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gioe-antonino-c-blunotteSu Left l'inchiesta con le prove
di Aaron Pettinari - 27 ottobre 2013
Era la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 quando il boss di Altofonte Antonino Gioè (foto) venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollano il fatto come un suicidio. Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire. C'erano intercettazioni in cui il boss aveva parlato dell' “Attentatuni” ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa. E nella conversazione intercettata dalla Dia c'è anche un riferimento al suo “padrino”, Leoluca Bagarella. “Ma ' stu Bagarella cu cazzu si senti? Oh, lo dico per scherzare, ah” disse al telefono. Ma queste non sono prove schiaccianti sulla morte, e quei fatti non hanno mai convinto troppo. Vi fu anche un'indagine giudiziaria a carico di tre agenti penitenziari che furono indagati per istigazione al suicidio di Gioè, ma vennero prosciolti senza chiarire i dubbi. E proprio partendo dal faldone di quest'ultima indagine che i due giornalisti Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini sono partiti per pubblicare un'inchiesta sull’ultimo numero del settimanale Left.

La conclusione a cui arrivano è semplice: è impossibile che Gioé si sia impiccato. Nel faldone i giornalisti hanno rinvenuto le foto scattate in quella notte nella cella. I segni della corda sul collo non vanno verso l'alto, come sarebbe lecito aspettarsi se si fosse appeso alla grata, ma verso il basso il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno.
Anche l'autopsia fornisce diversi elementi che andrebbero chiariti. Gioè aveva la sesta e la settima costole di destra fratturate “a causa del massaggio cardiaco praticato su di esso”. Singolare che queste siano leultime due costole della gabbia toracica mentre il massaggio cardiaco si esegue ben più in altro ad altezza del plesso solare.
I due giornalisti pongono anche l'attenzione su una escoriazione in fronte a destra e una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, come se in quei punti fosse stato colpito. Senza considerare che il rachide cervicale era intatto, e ciò significa che il boss di Altofonte non è morto per la classica strattonata dell'impiccagione.
Sotto accusa di Torrealta e Lentini anche la ricostruzione dei fatti messa a verbale dagli agenti per cui Gioé si sarebbe ucciso con un rudimentale cappio fatto con i lacci delle scarpe da ginnastica, quindi si sarebbe appeso alla grata della finestra. I giornalisti sottolineano, osservando le foto, “che è impossibile che un uomo possa suicidarsi appendendosi a una grata della finestra sotto la quale è collocato un tavolo che rende impossibile che il corpo rimanga sospeso”.
Ed è su quel tavolo che erano stati rinvenuti anche tre fogli scritti a mano da Gioè. “Stasera ho ritrovato la pace e la serenità che avevo perduto 17 anni fa” aveva scritto il boss. Per gli inquirenti un semplice ultimo addio. Per gli autori dell'inchiesta di Left la possibilità di una futura collaborazione con la giustizia.
Del resto Gioè è anche uno degli uomini chiave della trattativa Stato-mafia, non solo perché a lui si era rivolto il cugino Francesco Di Carlo dopo un incontro “con agenti segreti che parlavano inglese e italiano”, ma anche per quegli incontri con Paolo Bellini, estremista di destra, depistatore, nonché esperto d'arte. Torrealta e Lentini ricordano anche come il magistrato Loris D’Ambrosio, consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sospettava che Gioè fosse stato ucciso. A Nicola Mancino, in una delle intercettazioni con l'ex Ministro, diceva: “Questa storia del suicidio di Gioè secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso... non è mica chiaro a me questa cosa”. Ai magistrati di Palermo ha poi spiegato: “A me quel suicidio non mi è mai suonato... Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis... insomma questo suicidio così strano... ecco mi... ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”. Un turbamento interiore che aveva manifestato anche al Presidente della Repubblica Napolitano nella sua lettera di dimissioni (poi respinte) in cui scriveva “vivo timore di essere stato considerato un umile scriba usato come scudo ad indicibili accordi”. Vent'anni dopo dubbi e misteri su quel suicidio tornano a galla. Ed è forse ora di fare veramente luce su questi fatti.

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