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Indice articoli

di Giorgio Bongiovanni - 4 febbraio 2009
Intervista al sostituto procuratore di Palermo Roberto Scarpinato



Palermo
. Roberto Scarpinato è uno dei magistrati storici della Procura di Palermo. Vi lavora da Procuratore, sostituto e aggiunto, dai tempi di Falcone e Borsellino. E’ stato testimone diretto degli eventi più tragici e importanti che hanno sconvolto la sua città e cambiato l’assetto politico, sociale ed economico del nostro Paese. Impegnato in inchieste e processi di primo piano, il più celebre è quello al senatore a vita Giulio Andreotti, oggi Scarpinato coordina il pool che si occupa di misure di prevenzione e sequestri di beni. Il destino ha quindi voluto che la sua carriera esplorasse tutti gli aspetti della fenomenologia criminale che incarnano e ruotano attorno alla mafia siciliana: la forza militare, l’interconnessione con i poteri, politico e non, e il legame a doppio filo con l’imprenditoria che hanno consentito alla cosiddetta borghesia mafiosa di rafforzarsi nel tempo e di ascendere al potere nazionale. Ecco quindi che ci ritroviamo al feudalesimo con il Principe che impone ed esige i suoi privilegi con qualunque mezzo a disposizione, sicuro di poter godere dell’impunità che la sua carica gli garantisce per diritto. Ecco quindi spiegato da un punto di vista storico e sociologico lo stato di sfacelo in cui versa l’Italia nostrana, mai diventata moderna, paralizzata da una classe dirigente che non si è mai evoluta, un Paese in cui non riesce a maturare una vera e piena democrazia.
Nel “Il Ritorno del Principe” il procuratore Scarpinato risponde alle puntuali domande del giornalista Saverio Lodato e ripercorre così “le gesta” della criminalità del potenti fino ai giorni nostri fornendo così fondamentali e inestimabili chiavi di lettura.
Uno strumento di eccezionale valore per tutti coloro che vogliono capire dove ci troviamo, e cosa sta accadendo attorno a noi e magari per intuire e cominciare ad imboccare una possibile via d’uscita. Abbiamo posto all’autore alcune domande.

Dottor Scarpinato “Il ritorno del Principe”, è una straordinaria quanto allarmante lettura del nostro tempo. Secondo quanto da lei sostenuto il nostro Paese non solo non pare in grado di compiere il salto evolutivo necessario per divenire una democrazia compiuta, ma sembra essere destinato a ripiegarsi su se stesso a vivere sempre le medesime dinamiche che lo imprigionano in una sorta di irredimibile girone dantesco. La sua analisi parte proprio dalla figura del Principe. Chi è questo Principe e cosa significa il suo ritorno?

Se si pone a confronto la storia italiana con quella di altri paesi europei di democrazia avanzata si registra una significativa anomalia.
In quei paesi la questione criminale è un capitolo marginale delle vicende nazionali che interessa solo  gli specialisti di settore – criminologi, magistrati, poliziotti – perché, tranne poche eccezioni, riguarda solo le gesta della criminalità  comune e della parte meno acculturata ed integrata della società civile.
In Italia invece la questione criminale  è inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, quella  con la S maiuscola, perché protagonisti delle vicende criminali sono stati e sono ampi settori delle classi dirigenti, il Principe appunto.
La nostra storia è segnata infatti da una criminalità dei potenti plurisecolare che si è manifestata essenzialmente su tre versanti: lo stragismo e l’omicidio per fini politici, la corruzione sistemica e la mafia.
Lo stragismo e l’omicidio politico sono rimasti una costante sin dal millecinquecento quando già facevano parte della “normalità” italiana, come dimostra l’ammirazione tributata da Nicolò Macchiavelli ad un notorio assassino e stragista quale era Cesare Borgia, duca di Valentino.
Nessuna storia nazionale europea è segnata da una catena così lunga ed ininterrotta di stragi come quella italiana.
Tralasciando le stragi del periodo monarchico e del Fascismo, basti pensare alla sequenza di stragi dal secondo dopoguerra italiano sino ai nostri giorni. Dalla strage di Portella delle Ginestre del 1 maggio 1947, a quella di Piazza Fontana a Milano, alla strage di Bologna, a quella di Piazza della Loggia a Brescia, all’Italicus e via elencando sino alle stragi politico mafiose del 1992 e del 1993.




Attraverso quali strumenti la criminalità dei potenti ha stabilito ed esteso il suo dominio fino ad oggi? E con quali conseguenze per lo Stato, nelle sue componenti politiche, economiche ed istituzionali?
Il sigillo del potere, la regia di mandanti occulti eccellenti dietro molte di quelle stragi e di tanti omicidi politici si manifesta in vari modi.
Ad esempio mediante il depistaggio delle indagini della magistratura da parte di soggetti appartenenti ad apparati statali, come è stato accertato per la strage di Portella delle Ginestre e per quella di Bologna.
O ancora mediante l’assassinio degli esecutori materiali delle stragi, depositari di segreti scottanti che minacciavano di rivelare i nomi dei mandanti eccellenti. Tutti gli esecutori materiali della strage di Portella delle Ginestre furono assassinati. L’ultimo, Gaspare Pisciotta, fu ucciso all’interno del carcere dell’Ucciardone con un caffè corretto alla stricnina.
All’interno del carcere fu assassinato anche Buozzi, condannato in primo grado all’ergastolo quale uno degli esecutori materiali della strage di Piazza della Loggia a Brescia.
Un’altra forma in cui si è manifestata la criminalità delle classi dirigenti è stata la mafia.
La mafia non è una creatura di personaggi come Provenzano e Riina, ma una creatura delle classi dirigenti nazionali.
Nel romanzo I promessi sposi, Manzoni  descrive l’ordinarietà del metodo mafioso come metodo di gestione del potere  nell’Italia del 1600.
L’essenza del metodo mafioso consiste nella prepotenza organizzata: cioè nell’abuso di potere personale di minoranze che avvalendosi dell’intimidazione derivante dal potere di cui sono dotate – potere sociale, economico, militare, creano uno stato di assoggettamento  dei singoli piegandoli alla loro volontà.
Se andiamo a leggere la descrizione della fattispecie legale di associazione mafiosa possiamo constatare che non vi è alcun riferimento all’uso delle armi e alla violenza fisica, perché vi sono mille modi di esercitare prepotenza organizzata piegando gli altri: non vi è alcun bisogno di puntare la pistola alla tempia: ti posso ridurre sul lastrico, ti posso impedire di lavorare, ti posso togliere dignità sociale e renderti la vita impossibile.
Nel romanzo I Promessi sposi, don Abbondio si piega ai voleri di Don Rodrigo non solo perché ha timore dei suoi bravi – quelli che oggi chiameremmo i mafiosi dell’ala militare, gli specialisti della violenza - ma anche perché si trova in una condizione di assoggettamento e di omertà che deriva dalla consapevolezza che  Don Rodrigo fa parte di un mondo di potenti al di sopra delle leggi.
Nella  stessa condizione si trova l’avvocato Azzecca – garbugli a cui Renzo Tramaglino si era rivolto nella speranza di trovare un rimedio legale contro la prepotenza, il quale rifiuta l’incarico quando apprende che avrebbe dovuto agire secondo legge contro un potente come  Don Rodrigo al di sopra della legge.
In un’ Italia, quella del Seicento, dove non esistono anticorpi sociali e legali il contro un sistema di potere mafioso, Manzoni è costretto a far intervenire la Provvidenza perché la storia abbia un lieto fine: l’Innominato libera Lucia perché,  colto da una improvvisa crisi esistenziale, si converte. Don Rodrigo viene fermato dalla morte che lo ghermisce con il contagio della peste.
In conclusione la storia esemplifica come la sommatoria di potere militare (i bravi) e di potere sociale (il vincolo associativo derivante dalla solidarietà interna al mondo dei potenti) si traduca in un abuso di potere personale che sostanzia il metodo mafioso.
Questo metodo di esercitare il potere era riconosciuto come legittimo dall’ordinamento giuridico feudale fondato sulla natura personale del potere di papi, imperatori e via discendendo, all’interno di una società castale.
Ed è un metodo con i quale milioni di italiani hanno dovuto convivere  per secoli da vittime o da carnefici. Perché dopo i Don Rodrigo del 1600 sono venuti i suoi eredi: baroni siciliani, l’aristocrazia papalina, quella borbonica e poi  la borghesia mafiosa.
In Italia il feudalesimo è durato sino alle soglie del ventesimo secolo: in Sicilia, per esempio, fu abolito ufficialmente solo nel 1812, idem per il resto del meridione e per gli enormi possedimenti dello stato pontificio in tutta Italia. In Piemonte la servitù della gleba si è protratta sino al 1789.
Quel metodo non è scomparso con la fine del tardofeudalesimo italiano e la nascita tardiva del primo nucleo di  stato liberale  di diritto dopo l’unificazione.
Tuttavia mentre prima il metodo mafioso poteva essere esercitato alla luce del sole perché  riconosciuto legale dall’ordinamento feudale fondato sul potere personale e sul dovere di obbedienza, poi  con l’avvento dello stato liberale, si è trasformato in metodo esercitato illegalmente  e quindi segretamente.
Il primo ad accorgersene fu Leopoldo Franchetti un notabile toscano, uomo della destra liberale che nel 1866 pubblicò un’ inchiesta sulla mafia che a distanza di più di un secolo conserva una sconcertante attualità.
Franchetti scopre che la mafia non era - come lui e tanti in buona fede credevano -  un problema di ordinaria criminalità gestibile con gli usuali strumenti di polizia e di ordine pubblico.
Capisce che la mafia è un mix micidiale di cervello borghese e lupara proletaria.
Si rende infatti conto che i principali capi della mafia sono “facinorosi della classe media”, cioè esponenti della classe dirigente che usano la violenza mafiosa come metodo di gestione del potere e come strumento di lotta politica per reprimere le rivendicazioni dei ceti popolari per un miglioramento delle loro condizioni economiche.
La somministrazione concreta della violenza viene delegata ai mafiosi con la coppola storta – eredi dei bravi di Don Rodrigo e progenitori dei vari Riina e Provenzano - i quali in cambio dei loro servigi ottengono libertà di predazione sul territorio tramite le estorsioni e protezioni.
Da qui secondo Franchetti l’irredimibilità del problema mafia.
Ed infatti poiché la mafia è un’espressione criminale delle classi dirigenti locali solo il governo nazionale potrebbe debellare la mafia.
Ma poiché i governi nazionali – osserva Franchetti - per reggersi hanno bisogno dell’apporto determinante  delle classi dirigenti meridionali, non possono intervenire.
In altri termini i Borgia e i Don Rodrigo continuano a cavalcare la storia anche dopo la nascita del nuovo stato liberale, e la mafia resta un affare di famiglia interno alla classe dirigente nazionale irresolubile perché ha una dimensione macropolitica che attiene agli equilibri politici nazionali.
La diagnosi di Franchetti conserva una straordinaria attualità che attraversa i secoli.
Così come nell’Ottocento, tranne la  parentesi corleonese durata dagli inzi degli anni Ottanta agli inizi degli anni Novanta, i più importanti capi mafia sono sempre  stati  borghesi: il capo della mafia di Corleone prima di Riina e Provenzano era il dott. Michele Navarra, medico chirurgo. Il capo della mafia di Palermo negli anni Ottanta era Michele Greco, un distinto proprietario terriero, ospite dei migliori salotti palermitani.
Alcuni dei più importanti capi della mafia oggi sono medici, avvocati, imprenditori, professionisti.
Quando si fa l’elenco dei poteri forti in Italia,  si dimentica sempre di indicare la borghesia mafiosa siciliana e la massomafia calabrese.




Nel libro lei introduce il concetto di “codice culturale della corruzione”, cosa intende dire? E per quali processi individuali e collettivi si è giunti ad una sostanziale accettazione e condivisione del “sistema corruzione”?
Dall’unità d’Italia nessuno ha potuto governare senza tenere conto della forza politica di questo pezzo di classe dirigente e del blocco sociale che esprime.
Non è un caso che da quando nel 1996 la sinistra ha iniziato ad assumere responsabilità di governo, ha completamente cancellato dalla sua agenda il tema dei rapporti mafia-politica.
Oltre allo stragismo e al metodo mafioso, un altro modo in cui si è declinata nei secoli la criminalità dei potenti in Italia è stata la corruzione.
Se si esamina la storia della corruzione in Italia, si può constatare come sin dai tempi della Monarchia si registra una differenza sostanziale tra il nostro Paese ed altri Paesi europei.
La differenza è che altrove la corruzione è una sommatoria di casi singoli, di cadute individuali che vengono riprovate pubblicamente.
In Italia invece la corruzione si manifesta subito come sistemica, come codice culturale della classe dirigente che si autogarantisce l’impunità.
Esemplare a questo proposito è il caso dello scandalo della Banca Romana esploso nel 1893.
La Banca romana era uno delle cinque banche nazionali autorizzate a stampare carta moneta per conto dello Stato.
Si scoprì che i dirigenti  della Banca con la copertura dei vertici della politica nazionale, avevano stampato  banconote false duplicando i numeri di serie per una cifra spropositata.
Inoltre la Banca aveva erogato crediti senza garanzie e quindi inesigibili al fior fiore della  nomenclatura del potere del tempo: parlamentari della destra e della sinistra, ministri, ex ministri, palazzinari legati alla famiglia reale, giornalisti di grido: in totale circa 150 pezzi da novanta. 
Il crack ad un certo punto divenne inevitabile ed iniziò una indagine penale.
Il processo, apertosi a Roma nel 1894, si concluse dopo sessantuno udienze con l’assoluzione di tutti gli imputati: i responsabili della banca, un deputato e due funzionari preposti alla vigilanza dell’istituto.
I fatti accertati rimasero dunque senza colpevoli.
Nelle indagini era rimasto coinvolto anche il Presidente del Consiglio Giolitti su cui mandato funzionari di polizia, durante il sequestro degli atti, avevano fatto sparire casse di documenti scottanti che coinvolgevano  politici e membri famiglia reale.
Allo scandalo della Banca romana, seguirono decine di altri scandali come quello della Banca italiana di sconto che coinvolse, oltre che numerosi colletti bianchi, anche quattro senatori del regno per i quali il Senato si costituì in Alta Corte di Giustizia. Quello del Banco di Sicilia, quello delle frodi per le forniture militari: scandali tutti conclusisi con assoluzioni generali.
La tangentopoli italiana non si è mai fermata ed ha attraversato il Fascismo, la prima e la  seconda Repubblica giungendo sino ai nostri giorni.
Le storie di oggi sono la replica e la riedizione dei quelle di ieri e dell’altro ieri. Anche nei loro esiti: l’eterna impunità garantita in un modo o in un altro a tutti i protagonisti delle vicende corruttive e la trasversalità della corruzione.
La straordinaria continuità storica della corruzione sistemica nella storia italiana dimostra quanto a mio parere quanto sia depistante continuare a parlare di questione morale.
Una patologia del potere che dura ininterrottamente da più di un secolo e mezzo godendo – in un modo o in un altro - di eterna impunità, va interpretata per quello che realmente è.
Un codice culturale che plasma la forma stessa di esercizio del potere.
In altri termini la corruzione in Italia non è una deviazione del potere, ma una  forma “ naturale” di esercizio del potere che gode di accettazione culturale da parte della classe dirigente e che conta sulla rassegnazione culturale da parte delle classi sottostanti.
La corruzione fa parte della costituzione materiale del Paese; è una componente organica della politica italiana e dunque è una questione macropolitica con la quale occorre fare i conti a livello macroeconomico.




Secondo la sua analisi quindi nel nostro Paese si è andato strutturandosi ed evolvendosi un sistema di potere con connotazioni decisamente criminali, com’è la situazione attuale?
Rispetto al passato c’è una novità peggiorativa.
Prima l’abuso di potere e la corruzione dovevano essere praticati sottobanco perché illegali, ora invece l’abuso e la corruzione possono essere praticati alla luce del sole perché di giorno in giorno vengono legalizzati.
Ricapitolando, poiché la questione criminale in Italia coinvolge ampi settori delle classi dirigenti, non solo è inestricabilmente intrecciata alla storia nazionale, ma è inscindibile dalla questione democratica e da quella dello Stato.
A secondo del modo in cui si evolve la criminalità del potere, possono infatti mutare gli equilibri politici, può cambiare lo stesso modo di essere in concreto della democrazia.
Un francese, un inglese, un tedesco possono tranquillamente ignorare le vicende criminali dei loro Paesi.Ma un italiano che ignori la storia ed i percorsi della criminalità del potere è privo di una chiave di lettura essenziale per decifrare la realtà che lo circonda.
Non è in grado di capire perché in certi tornanti essenziali la storia ha preso una certa direzione invece che un’altra, perché muta il panorama istituzionale, quali siano i reali motivi sottesi all’emanazione di certe leggi al di là dei motivi ufficiali.
Non è in grado di capire perché il Paese rischi ciclicamente il tracollo economico a causa della storica incapacità di ampi settori delle sue classi dirigenti di autolimitare le prassi predatorie delle risorse collettive.
Non è in grado di capire perché oggi la criminalità dei potenti stia contribuendo a condannare il nostro Paese al degrado civile e al declino economico.
In sintesi in un Paese come il nostro la criminalità dei potenti è una componente essenziale delle dinamiche macropolitiche e macroeconomiche che incide non solo sui processi di composizione e di scomposizione del potere, ma anche sul destino economico dell’intera nazione.
Oggi rispetto al passato assistiamo a quella che sembra la rottura di tutti gli argini.
La corruzione, come dicevo prima, ormai viene sempre di più legalizzata e praticata alla luce del sole mediante la depenalizzazione di vari reati, mediante la legalizzazione del conflitto di interessi,cioè dell’interesse privato in atti di ufficio, mediante la progressiva lobotizzazione degli strumenti di indagine (vedi riforma delle intercettazioni).
Il metodo mafioso, come notano preoccupati criminologi e  magistrati, si diffonde a macchia d’olio all’interno del mondo dei colletti bianchi, travalicando i confini delle mafie tradizionali sul territorio.
Dal Nord al Sud in centinaia di processi emergono associazioni a delinquere, comitati di affari, network di potere costituti da colletti bianchi che utilizzano metodologie mafiose per conquistare illegalmente spazi di potere e per condurre i loro affari.
Si affermano sempre di più nuove soggettività criminali complesse: i sistemi criminali.  
Una sorta di tavolo dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente dotate di specifica professionalità criminale: il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, il portavoce delle mafie. Ciascuno di questi soggetti è referente di reti di relazioni esterne al network ma messe a disposizione dello stesso. Il sistema è modulare nel senso che, a secondo della natura degli affari e delle necessità operative, integra nuovi soggetti o ne accantona altri. I diversi tavoli di lavoro pianificano la divisione dei compiti per conseguire il risultato del controllo di ampi settori delle istituzioni, dei centri di spesa, e della spartizione delle opere e dei fondi  pubblici   A volte i vari sistemi criminali operanti nel territorio diventano intercomunicanti tramite uomini cerniera. Per intenderci potremmo definire i sistemi criminali come mutanti che nascono dall’evoluzione e dall’ibridazione di precedenti forme criminali: corruzione, piduismo e mafia. Le cronache offrono un ampio campionario della fitta rete di sistemi criminali che dal Nord al Sud come un esercito di termiti succhiano segretamente la linfa vitale del paese.
Nelle regioni meridionali hanno una maggiore visibilità solo perché la loro esistenza emerge in occasione delle indagini classiche sulle organizzazioni mafiose operanti sul territorio.              
Intercetti il mafioso e quello parla con l’imprenditore che a sua volta si rapporta con il politico che mette in campo il finanziere etc…un filo di Arianna che porta dentro i labirinti del potere e dei grandi affari. 
Siamo alla post mafia. Se prima si utilizzava la categoria giuridica e concettuale del “concorso esterno” in associazione mafiosa per indicare i colletti bianchi esterni alle organizzazioni mafiose che colludevano in vario modo con le stesse a livello individuale, ora sarebbe più corretto parlare di concorso esterno delle organizzazioni mafiose negli affari sporchi di ampi settori delle classi dirigenti.




A cosa si deve questa rottura degli argini prima esistenti?
Credo che abbia contribuito il venir meno di un fattore che sino alla fine della prima repubblica aveva agito da occulto calmieratore, da contrappeso alla incapacità di autoregolazione delle classi dirigenti.
Mi riferisco al pericolo del sorpasso a sinistra che ha caratterizzato la storia del dopoguerra italiano.
La classe dirigente doveva autolimitarsi e venire a patti dovendo misurarsi con la realtà sociale e politica del più forte partito comunista europeo e soprattutto di una classe operaia che aspirava a divenire classe generale assumendo la responsabilità della direzione dello Stato mediante alleanze strategiche con il mondo riformista cattolico e la parte più evoluta della società civile.
Votare a sinistra era per quella parte della società civile un modo di esprimere la propria insoddisfazione e la propria insofferenza per un sistema che nelle sue degenerazioni diveniva intollerabile.
L’alternativa della sinistra veniva vissuta non come un’ alternanza di oligarchie al potere che non cambiava l’ordine delle cose, né come un sovvertimento della democrazia, ma come la possibile costruzione di un altrove politico.
Ricordiamo il  successo della questione morale sollevata da Luigi  Berlinguer.
Di fronte al pericolo del sorpasso a sinistra, la parte più violenta della classe dirigente ha reagito con lo stragismo e gli omicidi politici che hanno segnato la storia della seconda repubblica dalla strage di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 alle stragi del 1993.
Un’altra parte della classe dirigente ha dovuto invece mediare, sfiatando le ragioni dello scontento popolare con la progressiva costruzione dello stato sociale dei diritti.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la sopravvenuta irrilevanza storica e sociale della classe operaia, l’antagonismo sociale si è completamente disarticolato ed ha perduto la possibilità di un canalizzazione politica.
Il venir meno del controbilanciamento del pericolo del sorpasso a sinistra ha inaugurato la stagione delle mani libere che si traduce nella deregulation cioè nella sistematica abolizione delle regole e dei diritti sia nell’economia che nella politica.
Quello a cui stiamo assistendo è così uno straordinario ritorno al passato: un passaggio dalla modernità imperniata sul primato del potere impersonale della legge uguale per tutti alla premodernità di  un potere – quale era quello tardofeudale,  personale, svincolato da controlli e al di sopra delle leggi all’interno di una società ristrutturata in modo piramidale e castale.
Il neofeudalesimo italiano, affollato da tanti vassalli in cerca del loro Principe, di sudditi contenti di esserlo, di intellettuali la cui massima aspirazione è quella di divenire il “consigliori” del Principe di turno e di essere iscritto al suo libro paga, è una riedizione della storia più antica e autentica del Paese.
La storia di un Paese che ha mancato il suo appuntamento con la modernità.
 Siamo passati direttamente  dalla premodernità del tardofeudalesimo quando lo stato di diritto non era ancora nato, alla postmodernità caratterizzata dalla crisi mondiale dello stato di diritto, senza avere avuto il tempo di vivere quella straordinaria stagione della modernità che nei secoli diciottesimo e diciannovesimo ha prodotto in Paesi come la Francia, Inghilterra, la Germania le culture dell’illuminismo, del  liberalismo, del laicismo alla base della fondazione dello Stato di diritto.
Così la vecchia cultura della roba si è saldata, quasi senza soluzione di continuità, alla nuova cultura del profitto senza regole e senza limiti.




La criminalita' dei potenti in Italia - Roberto Scarpinato e Saverio Lodato

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Per comprendere fino in fondo la criminalità mafiosa in Italia e approfondire la logica del Potere esistente il libro di Roberto Scarpinato e Saverio Lodato, Il ritorno del Principe, è sicuramente lo strumento più indicato.


E' con vero piacere che riporto di seguito il video della presentazione del libro avvenuta a Roma lo scorso 23 settembre auspicando che Il ritorno del Principe diventi un testo di studio per i giovani di oggi e per le future generazioni.


Giorgio Bongiovanni
Direttore ANTIMAFIADuemila



LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "Il Ritorno del Principe" di ROBERTO SCARPINATO e SAVERIO LODATO a ROMA
23-09-2008

Intervento di Roberto Scarpinato: Clicca per vedere!

Intervento di Saverio Lodato: Clicca per vedere!

Intervento di Marco Travaglio: Clicca per vedere!

Intervento di Paolo Flores D'Arcais: Clicca per vedere!

Intervento di Paolo Ricca: Clicca per vedere!

Intervento di Andrea Purgatori: Clicca per vedere!


Corrado Augias intervista Roberto Scarpinato: Clicca per vedere!
 
 
Marco Travaglio recensisce Il ritorno del Principe:
Dopo Tangentopoli, così il Principe si riprese le leggi e ricominciò come prima
 
Non c’è giorno che non ci domandiamo: com’è che ci siamo ridotti così? Perché ciò che è normale nelle altre democrazie in Italia è eccezionale, e viceversa? Per rispondere, basta ripercorrere la storia del potere in Italia senza ipocrisie né indulgenze autoconsolatorie. Senza raccontarci le solite fiabe a lieto fine. Perché la storia del potere in Italia non ha un lieto fine. E nemmeno un lieto inizio.
 
Roberto Scarpinato, magistrato siciliano, memoria storica dell’antimafia palermitana (e dunque appena degradato da procuratore aggiunto a semplice sostituto dalla scriteriata riforma Mastella), ha voluto partire dal Principe di Machiavelli per raccontare gli italiani agli italiani in un prezioso libro-intervista a Saverio Lodato: “Il ritorno del Principe” (Chiarelettere, pp. 347, 15,60 euro). Lodato gli ha posto le domande giuste, Scarpinato ha dato le risposte giuste. Non è l’ennesima storia della mafia. E’ una storia del potere che spiega anche la mafia. Ma anche il declino italiano, di pari passo con l’escalation della corruzione, della malapolitica, della malaeconomia, degli eterni piduismi e stragismi, protagonisti necessari del nostro album di famiglia. Un libro raro che rivolta la storia d’Italia come un guanto e ne svela il “lato B”:quello che Scarpinato chiama “l’oscenità del potere” nel senso etimologico di “fuori scena”: “Quello degli assassini è spesso il fuori scena del mondo in cui tanti sepolcri imbiancati si mettono in scena”. La mafia militare addirittura come “servizio d’ordine” dei colletti bianchi, “lupara proletaria e cervello borghese”: lasciata senza briglie quando è utile al potere, ma scaricata e potata a suon di retate quando alza troppo la cresta o non serve più.
Il libro sorprende e lascia a bocca aperta. In un altro paese susciterebbe polemiche e dibattiti furibondi, invece è stato subito avvolto da una coltre di imbarazzato silenzio. Forse perché rovescia a uno a uno tutti i luoghi comuni, oltre il belletto delle fiction edificanti, quelle che da una parte schierano gli eroi dello Stato e dall’altra, a debita distanza, i mostri dell’Antistato. Ecco, qui l’Antistato è parte integrante dello Stato. Qui si parla di “morte dello Stato”, della sua progressiva “mafiosizzazione” che rende quasi obsoleta, superata, superflua la violenza della mafia d’un tempo. Oggi - dice Scarpinato - siamo in piena “post-mafia”. Il “concorso esterno” non è più quello di certi esponenti del potere nei confronti delle mafie: “è quello delle organizzazioni mafiose negli affari loschi di settori delle classi dirigenti”. Di rovesciamenti illuminanti come questo, il libro è pieno. Si parla di “sicurezza” e si invoca “più carcere”? Ma “il vero deterrente contro il crimine non è la galera: è la vergogna”, che in Italia s’è estinta da un pezzo, anzi è usata per screditare la gente onesta. Si invoca il “primato della politica”? Ma nello Stato democratico liberale di diritto il primato è della Legge, cui deve inchinarsi anche la politica. Si dice che gli italiani hanno la classe politica che si meritano? No, è la classe politica che ha gli italiani che si merita, avendoli plasmati a propria immagine e somiglianza col controllo militare dei media e della cultura, che ha “azzerato la memoria collettiva”. Le pagine più devastanti sono quelle dedicate agli intellettuali italiani, quasi sempre “organici” al potere, nati e cresciuti come “consigliori del Principe”, servili dispensatori di imposture, superstizioni, revisionismi, negazionismi e conformismi, sempre pronti a tradire la missione di coscienze critiche e intenti a giustificare gli abusi del potere. “Oggi 9 italiani su 10 sono convinti che Andreotti è stato assolto e che la mafia è solo Provenzano”. “All’inizio del processo Andreotti – rivela Scarpinato - la Rai fu autorizzata a riprendere tutte le udienze; ma dopo averne trasmesse due, con audience molto elevata, la programmazione fu cancellata”.
Dalle ruberie della Banca Romana al delitto Notarbartolo, dalle stragi dei sindacalisti siciliani all’eccidio di Portella della Ginestra, dall’intrigo del caso Giuliano-Pisciotta alle stragi degli anni 60 e 70, fino ai delitti politici degli anni 80 (terribili le tragedia greche di Mattarella e Dalla Chiesa), ai processi Andreotti, Dell’Utri e Cuffaro, alle bombe politiche del ‘92-’93, mentre lo Stato trattava con la mafia alle spalle dei cittadini in lutto, alla lunga pax mafiosa che dura tuttoggi, Lodato e Scarpinato ci accompagnano passo passo nel retrobottega dell’ ultimo secolo e mezzo di storia patria, in una “stanza di Barbablù” irta di scheletri e fantasmi, segreti e ricatti: segnata da quello che il pm chiama “il rapporto irrisolto fra classi dirigenti e violenza” in un paese dove “la criminalità fa la Storia”. Non è un caso - sostiene Scarpinato - se il Risorgimento, la Resistenza, la Costituente e il biennio magico di Tangentopoli e Mafiopoli sono oggi così impopolari: sono le sole parentesi felici in cui piccole élites liberali consentirono all’Italia di alzarsi in piedi oltre la propria statura media, ai livelli delle vere democrazie, salvo ripiombare regolarmente e rapidamente in balia delle eterne sottoculture autoctone dominanti, tutte autoritarie e illiberali: cattolicesimo controriformista, “familismo amorale”, “machiavellismo deteriore” tutto rivolto all’interesse particulare ed ”eterno fascismo italiano” scandagliato dai rari intellettuali disorganici come Flaiano, Sciascia, Pasolini e Montanelli.
Per questo la Costituzione va così stretta ai nostri politici, che da vent’anni fan di tutto per riscriverla: nella Costituente, per una provvidenziale “alchimia della storia”, dominavano le culture liberali da sempre minoritarie. Una parentesi eccezionale, miracolosa che partorì una Carta infinitamente più matura dell’ Italietta arretrata e contadina del tempo, una “raffinata ingegneria della divisione bilanciata dei poteri” lontana anni luce dalle culture dominanti, tornate subito dopo al potere. Insomma, uno smoking calcato addosso a un maiale. Non appena la Costituzione cominciò ad essere attuata fino in fondo, in base ai principi rivoluzionari di solidarietà, di eguaglianza e di legalità, il Principe sentì tremare la terra sotto i suoi piedi e riprese prontamente il sopravvento, “svuotandola dall’interno”. Lo stesso accadde dopo il 1992-’93, quando la legge fu davvero uguale per tutti e dunque il Principe non potè sopportarlo, riportando rapidamente a galla gli eterni don Rodrigo, don Abbondio e Azzeccagarbugli. I tre santi patroni nazionali. Amarissime,a tal proposito,le pagine sulla normalizzazione della Procura di Palermo, quando a Caselli subentrò Piero Grasso.
Qualche spiraglio resta aperto alla speranza. Mai illusoria o consolatoria. Responsabilizzante. Scarpinato la coglie nel raro protagonismo civile degli italiani che rifiutano il rango di sudditi: i girotondi di qualche anno fa, le recenti manifestazioni in difesa di De Magistris in Calabria, la rivolta giovanile di Addiopizzo a Palermo e quella di parte della Confindustria siciliana contro il racket. E indica una strada: cercare e pretendere sempre la verità. Cita l’indovino Tiresia sulle rovine di Tebe, corrotta e malgovernata: “L’offesa alla verità sta all’origine della catastrofe”. Tiresia era cieco, ma vedeva tutto. I tebani avevano ottima vista, ma non vedevano più nulla.
Marco Travaglio

Tratto da: l'Unità 2 ottobre 2008
 
 
Per gli approfondimenti:
http://chiarelettere.ilcannocchiale.it/post/1957651.html

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