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Depositate le motivazioni con cui la Cassazione ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dall’amante del boss

La Cassazione (sentenza 3669) ha depositato le motivazioni con le quali ha respinto il ricorso di Laura Bonafede, ex maestra ed amante del boss stragista Matteo Messina Denaro (deceduto lo scorso settembre), contro il no del Tribunale del riesame alla sua richiesta di scarcerazione. Bonafede per molti anni avrebbe coperto la latitanza del boss Matteo Messina Denaro, contro lo stesso parere di quest’ultimo, non erano solo di tipo sentimentale o personale, ma riguardavano dinamiche associative. La donna, moglie di un ergastolano e figlia del capomafia di Campobello di Mazara, Leonardo Bonafede, ormai deceduto, avrebbe agevolato la latitanza di Messina Denaro “fungendo - scrivono i giudici - da costante tramite per l’esterno dei messaggi di costui e, in questo modo, rendendo possibile, od anche soltanto più agevole, la veicolazione dei suoi ordini e indicazioni ai sodali mafiosi in libertà, così evitandogli di esporsi in prima persona o, comunque, riducendone notevolmente la necessità”.

Per la Suprema corte l’ordinanza impugnata è esauriente nell’illustrare il ruolo attivo svolto dall’indagata nella comunicazione tramite “pizzini”, utilizzato dal superlatitante. Un canale di comunicazione, utilizzato, in più occasioni per garantirne l’efficacia “suggerendo diversi nomi in codice o l’opportunità di adottare differenti modalità esecutive”. Secondo gli ermellini, la tesi difensiva è generica anche quando contesta la convivenza tra i due “che già di per sé rappresenta - si legge nella sentenza - una condizione favoreggiatrice per il latitante, in ragione dell’ausilio che gliene deriva per le sue esigenze di vita quotidiana pregiudicate dalla clandestinità”.

Il ricorso, sottolineano i giudici di legittimità, elude il vero argomento centrale del no alla scarcerazione: evitare il rischio - che indagini ancora in pieno svolgimento, su aspetti molto rilevanti come l’individuazione di altri componenti della “rete di protezione” - vengano compromesse per l’impossibilità di controllare costantemente l’indagata. Per la Cassazione esiste il rischio di una comunicazione con terze persone, il che potrebbe non solo minare l’efficacia delle indagini ma anche comportare una reiterazione del reato a vantaggio, questa volta, “delle svariate altre persone, ancora ignote, che, come lei, hanno aiutato costui a sottrarsi a condanne e misure cautelari per trent’anni”.

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