Le definizioni, pur lodevoli, di «preti antimafia» o «di frontiera» non aiutano, perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo

 

Nelle ultime settimane abbiamo saputo di nuove minacce contro alcuni sacerdoti, da parte di ambienti mafiosi. E c’è chi, anche con intenti lodevoli, ha parlato di «preti antimafia», «preti di frontiera». Queste definizioni però non aiutano, lo dico come qualcuno che se le è viste attribuire a sua volta. Non sono d’aiuto perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo. Noi siamo sacerdoti come gli altri, coi nostri limiti, le nostre fatiche, ma anche con la gioia di spendere la vita per dare vita. Sappiamo che testimonianza cristiana e responsabilità civile devono saldarsi, per offrire un esempio coerente di servizio alle persone. La Parola di Dio è spesso scomoda, provocante, «urticante», come diceva don Milani, ma è parola di vita e speranza. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini nell’osservare che «missione della Chiesa è essere coscienza della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e spirituali».

Senza dimenticare, secondo l’insegnamento continuo di papa Francesco, che la Chiesa deve abitare la storia, non può rimanere ai margini della lotta per la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il rispetto dell’ambiente: tutti i cristiani sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Anche se, come ha detto sempre il Papa, ad alcuni «dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia». Noi sacerdoti abbiamo il compito di tradurre quella Parola in ogni contesto, dunque anche di “sporcarci le mani” nelle grandi questioni sociali. Ecco perché dico che dobbiamo rifiutare certe etichette, e l’idea che esistano delle “specializzazioni” nel nostro ruolo. Sono immagini stereotipate che non rispettano la ricchezza della missione che abbiamo scelto, quella di saldare la Terra con il Cielo. Ognuno ha la sua vocazione, nella Chiesa come nella vita.

A me fu affidata, da padre Michele Pellegrino, una parrocchia inusuale: la strada. Ma qualsiasi parrocchia ha le sue specificità e difficoltà, anzi, possiamo dire che non esista una realtà più complessa: lì accompagni la vita delle persone, dalla nascita alla morte, ti trovi ad ascoltare e consolare, a misurarti con le situazioni più delicate. Tocchi davvero con mano le preoccupazioni e il sentire della gente. Ed è per questo che ai bravi preti di alcuni territori, che ce la mettono tutta per costruire spirito di comunità e usano parole ferme rispetto al male, la mafia risponde.

Facciamo un passo indietro di una trentina d’anni: un momento cruciale. Dopo l’accorato discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, la mafia è “stizzita”. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia fa una dichiarazione che ci aiuta a capire cosa accadrà di lì a poco: «Gli uomini d’onore mandano a dire ai sacerdoti di non interferire». Ecco la parola chiave, «interferire». I boss si sentono toccati e destabilizzati dall’autorevolezza del Papa, dalle sue parole cristalline contro il crimine. Così il 27 luglio 1993 due attentati con esplosivo colpiranno San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, a Roma. È una risposta alle “interferenze”. Altre più tragiche verranno: gli omicidi di don Puglisi e don Diana.

A trent’anni di distanza da quei fatti, e di fronte e nuove minacce più o meno esplicite, non possiamo voltarci dall’altra parte. Vogliamo che la gente veda che viviamo il Vangelo senza compromessi, senza timidezze, senza paura. Per questo i sacerdoti minacciati non vanno lasciati soli. Devono sentire che la comunità cristiana cammina compatta insieme a loro. In questa come in altre circostanze, dobbiamo ribadire che c’è una totale convergenza tra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune.

È ovvio che siamo contro l’illegalità, la corruzione, le mafie, ma il nostro impegno dev’essere soprattutto “per”.

Siamo chiamati a costruire quelle opportunità in positivo che sono la prima forma di prevenzione del malaffare: educazione, diritti, giustizia. Percorsi che diano libertà, dignità e speranza alle persone. Tanti vorrebbero che ci limitassimo a predicare e “curare la salute delle anime”. Ma noi abbiamo il dovere di pensare al benessere dei nostri fratelli e sorelle già qui sulla terra, di curare la salute dei rapporti sociali e aprire delle brecce persino dove sembra impensabile. Il nostro obiettivo è collaborare per la conversione anche di chi ha commesso dei reati terribili. Non dobbiamo demordere, bisogna sempre sperare che sia possibile!

Oggi vediamo minacciati sacerdoti giovani che vanno a ogni costo incoraggiati. È normale che attraversino questo momento di prova con smarrimento, e chi ha più anni, con grande umiltà e rispetto, li deve sostenere. A volte bastano piccoli segni di affetto per restituire fiducia. E molto conta l’esempio. Noi con loro, dobbiamo sempre più vivere il Vangelo nella sua essenzialità spirituale, nella sua intransigenza etica e anche nel suo intrinseco significato politico. Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile. Facciamo qualche bella “telefonata” al Padreterno – non si paga neanche la bolletta – perché ci dia una spinta per andare avanti, e la dia soprattutto ai quei sacerdoti e a quei laici impegnati nei territori più difficili. La luce del Signore possa illuminare il loro cammino e schiarire le menti di chi è loro ostile.

Tratto da: chiesadimilano.it

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