Via Ughetti, Gioè e Bellini nel racconto del collaboratore di giustizia
di Lorenzo Baldo - 23 gennaio 2014
Palermo. In una terra che vive di segnali l’udienza di oggi al processo sulla trattativa Stato-mafia inizia proprio con un segnale preciso: quello di uno Stato che pretende rispetto. Anche da parte del più efferato boss di Cosa Nostra i cui proclami di morte sono da alcuni giorni sotto gli occhi di tutti. E’ lo stesso presidente della Corte di Assise a rivolgersi a Totò Riina. Nel collegarsi in videoconferenza con la saletta del carcere di Opera (Mi) Alfredo Montalto nota che il capo di Cosa Nostra ha un cappello in testa. Il magistrato gli ricorda che quella saletta rappresenta di fatto un’aula di giustizia e che quindi, in segno di rispetto, il cappello deve essere tolto. Riina esegue senza battere ciglio.
Dagli spalti dell’aula bunker dell’Ucciardone una nutrita schiera della “Scorta Civica” osserva attentamente la scena. Il drappello è formato da un cartello di associazioni che da lunedì scorso è presente cinque giorni alla settimana, a turni alternati, davanti a palazzo di giustizia (meno il giovedì quando una rappresentanza si trasferisce all’Ucciardone per seguire l’udienza del processo sulla trattativa). E’ la risposta migliore alla tracotanza di Totò Riina che si lamenta per la presenza di una parte della popolazione “che li difende” (ai magistrati, ndr) e “che li aiuta”. Sulle gradinate ci sono uomini e donne, ragazzi e ragazze, alcuni di Palermo, altri vengono da fuori. Sono lì per sostenere il pm Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool; anche loro pretendono da Riina quello stesso rispetto che esige il presidente Montalto. L’audizione del collaboratore di giustizia, Gioacchino La Barbera, ex boss della famiglia di Altofonte (del mandamento di San Giuseppe Jato), può finalmente entrare nel vivo.
Da Salvo Lima a Calogero Mannino
Il pm Francesco Del Bene introduce l’argomento della strategia stragista di Cosa Nostra. Riferendosi all’omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima Gioacchino La Barbera non usa mezzi termini: “Si doveva dare una lezione allo Stato, tutti quelli che avevano fatto delle promesse e che poi non avevano mantenuto, si dovevano uccidere”. “Nell'estate del '92 Cosa nostra decise che si dovevano fare dei danni perché non erano state mantenute le promesse fatte”. Del Bene chiede a quali promesse faccia riferimento. “Promessa come quella che il maxiprocesso in Corte di Cassazione andasse bene – replica La Barbera –. Si sperava in qualcosa di buono per Cosa Nostra, come era successo nei tempi passati, ma questo non era successo e quindi si è deciso per fare questi omicidi, come Salvo Lima e Ignazio Salvo, ma anche attentati. L'ordine veniva da Totò Riina, a noi lo riferiva Bagarella che faceva da ambasciatore”. Ecco allora che a detta di La Barbera “fu decisa la strategia di attacco allo Stato, con le stragi. Iniziammo con Falcone, che era sempre stato un nostro nemico dichiarato e si proseguì con Borsellino”. Di fatto nella lista delle persone da ammazzare c'era anche l'ex ministro Calogero Mannino. La Barbera racconta di aver ricevuto quell'indicazione da Salvatore Biondino, uomo di fiducia di Riina. “Si parlò anche di colpire i figli di Andreotti – prosegue il collaboratore di giustizia - perché il padre non aveva fatto nulla per Cosa Nostra, si era disinteressato del 41 bis, non l'aveva fatto togliere e non aveva fatto tornare tutto come prima”. Il pentito conferma quindi il progetto di attentato nei confronti dell’attuale presidente del Senato Piero Grasso. “C'era già l'esplosivo – afferma La Barbera – e il telecomando. Grasso doveva venire a Monreale, e lì doveva avvenire l'attentato. Facemmo un sopralluogo, ma poi non se ne fece più nulla, ma ci fu un problema tecnico. Rischiavamo che scoppiasse prima del passaggio e non se ne fece più nulla”. Nella black-list di Cosa Nostra c’era anche l’esponente socialista Claudio Martelli. “Prima di essere arrestato – specifica il collaboratore - Brusca mandò il genero di Nino Salvo, Gaetano Sangiorgi, a Roma per capire se Claudio Martelli era un facile obiettivo. Sangiorgi studiò dove abitava e tornò dicendo che viveva sulla via Appia. Forse era stato scelto perché si era fatto tanto per procurargli i voti e lui parlava male di Cosa Nostra ed era stato uno dei protagonisti della legge sul 41 bis”.
Paolo Bellini e il covo via Ughetti
Tra i temi trattati dai pm Del Bene e Di Matteo con il collaboratore di giustizia c’è anche il mistero che lega il covo di via Ughetti all’estremista nero Paolo Bellini. Vent’anni fa era stato un altro collaboratore di giustizia, Pino Marchese (il primo pentito dei corleonesi), ad indicare come soggetti particolarmente pericolosi Gioacchino La Barbera e Antonino Gioè, due mafiosi che nel ’92 erano poco noti. Dal “suggerimento” di Marchese, passando attraverso una solida attività di indagine su quei due uomini (intercettazioni telefoniche, pedinamenti, microspie nei luoghi da loro frequentati e attività di osservazione) si era arrivati al covo di via Ughetti dove i due si erano appostati. L’appartamento era stato quindi microfonato e aveva consentito l’ascolto e la registrazione della conversazione in cui i due avevano fatto un riferimento esplicito alla strage di Capaci, facendo intendere il loro personale e diretto coinvolgimento nell’eccidio. Poco dopo, grazie ad un’imponente operazione di polizia, si era arrivati ad arrestare numerosi mafiosi, fra cui gli stessi Gioè e La Barbera. Successivamente Gioè si era tolto la vita in carcere lasciando molti interrogativi su quello che da subito risultò uno stranissimo suicidio. Dal canto suo La Barbera, subito dopo il “pentimento” di Mario Santo Di Matteo (il primo ad autoaccusarsi della strage di Capaci), aveva iniziato anch’egli a collaborare aiutando in maniera decisiva a individuare e punire gli esecutori della strage. Un suicidio decisamente strano quello di Gioè, avvenuto proprio quando, come aveva dichiarato il pentito Mario Santo Di Matteo, (Gioè) stava probabilmente accingendosi a collaborare con la magistratura. Ma sono i dialoghi tra lo stesso Gioè e Paolo Bellini quelli che interessano maggiormente i magistrati che mirano a ricostruire un aspetto di questa trattativa “parallela”. Per comprendere questa triangolazione occorre fare un passo indietro. Bellini aveva conosciuto Gioè alcuni anni prima delle stragi, durante una comune detenzione nel carcere di Sciacca. All’epoca Bellini agiva sotto copertura dei servizi segreti, essendo in possesso di documentazione di identità riferibile a tale Roberto Da Silva. Proprio con questo nome era stato tratto in arresto e aveva conosciuto Nino Gioè. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Paolo Bellini era rientrato in Sicilia e aveva ripreso contatto con Gioè sollecitandolo ad aiutare il Nucleo del patrimonio artistico a recuperare alcune opere d’arte trafugate alla pinacoteca di Modena. Di fatto Bellini agiva per conto del maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e aveva fornito allo stesso Gioè le fotografie delle opere da ritrovare. In cambio Gioè aveva chiesto un trattamento di favore per cinque capimafia detenuti tra cui Bernardo Brusca e Pippo Calò. Bellini aveva quindi consegnato l’elenco con i cinque nomi al maresciallo Tempesta che, a sua volta, l’aveva consegnato al colonnello Mario Mori del Ros dei carabinieri. Bellini e Tempesta avevano di seguito riferito di progetti di Cosa Nostra di attentati al patrimonio artistico italiano. La Barbera conferma in aula che era stato Bellini a suggerire a Gioé di smetterla con le stragi e colpire il patrimonio artistico italiano. “Ti immagini se l’Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa”. “E noi cominciammo – ribadisce il pentito – a organizzarci in questo senso”. Tempesta aveva quindi dichiarato di averne parlato a Mori ma questi lo aveva del tutto escluso. Sta di fatto che nel ’93 vengono colpite la chiesa di San Giovanni al Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, poi la sede dell’Accademia dei Georgofili a Firenze dove muoiono cinque persone: Dario Capolicchio, un ragazzo di 22 anni, Fabrizio Nencioni, Angela Fiume e le loro due bambine, Nadia e Caterina rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni.
Francesco Di Carlo e l’ombra dei Servizi
Resta ancora un altro episodio da decifrare: l’incontro in carcere, in Inghilterra, del boss mafioso (poi diventato collaboratore di giustizia) Francesco Di Carlo con misteriosi uomini dei servizi segreti. Uomini degli apparati dell’intelligence che avevano chiesto a Di Carlo quale mafioso sarebbe stato in grado di realizzare attentati di prim’ordine. E Di Carlo aveva fatto il nome proprio di suo cugino: Nino Gioè. Ecco allora che i principali protagonisti di queste vicende ritornano ad essere figure decisive per ricomporre questo mosaico. A rispondere di tutto questo sarà lo stesso Francesco Di Carlo alla prossima udienza del 30 gennaio.
In foto dall'alto: Alfredo Montalto, Salvo Lima e Paolo Bellini
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