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C'è un problema grande quanto una casa, per tutti coloro che davvero, in buona fede e senza scorciatoie frettolose, vogliono pervenire alla Vera-Verità sulla strage di via D’Amelio. Questo problema si chiama: agenda rossa.
I familiari di Paolo Borsellino, all’unisono, indipendentemente persino dalle lacerazioni parentali che sarebbero subentrate dopo, hanno sempre sostenuto che quella agenda esisteva.
Che Paolo Borsellino non se ne separava mai, come non ci si separa mai dal proprio portafoglio o dalle chiavi di casa; che tanti di loro in svariate occasioni ebbero modo di vederla; che proprio nei 57 giorni che divisero temporalmente Capaci da via D’Amelio diventò quello il contenitore segreto di spunti investigativi, passi avanti, scoperte sconcertanti che avevano fatto dire in quei giorni, allo stesso Borsellino, che dopo l’estate del 1992 le sorprese non sarebbero mancate.
Il punto è che lui non sopravvisse a quella estate. E neanche l’agenda rossa, verrebbe da dire, sopravvisse a quella estate.
Ma perché, proprio la scomparsa dell’agenda, è un problema grande quanto una casa?
Per un’infinità di ragioni.
La prima, quasi ovvia, che sin  quando non conosceremo intuizioni e pensieri, sospetti e deduzioni, interrogativi e certezze inedite (le sorprese), per quanto embrionali, di Paolo Borsellino, non faremo altro che tirare a indovinare.
Faremmo i conti senza la viva voce della vittima principale della strage.
Diciamola provocatoriamente: ognuno di noi, sia esso familiare, sia esso avvocato, sia esso alto ufficiale dei carabinieri, sia esso alto funzionario di polizia, sia esso giornalista tifoso di questa o quella ricostruzione, sia esso commissario della “antimafia”, potrà farsi a suo piacimento un’agenda rossa in 3D, contenente tutti suoi desiderata, ma questa, con quella vera (che non si trova), non avrà mai niente a che vedere.


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Poi c’è un'altra ragione.
Quanto accade nell’immediatezza dell’esplosione in via D’Amelio, con uomini in divisa o in borghese, ma con stelle da sceriffo, che parteciparono alla mascherata della valigia di cuoio di Borsellino, che quell’agenda rossa in tutta evidenza conteneva, fanno vedere prima e capire poi, e più di cento discorsi, che fu zelante cura di Uomini dello Stato (Stato?) farla scomparire.
Diciamolo provocatoriamente: nella location di via D’Amelio non fecero la loro comparsa don Ciccio o don Peppe, che indossavano giacca di fustagno e coppola storta. Nelle immagini non si vedono “mafiosi”, si vedono, lo ribadiamo divise e stella di sceriffo.
E quindi?
E quindi non se ne esce.
Riteniamo, ma potremmo senz’altro sbagliare, che persino i familiari di Borsellino, quelli cioè che più propendono per una causale economico-imprenditoriale della strage, la cosiddetta miccia degli appalti a far da detonatore in via D’Amelio, stiano rivedendo alcune granitiche certezze.
Se lo Stato non avesse nulla a che vedere con la strage, se solo di mafia mafiosa si trattò, se tutto questo Borsellino l’aveva messo nero su bianco su un’agenda rossa, perché squadroni di Stato si sarebbero tanto affannati con lo scopo di farla scomparire?
Pensate un segreto, un mistero, che dura da trent’anni. Eppure per quante mani passò quel giorno l’agenda. E quanti interrogatori e inchieste e processi per non venire a capo di nulla.
E’ plausibile?
In questi giorni la Procura di Caltanissetta ha disposto perquisizioni nelle abitazioni di alcuni familiari del defunto Arnaldo La Barbera;  questore di Palermo; capo della task force che indagò sulle stragi; “Rutilius” il suo nome in codice di agente Sisde (ma lo si sarebbe scoperto dopo); ispiratore della finta collaborazione di Vincenzo Scarantino.
Dalle perquisizioni, l’agenda rossa non è saltata fuori. E la Procura di Caltanissetta, evidentemente convinta che in famiglia debbano invece saperne qualcosa, ha denunciato figlia e moglie di La Barbera per ricettazione e favoreggiamento alla mafia.


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In altre parole.
Comincia a diffondersi, ai più alti livelli, la convinzione che si devono fare le umane e le divine cose per trovare una volta per tutte quella “prova” che porrebbe definitivamente la parola fine a un profluvio di chiacchiere.
Ma sorgono spontanee altre domande. 
Dalle immagini che ormai tutti conoscono, l’uomo che tiene in mano la valigia con dentro l’agenda - fino a prova contraria - è un carabiniere. 
Ora si dice che un nuovo poliziotto, che per trent’anni non riferì mai la circostanza, se la fece consegnare, proprio dal carabiniere,  in forza della sua titolarità delle indagini.  Sarebbe un caso davvero raro di collaborazione fra due corpi diversi di polizia che spesso, su vicende di mafia molto minori, a Palermo tutto hanno fatto tranne che collaborare. Si vedrà se il miracolo accadde sullo scenario rovente della strage.
Ma torniamo a La Barbera.
Che nella vicenda ebbe ruolo di primissimo piano lo hanno raccontato, anche in questo caso, i parenti di Paolo Borsellino.
Quindi non dovremmo andare lontano dal vero ipotizzando che lui sull’agenda rossa le mani ce le mise.
Conservò in casa sino alla sua morte, dieci anni dopo, una simile bomba a orologeria? E perché ci teneva tanto? Al punto da inveire contro Lucia, la figlia di Paolo che gliene chiedeva conto e spiegazioni, definendola una “fuori di senno” e “bisognosa di cure”? E La Barbera come si tutelò, a futura memoria? Senza neanche lo straccio di qualche fotocopia? Ammesso e non concesso che l’agenda rossa transitò da quell’ indirizzo, e che con ogni probabilità da quell’indirizzo non salterà fuori, sarebbe davvero ancora troppo poco per fare emergere quella Vera-Verità che tutti diciamo di volere.
A chi rispondeva La Barbera? Per conto di chi fece il lavoro sporco?


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Tranne che non si voglia affermare, ma scadremmo nel grottesco, di sostenere che il questore, al servizio dei servizi, e ormai morto, fu l’autentico e unico mandante della strage di via D’Amelio.
L’ultima nostra notazione riguarda la commissione parlamentare antimafia. Recentemente, l’avvocato Fabio Repici, difensore di Salvatore Borsellino, è stato interrogato due volte.
Ed è andato in direzione assai diversa rispetto alla vulgata che va per ora di un Paolo Borsellino ucciso per le sue scoperte su mafia e appalti. Lo ha fatto facendo notare che i più grandi imprenditori, quelli che si sarebbero dovuti sentire minacciati dalle inchieste sulla loro compromissione con la mafia in terra di Sicilia e i loro referenti politici, erano già morti da tempo o ormai fuori scena dalle stanze del Potere.
In altra seduta, l’avvocato Repici ha riversato ai commissari date, rapporti, insomma atti ufficiali, dai quali emerge l’interesse che Borsellino manifestò nei suoi ultimi giorni di vita per gli strani movimenti “fascisti” a Palermo.
Alias quella “Pista Nera” che aveva già acceso l’interesse di Giovanni Falcone. Tanto è vero che tornò tre volte sull’argomento, nelle poche pagine del suo diario che ci sono state tramandate.
Quando l’avvocato Repici parla ci dà l'impressione di uno che non affastella in modo sconclusionato. E soprattutto che non sia spinto da finalità autoassolutorie, come tanti protagonisti di queste vicenda.
Né da finalità politico-protettive, come tanti altri protagonisti di questa vicende.
L'avvocato Repici non ha paura di dire l’indicibile.
Che poi, a pensarci bene, è la maniera migliore per affrontare un arcano a mani nude.

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La rubrica di Saverio Lodato


Foto © Paolo Bassani

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