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Nel caos che scuote il Vaticano per riportare la Chiesa alle origini come vuole Francesco due personaggi sono stati poco scandagliati: uno è Perlasca. E’ indicato come la "gola profonda" dell'inchiesta che coinvolge il cardinale Becciu

Nel caos ipnotico che scuote il Vaticano per riportare la Chiesa alle origini, come vuole Francesco e dove l'azione giudiziaria diventa un'efficace leva per accelerare questi processi, due personaggi sono stati poco scandagliati, seppur rappresentino delle efficaci chiavi per capire come quello che sta accadendo nei sacri palazzi andrà a condizionare questo e il prossimo Pontificato. Il primo nome è quello di Alberto Perlasca, comasco del 1960 e ordinato sacerdote nel 1992. Perlasca è stato indicato superficialmente come la «gola profonda» del promotore di giustizia nell'inchiesta sui mercanti nel tempio, sulle distrazioni attribuite al cardinale Angelo Becciu. Non è emersa la approfondita e per certi versi devastante conoscenza delle finanze vaticane più occulte di questo religioso, che dal luglio del 2009 per dieci anni ha ricoperto un ruolo cruciale come responsabile della potente sezione amministrativa della segreteria di Stato.
Perlasca aveva quindi ereditato la gestione della cosiddetta potente e semisconosciuta «terza banca» in Vaticano, nata agli inizi degli Anni Settanta con Paolo VI, ai tempi di Michele Sindona e che andava a posizionarsi dopo il famigerato Ior e l'Apsa, la banca centrale dello Stato, all'insaputa dello stesso Papa regnante, ovvero Giovanni Paolo II.
In quegli anni un diplomatico formato nella scuola piemontese e di lungo corso come monsignor Gianfranco Piovano, classe 1938, raccolse i finanziamenti di alcuni imprenditori milanesi e costituì questo comparto finanziario, autonomo dallo Ior di Paul Casimir Marcinkus, capace di alimentare le necessità pontificie in caso d'emergenza. Tant'è che proprio dai fondi di questa semisconosciuta «terza banca» si attinsero quei 406 milioni di dollari necessari a risarcire i piccoli azionisti del banco Ambrosiano, dopo la bancarotta di Roberto Calvi. Quando Tarcisio Bertone divenne segretario di Stato, scelse Perlasca come successore di fiducia di Piovano, diventando punto di riferimento finanziario in terza loggia per le questioni finanziarie. La particolarità di questa «terza banca» non è solo quella di aver coordinato le gestioni fiduciarie più riservate e le operazioni più defilate del monolite curiale, ma quella di aver avuto in pancia pochi depositi, gestiti come un normale istituto di credito.
In particolare monsignor Francesco Salerno e altri attenti religiosi di curia hanno indicato proprio la «terza banca» come intestataria di conti riservati della Conferenza episcopale dei vescovi, all'insaputa della Cei stessa e sui quali sarebbero affluiti somme dell'otto per mille. Un'ipotesi mai verificata pienamente ma che dà la cifra delle potenzialità che la «collaborazione» di Perlasca con l'autorità giudiziaria vaticana assume. Il cardinale Pell iniziò ad approfondire i dossier di quella misteriosa sezione, scoprì e focalizzò fondi extracontabili per almeno 600 milioni di euro, per essere falciato da un inconsistente processo per pedofilia che lo richiamò in Australia. In particolare, sarebbe emerso che la «terza banca» avrebbe amministrato sino a 4 miliardi di euro tramite un articolato sistemi di conti correnti, accesi sia all'Apsa, sia allo Ior, sia nel cosiddetto comparto svizzero dal quale partivano i bonifici per alimentare le operazioni immobiliari oggi al vaglio degli inquirenti. Ancora, la gestione dell'obolo di San Pietro da parte della squadra di Perlasca – dal cavaliere Fabrizio Tirabassi, prezzemolo nelle indagini, al meno conosciuto monsignor Tullio Poli - creava un'impressionante contiguità tra i denari che venivano raccolti per la beneficenza diretta del Santo Padre e quelli che servivano a compensare mere speculazioni finanziarie.
La deflagrazione di questa indagine deve quindi ancora avvenire, considerando che le deposizioni di Perlasca – ad oggi – sono conosciute da pochissime persone in Vaticano nella loro interezza. A iniziare certamente dal Santo Padre che chiede un aggiornamento pressoché quotidiano degli sviluppi. Del resto, quando Bergoglio divenne Papa, Perlasca, che era stato anche in Argentina vicino agli oppositori del cardinale gesuita, rilasciò al Corriere di Como nel marzo del 2013 una delle sue rarissime interviste che riletta oggi suona profetica: «Penso che Bergoglio farà scelte non propriamente conformi a quello che gli uomini si aspetterebbero. Ci dà una sveglia su tante cose sulle quali ci siamo adagiati».
Ma in quelle prime settimane di pontificato Perlasca di certo non pensava che il sistema sarebbe stato colpito alle fondamenta. E invece fin da subito la ragnatela della galassia finanziaria (dalle fondazioni come la san Michele Arcangelo, la cardinale Salvatore de Giorgi e le fiduciarie elvetiche) venne preso di mira. Perlasca resisteva agli ispettori vaticani ma non aveva considerato il contraccolpo emotivo che il trasferimento alla signatura apostolica del luglio 2019 gli avrebbe cagionato. Un momento di cambiamento intercettato dagli inquirenti per far breccia in uno dei sistemi più occulti e profondi della finanza curiale. «Senza Perlasca avremmo impiegato decenni – racconta una fonte – a ricostruire le operazioni esterovestite che hanno segnato certi affari». Si tratta ora di capire fin dove si è spinto Perlasca e fin dove vuole spingersi il Pontefice. Ma questo lo si intuirà presto, prestissimo già nelle prossime settimane. —

Tratto da: La Stampa del 9 ottobre 2020

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