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Il silenzio sui politici condannati per mafia

Il senatore Maurizio Gasparri ci ricasca. E' più forte di lui.
Un anno fa aveva presentato un'interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere di mandare un’ispezione alla procura di Firenze nei confronti del magistrato Luca Tescaroli, titolare insieme al collega Luca Turco dell’inchiesta sulle stragi del 1993 che vedeva indagato Silvio Berlusconi (poi deceduto) assieme all'ex senatore Marcello Dell'Utri.
La notizia di ieri è che una nuova interrogazione al Guardasigilli è stata presentata per sapere “quali iniziative intenda assumere per verificare l’eventuale sussistenza di responsabilità disciplinari e a tutela della magistratura, della Corte di cassazione e dei suoi componenti” contro il magistrato Antonino Di Matteo.
Pietra dello scandalo, secondo Gasparri, sarebbe l'ultimo libro del sostituto procuratore nazionale antimafia, scritto assieme a Saverio Lodato, "Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare" (edito da Fuoriscena).
Secondo Gasparri il pm Di Matteo, rispondendo alle domande del giornalista, sarebbe autore di “gravi affermazioni e pericolose insinuazioni lesive del prestigio della suprema Corte di Cassazione”. E per questo andrebbe punito.
Ma la verità è che il magistrato, come ogni cittadino, ha la libertà di manifestare il proprio pensiero, così come sancito dall'articolo 21 della Costituzione.
Ed anche le sentenze, che vanno sempre rispettate, possono essere oggetto di discussione e critica. E' non è altro che una disamina di fatti quel che emerge dalla lettura del libro di Di Matteo e Lodato.
In questo tempo di revisionismo e restaurazione è evidente il bavaglio che si vuole mettere a chi ha il merito di non dimenticare e che continua a cercare la verità sulle stragi di Stato che hanno insanguinato il nostro Paese.


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Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica


C'è una verità scomoda che è emersa tra le pieghe di più processi e che si vuole opinatamente dimenticare.
Di chi parliamo?
E' presto detto. Forza Italia, il partito di cui Gasparri è capogruppo al Senato, è un partito a tutti gli effetti fondato da un uomo della mafia (Marcello Dell'Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa) e da uno che la mafia la pagava (Silvio Berlusconi).
E' un fatto provato nella sentenza definitiva che per diciotto anni, dal 1974 al 1992, Dell'Utri è stato il garante “decisivo” dell'accordo tra Berlusconi e Cosa nostra con un ruolo di “rilievo per entrambe le parti: l’associazione mafiosa, che traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica”.
In quelle carte si dimostra l'esistenza di un patto stretto con i boss per assumere ad Arcore, come stalliere, il mafioso Vittorio Mangano.
Quel Mangano, che sempre Berlusconi e Dell’Utri hanno definito più volte come “un eroe” dopo la morte.
Quello stesso Mangano che, così come commentavano i due politici in un’intercettazione del 29 novembre 1986, metteva “bombe affettuose”.
Sempre la sentenza Dell'Utri ritiene provato l'incontro tra i due co-fondatori di Forza Italia, con boss di primissimo piano (Stefano Bontate, Gaetano Cinà e Mimmo Teresi) così come riferito dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo.
Che Dell'Utri abbia avuto un ruolo di massimo rilievo nella creazione del partito-azienda che ha conquistato e dominato il Paese per un ventennio, lo disse lo stesso Berlusconi al congresso che anticipava le europee, il 7 maggio 1999: "Questo signore è un grande colpevole, ha una grande colpa, una grande responsabilità: senza di lui Forza Italia non esisterebbe".
Un altro esponente di Forza Italia, condannato definitivo a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è Antonino D'Alì, ex senatore ed ex sottosegretario all'Interno dal 2001 al 2006. Per i giudici è considerato vicino alla mafia trapanese e a Matteo Messina Denaro.


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Amedeo Matacena © Imagoeconomica


Altro politico colpito dal reato di contiguità con la criminalità organizzata è Nicola Cosentino. Ex deputato dal 1996 al 2013 per Forza Italia e PDL e nel quarto governo Berlusconi per poi divenire anche sottosegretario all’Economia e Finanze. In primo grado venne condannato a 9 anni per concorso esterno, divenuti poi 10 in Appello e infine confermati in Cassazione. Le sentenze lo ritengono il referente del clan dei Casalesi.
E che dire poi di Amedeo Matacena, ex deputato di Forza Italia dal 1994 al 2002, condannato in via definitiva nel 2014 a tre anni di reclusione per essere stato contiguo alle ‘ndrine reggine, deceduto a Dubai da latitante nel 2022. Era accusato di avere richiesto l’appoggio elettorale della ‘Ndrangheta alla famiglia dei Rosmini.
In tutti questi anni nessun parlamentare di Forza Italia ha mai preso pubblicamente le distanze da tutti questi soggetti. Anzi.
Ancora oggi essi vengono ritenuti dei martiri. Senza alcun rispetto delle sentenze.
Che Forza Italia sia il nuovo partito scelto dalla mafia immediatamente dopo le stragi è stato raccontato da decine e decine di collaboratori di giustizia.
E vi sono più sentenze che danno atto della scelta che le mafie attuarono proprio nei primi anni Novanta, abbandonando il progetto politico delle Leghe Meridionali, per far confluire i voti sulla nascente Forza Italia.
Persino i boss non hanno fatto mistero di quella che fu la loro “scelta”.
Un esempio vale per tutti.
Il 24 febbraio del 1994, mentre era in corso la campagna elettorale, al tribunale di Palmi, durante un processo, Giuseppe Piromalli - capostipite della cosca di Gioia Tauro, padre dell’omonimo boss (soprannominato "Facciazza") che verrà arrestato anni dopo accusato anche di estorsione ai danni dei gestori dei ripetitori Fininvest - prese la parola gridando dalla cella: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.
Un'indicazione di voto a cui Berlusconi replicò al tempo senza prendere le distanze: “Non credo che nessuno possa sapere con certezza per chi voterà la mafia, non so nemmeno se sia ipotizzabile un voto compatto della mafia. È un fenomeno che confesso di non conoscere in modo approfondito”.
Anni dopo, grazie ad altre intercettazioni, si è appreso anche altro.


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Nicola Cosentino © Imagoeconomica


In anni più recenti i carabinieri del Ros, grazie ad un virus informatico inoculato in uno dispositivo elettronico (guarda caso oggi il governo vuole ridurre l'uso di questo tipo di intercettazioni), registrarono la viva voce di Giancarlo Pittelli, condannato in primo grado a Catanzaro nel processo Rinascita Scott con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e abuso d'ufficio. “Ragazzi - diceva ai suoi interlocutori il 21 luglio 2018 - ragazzi, Dell’Utri… Io lo so… Perché Dell’Utri, la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia, fu Piromalli a Gioia Tauro. Non so se ci… Se ragioniamo. Tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli. L’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… L’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni…”.
Singolare che quelle parole su Dell'Utri venivano precedute da una battuta, quanto mai eloquente, sulle motivazioni della sentenza di primo grado sulla Trattativa Stato-mafia: “Senti, sto leggendo questa storia che hanno riportato sul 'Fatto Quotidiano' della trattativa stato Mafia… Berlusconi è fottuto. Berlusconi è fottuto…”.
Al tempo in primo grado Dell'Utri era stato condannato così come gli ufficiali del Ros, Mori, De Donno e Subranni. Nei successivi gradi di giudizio la sentenza è stata ribaltata con l'arrivo delle assoluzioni, ma come abbiamo scritto più volte ciò non significa che la trattativa tra Stato e mafia non ci sia stata.
Ovviamente i Gasparri di turno sul punto tacciono.
Ma come si fa a restare in silenzio di fronte a questi fatti ed alla presenza di così tanti esponenti autorevoli che sono stati condannati in via definitiva per fatti di mafia?
Gasparri, che tanto si riempie la bocca dell'esempio del giudice Paolo Borsellino, dimentica proprio una delle lezioni più grandi che il magistrato diede in materia di legalità e rapporti tra mafia e politica.
In un incontro con gli studenti dell'Istituto professionale “Remondini” di Bassano del Grappa, nel 1989, Borsellino andava anche oltre attribuendo ai partiti politici il compito di dover “fare grossa pulizia al proprio interno”, a prescindere dalla sentenza di condanna o assoluzione, “di tutti coloro che sono raggiunti, ovunque, da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato”.
Quanti parlamentari dovrebbero tenere a mente le sue parole.
Invece assistiamo ad una sfilza di deputati e senatori che con le loro meschinità disonorano gli scranni in cui siedono.
Quegli stessi che propongono leggi vergognose, che delegittimano i magistrati che cercano la verità sulle stragi, che giustificano patti e trattative.
Noi, ed una grande fetta di popolo, non ci stiamo e ci schieriamo a difesa della Costituzione e della democrazia.

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