di Miriam Cuccu e Francesca Mondin
Depositate a Firenze, la settimana scorsa, le motivazioni dei giudici
Trattativa ci fu, altro che presunta. E’ questo il dato che emerge anche da alcuni stralci delle motivazioni della sentenza a carico del boss Francesco Tagliavia, depositate lo scorso 20 maggio dalla seconda Corte d’Assise di Appello di Firenze, presieduta dal giudice Luciana Cicerchia.
Un "primo grande passo verso la verità completa", scrive Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. "Oggi sappiamo perché sono morti i nostri figli: - dice, in occasione del 24° anniversario della bomba esplosa a Firenze - in nome e per conto di una trattativa perché la mafia voleva abolito il 41 bis".
Già in primo grado i giudici della Corte d’assise di Firenze avevano messo nero su bianco che la trattativa “indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des” e addirittura scrissero che “l’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Ora, piaccia o no ai tanti detrattori che dopo la sentenza di assoluzione in appello dei due ufficiali dell’Arma Mario Mori e Mauro Obinu si sono cimentati nel demolire il processo in corso a Palermo, c’è una corte che certifica la necessità di investigare ed approfondire gli aspetti emersi su quel dialogo tra mafia ed istituzioni.
"Complessa e non definitiva", si legge nelle motivazioni, è la conclusione "alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo" sull'individuazione "dei termini e dello stato raggiunto dalla c.d trattativa, la cui esistenza, comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi, è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto - spiegano i giudici - non avrebbe difatti senso alcuno se non fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obbiettivi verso la presunta controparte". Ovvero, precisano, "la pressione e le retrostanti pretese" dovevano essere "chiaramente comprese dagli interlocutori".
"Si può dunque considerare provato - si legge ancora - che dopo la prima fase della c.d. trattativa, avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura dell’obbiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione". "D’altra parte - proseguono i giudici - l’oggettivo ammorbidimento della strategia di contrasto alla mafia" consistente nel mancato rinnovo di oltre trecento provvedimento di 41 bis "ben poteva ingenerare la convinzione della cedevolezza della istituzioni, anche perché nel frattempo si avvicendavano sulla scena politica nuovi interlocutori oggetto di interesse da parte dell’apparato mafioso i cui referenti furono individuati in Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri", ricordando come "la lunga preesistenza di rapporti ritenuti causalmente agevolativi della compagine associativa mafiosa" dell'ex senatore di Forza Italia "è stata recentemente acclarata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 9 maggio 2014" che ha condannato Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nelle motivazioni si evidenzia ad ogni modo che l'argomento trattativa resta tutt'altro che esaurito, evidenziando la consapevolezza "della necessità di ulteriori esplorazioni investigative" data la "viscosità" del tema. E' comunque innegabile che la strategia stragista, si legge nel documento, "abbia rappresentato un salto di qualità strategico". E lo scopo è stato individuato "nell'eliminazione dell'art. 41 bis" che "oltre a rendere più penosa la permanenza del boss in ambito carcerario, avrebbe soprattutto scardinato il sistema comunicativo fino ad allora vigente". Tale "finalità ricattatoria", si apprende ancora, "è stata poi riversata da collaboratori anche nel corso del presente processo, Di Filippo Pasquale, Ciaramitaro Giovanni, Cannella Tullio, Pietro Romeo e Giovanni Brusca. Ed infine a Gaspare Spatuzza" insieme all'acquisizione "dell'interesse e della vicinanza manifestati dai vertici mafiosi e profusi in raccomandazioni di voto, sul partito Forza Italia".
All'interno della cornice rappresentata si inseriscono le numerose dichiarazioni di Spatuzza, che in questo procedimento "ha fornito apporti del tutto inediti che, opportunamente riscontrati, hanno permesso di pervenire alla chiarificazione di alcune zone d'ombra residuate nella fase della ricostruzione delle stragi". Viene richiamato, a questo proposito, l'episodio descritto da Spatuzza sull'ormai famoso incontro al bar Doney a Roma con Giuseppe Graviano, quando il boss di Brancaccio fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri dicendo che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”. "Giuseppe Graviano mi dice - sono le parole di Spatuzza - che l'attentato contro i carabinieri (allo Stadio Olimpico di Roma, poi fallito, ndr) si deve fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia". "Spatuzza - scrivono i giudici - spiegava poi cosa fosse il 'colpo di grazia' rilevando che non si trattava di trattativa ma 'siamo sempre lì', cioé 'c'è una cosa in piedi e ne avremo dei benefici'", ribadendo poi il pentito di aver appreso che "ci sono questi due nomi che mi sono stati riferiti di Berlusconi e Dell'Utri; quindi a questo punto sono loro gli interlocutori" oltre al fatto che Graviano gli disse che "l'attentato doveva servire a 'dare una mossa' e chi doveva capire avrebbe capito". Una scelta, quella di colpire l'Arma dei Carabinieri, sostengono i giudici, che "avrebbe dovuto essere eloquente per i destinatari del messaggio, visto che proprio alcuni suoi rappresentanti si erano infruttuosamente esposti sul fronte delle iniziali trattative, avviate da De Donno e Mori". Proprio i due ufficiali del Ros, interrogati nel 1997 a Firenze per le stragi del '93, avevano parlato di una trattativa avviata con Vito Ciancimino, personaggio vicinissimo ai corleonesi di Totò Riina e, soprattutto, di Bernardo Provenzano. In quell'occasione avevano ribadito che l'iniziativa di contattare Ciancimino l'avevano presa da soli, sull'onda della preoccupazione che esisteva nel paese per le stragi di Capaci e via d'Amelio, anche se a Ciancimino fecero capire di avere qualche altra autorità alle spalle. "Ritenni un mio dovere morale oltrechè professionale fare qualcosa di più e di diverso'', aveva detto Mori. De Donno aveva dichiarato poi che, durante i colloqui con Vito Ciancimino, ''gli proponemmo di farsi tramite con Cosa nostra, al fine di trovare un punto d'incontro finalizzato alla cessazione dell'attività stragista nei confronti dello Stato'', e che in quella ''trattativa'', i ''carabinieri rappresentavano lo Stato''. Ora entrambi, con l'altro ex ufficiale Antonio Subranni, sono imputati al processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, accusati di minacce e violenza a corpo politico dello Stato. Insieme non solo a mafiosi, ma anche ad ex politici, l'ex ministro Nicola Mancino e Marcello Dell’Utri. Evidentemente, a trattare "per conto dello Stato" non è detto che ci fossero solo i Carabinieri.
In foto: la strage di via dei Georgofili e Francesco Tagliavia
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