di Sandra Figliuolo - 25 maggio 2014
Considera “inaccettabile” che la commemorazione della strage di Capaci venga trasformata “da molti personaggi pubblici” in una “passerella”, ma soprattutto trova “vergognoso attribuire a Falcone pensieri e parole post mortem” e si indigna di fronte a “chi si autoproclama, come interprete autentico del suo pensiero, interferendo addirittura su delicatissimi processi in corso”.
L’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, è netto e replica, neanche troppo velatamente, alle dichiarazioni della giornalista francese Marcelle Padovani, intervistata ieri da questo quotidiano, secondo la quale ci sarebbe troppo “protagonismo tra i magistrati antimafia”.
Non solo, la corrispondente del Nouvel Observateur ha rimarcato come, a suo avviso, “Falcone non avrebbe mai firmato un’inchiesta come quella sulla trattativa tra Stato e mafia, ma sarebbe stato vicino invece alle tesi del giurista Giovanni Fiandaca, perché la trattativa è un reato inventato”.
Padovani ha conosciuto Falcone e, nel ’91, scrisse anche il libro “Cose di Cosa Nostra” con lui. Perché il suo parere non la convince?
“E’ ormai uno sport troppo diffuso e vergognoso quello di attribuire a Falcone pensieri post mortem. Lui non c’è più e non può né confermare né smentire. La mia considerazione vale per tutti quelli che l’hanno conosciuto, non soltanto per Marcelle Padovani. Mi indigno quando sento che c’è chi, senza averne alcun diritto, si autoproclama come interprete autentico del suo pensiero, in questo caso addirittura interferendo su delicatissimi processi in corso, come quello sulla trattativa tra Stato e mafia, e appoggiando candidati alla vigilia di una competizione elettorale, cosa che Falcone non ha mai fatto. Tutto ciò è inaccettabile. Il giorno della commemorazione della strage di Capaci è stato triste, perché il ricordo di quella tragedia è sempre vivo, ma anche perché vedo che, a distanza di 22 anni, per molti personaggi pubblici quel giorno è solo una ‘passerella’, come ha sottolineato anche il procuratore Alfredo Morvillo, cognato di Falcone. Bisognerebbe ricordarlo e ricordare la sua opera con interventi che mirino alla conoscenza del fenomeno mafioso per poterlo contrastare con la massima intransigenza, come è stato fatto bene a Trapani, ad esempio, durante la giornata di studi che ho organizzato tra gli altri con Libera”.
Padovani si è soffermata sulla precisione di Falcone, sul suo attaccamento maniacale alla verità dei fatti, contrapponendoli ad “ipotesi fantasmagoriche” che, secondo lei, a volte la magistratura – ed anche i giornalisti – inseguono…
“Non c’è nulla di fantasmagorico: l’inchiesta sulla trattativa è tra le più rigorose. Anche Falcone venne accusato di essere un visionario quando si mise ad indagare sui Salvo e su Ciancimino. Anche lui venne accusato di protagonismo. A quei tempi, i magistrati non scrivevano libri e Falcone e Borsellino erano tra i pochi a rilasciare interviste per sensibilizzare sul fenomeno mafioso, rischiarono anche dei procedimenti disciplinari per questo”.
Ma loro erano isolati e, allora, della mafia si sapeva ben poco: la ricerca dei media potrebbe essere giustificata. Oggi non è più così. Non ritiene dunque che si possa parlare di un “protagonismo” da parte di alcuni magistrati antimafia, di una loro sovraesposizione mediatica?
“Erano isolati tra i loro colleghi, rispetto al Csm, non rispetto alla gente. Ed anche ora accade la stessa cosa. Allora si parlava di “supplenza della magistratura” e anche oggi, se ognuno facesse la sua parte, e mi riferisco soprattutto al mondo politico, i magistrati non avrebbero bisogno di sovraesporsi”.
Tratto da: Giornale di Sicilia
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