino".
E poi ancora: l'ex falso pentito Vincenzo Scarantino, secondo i giudici, "è un mentitore di professione". È un "soggetto che mente dal 1994 e che, a distanza di quasi 30 anni, ha deliberatamente deciso di continuare a offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false" corroborate da una "costante nebulosità". "Anche nel procedimento ha prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto ad Arnaldo La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie di dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia che per scelta o per necessità gli vennero lasciati". Per i giudici "la tendenza al mendacio condiziona irreversibilmente la possibilità di valorizzare le sue dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati rispetto alle quali è improponibile pensare di poter estrarre, con la certezza che richiede l'odierna sede, elementi di verità".


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L'ex magistrato Giuseppe Ayala © Deb Photo


Sull'ex giudice Ayala: "Inspiegabili così tanti cambi di versione"
I giudici nisseni non hanno risparmiato critiche anche ad alcuni testimoni sentiti nel corso degli anni. Testimoni che "consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l'altro più volte rivedute e stravolte, rese dai protagonisti della vicenda che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsivoglia conclusione tratta sulla sola base della combinazione tra le varie testimonianze". In particolare, i giudici nisseni hanno scritto in merito all'ex giudice Giuseppe Ayala: “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda". Per i giudici "restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato". Secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, "si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale".

Le 'amnesie' dei soggetti istituzionali
Nel processo sul depistaggio sulla strage di Via d'Amelio si respirava "un clima di diffusa omertà istituzionale".
“Non può in alcun modo essere sottaciuta e merita, anzi, di essere ben sottolineata - scrivono nero su bianco i giudici - l’obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti”. E poi ancora: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni, soprattutto componenti del Gruppo Falcone e Borsellino della Polizia di Stato, e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico e insoddisfacente il riscontro incrociato”.
Secondo i giudici gli ex appartenenti al gruppo Falcone e Borsellino "hanno reso dichiarazioni insincere": Maurizio Zerilli, "con i suoi 121 non ricordo" in aula, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco, definito "reticente", e Giuseppe Di Gangi, che avrebbe reso dichiarazioni "insincere".


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Il cratere della strage di via D'Amelio © Shobha


"I protagonisti di livello apicale di quella stagione - si legge - ove non deceduti non hanno fornito alcun elemento utile alla ricostruzione dei fatti e si sono potuti trincerare, talvolta con malcelata stizza, dietro l'età avanzata e il tempo lungamente decorso". In particolare i giudici criticano la deposizione dell'ex Prefetto Luigi Rossi, ex vicecapo della Polizia. "Ha riferito circostanze non pienamente corrispondenti alla realtà in ordine a pregresse competenze specifiche del dottor La Barbera, ha riferito di non avere saputo della collaborazione del Sisde, di non avere ricordi in ordine alla formazione dei gruppi di lavoro che si occupavano delle stragi". "Risposte preconfezionate", secondo i giudici, "in concreto poco credibili".
Il Collegio mette in evidenza anche le contraddizioni delle sentenze dei primi processi.
Quindi non mancano pesanti giudizi sull'operato dei magistrati che si occuparono degli stessi, senza effettuare quei necessari distinguo delle posizioni assunte (ma di questo ci occuperemo in altro articolo, ndr).

"Collaboratore Mario Santo Di Matteo sa fatti su uomini delle istituzioni coinvolti nelle stragi"
I giudici hanno scritto anche di avere un’idea precisa sul patrimonio di conoscenza di Mario Santo Di Matteo, il padre del piccolo Giuseppe Di Matteo. “Si ritiene che Di Matteo Mario Santo sia a conoscenza di altri particolari riguardanti le stragi, che questi particolari riguardano soggetti istituzionali, e che egli non abbia inteso e tuttora non intenda riferire per un timore evidentemente ancora attuale per la vita propria e dei suoi familiari”, si legge nella motivazione. “È evidente come Mario Santo Di Matteo e Francesca Castellese non riferiscano sul tema i fatti di cui sono a conoscenza e la circostanza che non lo facciano da venticinque anni, lungi dall’essere conferma di ciò che essi sostengono, prova solo la loro pervicacia nell’omissione di riferire", si legge ancora. “E tale dato non solo è innegabile ma è potenziato dal fatto che si è di fronte ad una costante negazione assoluta senza spiegazioni, tanto è vero che, a fronte delle contestazioni del pm, Mario Santo Di Matteo non risponde – sviando il discorso sugli altri argomenti di taglio emozionale legati alla deprivazione genitoriale derivante dalla scomparsa del figlio – limitandosi a negare e senza fornire alcuna ricostruzione alternativa del significato dell’intercettazione”.

Foto di copertina © Shobha

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