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Quanto accaduto ieri a Pisa e Firenze, purtroppo, è la preoccupante cartina di tornasole delle autentiche pulsioni che muovono le condotte di parecchie donne e parecchi uomini di questo governo.
Manganellare a sangue ragazze e ragazzi fra i quindici e i vent’anni, che manifestano pacificamente per la Palestina - ma è proprio questo l’errore che, secondo alcuni, non dovrebbero più commettere (e magari quando diventeranno grandi non lo commetteranno più) -, senza passamontagna, senza brandire spranghe di ferro, senza volontà di scontro fisico con chicchessia, rientra fra quelle mascalzonate che qualsiasi governo, persino democratico, una tantum nella sua vita, può anche commettere.
Ma quanto accaduto ieri a Pisa e Firenze non rappresenta affatto - e qui dobbiamo ripetere: purtroppo -, un'una tantum.
Questo governo, il governo di Giorgia Meloni, continua a non pagare dazio per la semplicissima ragione che i media ancora si rifiutano di dire e scrivere apertamente quando due più due fa quattro.
Come in questo caso.
Secondo noi non è senza ragione che Matteo Piantedosi si laureò ministro degli Interni con quel buffo decreto che inaspriva le pene per i "rave party" clandestini, che fu uno dei primi provvedimenti di questa destra che aveva vinto le elezioni con il voto di quasi un italiano su quattro.
In quel momento, l’opposizione era ancora talmente tramortita dal proprio risultato elettorale, che neanche se ne accorse. O, se se ne accorse, non diede il giusto peso alle parole.


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Quelle del decreto legge (approvato il 31 ottobre 2022, ndr), a firma dei ministri Nordio e Piantedosi, che introduceva il reato di invasione di terreni o edifici allo scopo di organizzare raduni, di oltre 50 persone, pericolosi per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Concetti - ce lo si lasci dire - che meglio si sarebbero adattati a una misura legislativa volta a evitare il pascolo abusivo da parte di greggi di pecore in libera uscita.
Eppure, una bella sirena d’allarme, quando Fratelli d’Italia era ancora all’opposizione, era suonata appena un anno prima, con l’assalto delle truppe neofasciste alla sede della Cgil. Sono fatti vecchi.
E' bene però ricordare che il 23 maggio dell'anno scorso (quindi in tempi più freschi), a Palermo, in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci, la polizia caricò a passo di carica i manifestanti antimafia che si erano ritrovati in via Notarbartolo con l’idea - altrettanto malsana, quanto quella di ieri a favore del popolo palestinese - di raggiungere la casa e l’albero Falcone.
Fatto di gravità inaudita.
Passato quasi sotto silenzio dai media perché ciò che accade a Palermo fa parte dell’Italia sino a un certo punto; perché l’antimafia è argomento che scotta per definizione; perché non bisognava disturbare la retorica dei manovratori della retorica di Stato che, come da tempo è risaputo, danno il meglio di sé proprio in occasione dell’anniversario del 23 maggio.
Fermiamoci qui.
Quanto accaduto a Pisa e Firenze ha poi uno dei suoi antefatti nelle analoghe manganellate a sangue, distribuite a Napoli, a destra e a manca, e in quelle distribuite in tutte le città italiane dove si è manifestato, spesso anche di fronte alle sedi Rai.
Caso ha voluto che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, abbia espresso la sua solidarietà proprio ieri alla Meloni, perché neanche al peggior nemico si deve augurare la fine a testa in giù, come fatta fare - e dissennatamente-  da alcuni manifestanti ai manichini che della Meloni riproducevano l’effige.
La Meloni allora - a nostro modesto avviso - dovrebbe ringraziare sentitamente il capo dello Stato per l’ennesima dimostrazione di civiltà di cui è stato protagonista.


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Ma c'è un ma.
La Meloni non deve esagerare.
Deve capire che non può difendere contro ogni evidenza quelli che fanno parte del suo entourage o della sua famiglia o della sua cerchia amicale quando sbagliano o perseverano arrogantemente nell’errore. Qui si potrebbe aprire, ma non lo faremo, un altro cahier de doléance, riguardante quadri che scompaiono, pistole che sparano da sole per festeggiare la fine dell'anno, documenti segreti spifferati ai quattro venti.
In conclusione. Di Pisa e Firenze, abbiamo detto.
Ora ascoltiamo Leonardo Sciascia che scriveva, all’inizio degli anni 50, della “fine del carabiniere a cavallo”. E con queste parole: “Intorno al 1920 la nostra letteratura giovane faceva richiamo all’ordine; e i fascisti agitavano il manganello per instaurare l’ordine... e i carabinieri a cavallo già galoppavano nelle mussoliniane sfilate”.
Ma, a seconda guerra mondiale ormai finita, Sciascia si lascia andare a una considerazione per lui liberatoria: “E’ finita dunque con il carabiniere a cavallo, con le storiche malinconie e nostalgie, con gli apologhi della conservazione…”.
Cosa aggiungere, se non dirsi d’accordo?
I Questori sono funzionari dello Stato di tutto rispetto e grandissima funzione sociale. Come, altrettanto lapalissianamente, va detto delle migliaia di rappresentanti delle forze dell'ordine che in Italia fanno, ogni santo giorno, il loro dovere. E spesso anche a costo della vita.
Altra cosa, però, se qualcuno si mettesse in testa, nostalgicamente, di fare diventare i Questori questurini. Non è un caso che, nei dizionari della lingua italiana, il Questore si pregia della "Q" maiuscola. Il questurino no.
Anche per i questurini, varrebbe infatti il discorso fatto da Sciascia per i “carabinieri a cavallo”.

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La rubrica di Saverio Lodato


Foto © Paolo Bassani

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