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Il pm Di Matteo a Napoli: "Su processo e sentenza silenzio e nascondimento dei fatti"

"Certi temi, il processo e la sentenza trattativa Stato-mafia, sono stati oggetti di una costante e pervicace disinformazione in un panorama complessivo che ritengo essere stato, ancora oggi, di silenzio e nascondimento dei fatti". A parlare è il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, intervenuto nei giorni scorsi al convegno organizzato dal Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dal titolo “La trattativa Stato-mafia: responsabilità penale o responsabilità politica?”.
Un incontro che non era solo riservato agli studenti della facoltà ma anche valido come corso di formazione per avvocati e giornalisti della Campania.
Così Di Matteo, che assieme ai pm Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, ha rappresentato l'accusa al processo che si è concluso lo scorso aprile con le condanne in primo grado degli imputati mafiosi, Bagarella e Cinà, di alcuni ufficiali dei Carabinieri (Mori, De Donno e Subranni), e dell’ex Senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, ha ripercorso le varie fasi del processo. Proprio partendo dalle campagne di disinformazione che sono avvenute nel tempo anche di fronte a sentenze passate in giudicato (“La sentenza definitiva del processo Andreotti afferma che fino al 1980 l’ex presidente del consiglio ha intrattenuto rapporti significativi con i capi di Cosa nostra per discutere dei danni dell’azione di Piersanti Mattarella alla Regione Sicilia, prima, per poi lamentarsi del suo omicidio, dopo. Questo c’è scritto in una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano, ma pochi italiani lo sanno”), Di Matteo ha ricordato i punti salienti delle motivazioni della sentenza, depositate lo scorso 19 luglio. Una sentenza che ribadisce come oggi la trattativa "non si può più definire presunta", fermo restando che di questo parlavano anche altre sentenze come quella per le stragi del 1993.
E' un dato di fatto che uomini delle istituzioni avvicinarono gli uomini di Cosa nostra chiedendo "cosa volessero per fermare il 'muro contro muro'" e quelle bombe che hanno insanguinato il nostro Paese. Un'interlocuzione avvenuta tra gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, all'indomani della strage di Capaci, con il sindaco mafioso Vito Ciancimino. E Di Matteo ha letto alcuni passaggi della sentenza laddove è scritto che "non v'è dubbio, che quei contatti unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento di quel ministro dell'Interno che si era particolarmente speso nell'azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato". Ed è un dato di fatto che quell'interlocuzione portò al convincimento che le bombe pagassero, tanto che anche dopo l'arresto di Riina vi furono le stragi in Continente.
E proprio senza perdere mai di vista l'aspetto dell'accertamento fattuale degli accadimenti si sono sviluppate l'inchiesta ed il dibattimento. "Nessuno ha contestato il reato di trattativa - ha ricordato Di Matteo - ma il reato corrispondente all'art.338 di
attentato a corpo politico dello Stato. Il profilo giuridico è un altro. Noi abbiamo avuto l'organizzazione criminale più potente al mondo che con violenza e minaccia ha commesso omicidi eccellenti, le stragi accompagnate dalla richiesta di benefici. Si ha una minaccia precisa al Corpo politico dello Stato, il Governo. I mafiosi hanno fatto questo ricatto e per questo sono stati processati. Poi abbiamo avuto esponenti non mafiosi, esponenti delle forze dell'ordine, e della politica a cui abbiamo attribuito il ruolo di concorrenti secondo i criteri di norma del concorso di persona nel reato. Questi non mafiosi hanno contribuito in qualche modo, o istigato o rafforzato la volontà di Riina di ricattare lo Stato, fungendo da cinghia di trasmissione nel ruolo di mediatori delle richieste". Così l'omicidio Lima, le stragi di Capaci, via d'Amelio, l'attentato di via Fauro, la strage dei Georgofili, di Milano e Roma ed il fallito attentato all'Olimpico, vengono inseriti in un quadro che va letto in maniera unitaria. Ma Di Matteo non si è limitato a ricostruire i punti dell'accusa. Ha anche evidenziato come, in diversi momenti del processo, non sono mancati forti momenti di tensione istituzionale. “Quando è balzata all’onore delle cronache la vicenda delle telefonate di Mancino a Napolitano - ha ricordato il pm -, dopo che nei confronti di noi magistrati sono partite iniziative fortissime (vedi il conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, ndr), nessuno ha rilevato che la stessa situazione si era verificata per Scalfaro e Napolitano in un’altra inchiesta. Le intercettazioni erano finite sui giornali e non era partita nessuna iniziativa. Perché il mondo accademico non ha rilevato questo?”. Ugualmente polemiche erano sorte quando i pm chiesero di poter sentire come teste il Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Una richiesta che fu accolta dal Presidente della Corte Alfredo Montalto. "Quante volte a Palermo mi è capitato di scambiare delle battute con dei colleghi i quali mi dicevano 'voi avete ragione nella vicenda delle intercettazioni, con un comportamento rispettoso della legge ed inserito nei criteri previsti del codice. Però c'è una quesitone di opportunità politica e certe iniziative è meglio evitarle'. Questo è il pericolo che corriamo noi magistrati ed il mondo accademico. Il pericolo di piegarsi a ragioni di opportunità politica".

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La scomparsa dei fatti nelle parole degli "azzeccagarbugli"
Dopo Di Matteo è stata la volta delle relazioni dei vari docenti universitari che hanno evidentemente approcciato il tema della conferenza senza tener in alcun modo conto dei fatti esposti dal magistrato e ricostruiti minuziosamente in oltre cinquemila pagine della sentenza ma anzi arrovellandosi, come tanti "azzeccagarbugli" per riportare in auge quelle tesi di figure come Giovanni Fiandaca che, a processo appena iniziato aveva definito lo stesso come una "boiata pazzesca". Secondo certi professori quella non era un'interferenza "a sproposito" mentre lo erano articoli di giornale, film, spettacoli teatrali ed incontri pubblici che hanno posto l'attenzione sui temi del processo. Ma cosa c'era da aspettarsi tenuto conto che proprio la stessa Università Federico II di Napoli, nell'aprile 2013, aveva ospitato una lectio magistralis del giurista Fiandaca?
All'epoca il processo aveva già retto al vaglio del gip ed oggi anche una Corte d'Assise (basta leggere le motivazioni della sentenza) ha riconosciuto la validità dell'impianto accusatorio dei pm palermitani. Ed è forse questo che dà particolarmente fastidio e così si è tornati nuovamente a discutere sulla configurazione del reato, se dovesse essere contestato l'articolo 338 (“attentato a corpo politico dello Stato") o il 289 (“Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali”), se il Governo possa o meno essere considerato come Corpo politico, se fosse legittimo o meno trattare, se quell'iniziativa fosse giustificata da una qualche "ragion di Stato" o finalizzato comunque a porre fine alle stragi. C'è stato persino chi è arrivato a sostenere che "con la mafia non si tratta" ma si deve ragionare se "negli anni Novantadue-Novantaquattro la mafia non agì da mafia ma con un passaggio da terrorismo. E lì lo Stato è stato forse indotto ad una trattativa, avvertendo lo scontro di una mafia che aveva un volto inimicale, sconosciuto". Chi ha ricordato che in "stato di guerra si tratta con il nemico", chi ancora una volta ha sostenuto che con quell'iniziativa si sono fermate le stragi senza considerare le vittime innocenti che ci sono state negli anni successivi gli attentati di Falcone e Borsellino.
Tornando al "nodo" dell'articolo 338 nelle motivazioni della sentenza "Stato-mafia" non mancano le spiegazioni in punta di diritto da parte dei giudici della Corte d'Assise. Ed anche in requisitoria i pm avevano spiegato i motivi che avevano portato alla configurazione del reato tra l'altro come ribadito dalla sentenza della Corte di Cassazione del 2 settembre 2005. E va ricordato che, con riferimento all’articolo 338, gli ermellini hanno di fatto sancito che: “Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica, come il Parlamento, il Governo e le Assemblee Regionali, purché il fatto se configurabile non realizzi l’ipotesi del reato di cui all’art. 289, che sanziona invece la condotta quando essa sia impeditiva e non soltanto turbativa dell’attività del corpo politico minacciato”. Seppur critico, ma in maniera più costruttiva, è apparso l'intervento del professore Longobardo, il quale pur mantenendo le riserve sulla configurazione del capo di imputazione, ha ragionato se di fronte al comportamento tenuto da alcuni imputati condannati si possa parlar di causa di giustificazione. Questo significherebbe che possono commettere certe azioni, anche reati, e che questo reato sarebbe giustificato per lo Stato di necessità (L'art. 54 c.p. che dispone “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo"). "Se si seguono però le regole di garanzia che si hanno per limitare il potere politico statuale e per limitare la possibilità dello Stato di intervenire rispetto le libertà fondamentali - ha ricordato - per quel che concerne la possibilità di applicazione del caso di giustificazione all'interno della trattativa Stato-mafia non ci sono spazi di manovra per applicare l'art.54". Diversamente il pregiudizio è apparso netto in altri interventi in particolare nelle conclusioni della giornata. Un intervento, quello del professor Vincenzo Maiello, che non è stato sintesi di tutti gli interventi ma che è stato diretto e specifico contro l'inchiesta e la successiva sentenza perché, a suo dire, vi è stata una ricostruzione dei fatti che aveva "l'obiettivo privilegiato di evidenziare un contesto di immoralità nell'agire istituzionale per poi andare alla ricerca della fattispecie da applicare". E ancor più grave è constatare che dal suo punto di vista agli studenti sia necessario parlare non dei fatti e di quanto avvenuto, sviluppando lo spirito critico, ma che vada tutto ricondotto "dentro i binari della razionalità penalistica". Questioni da "azzeccagarbugli", appunto. Intanto, però, c'è una sentenza che mette in fila tanti pezzi di un puzzle e che offre una nuova chiave di lettura anche su fatti e vicende che in tanti anni non si sono mai voluti affrontare. Un punto di partenza, a prescindere da quello che sarà l'esito dei successivi gradi di giudizio del processo.



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