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Il sostituto procuratore nazionale antimafia a 'Piazzapulita' presenta "Il colpo di spugna", scritto con Saverio Lodato

“Le sentenze della magistratura devono essere sempre rispettate, ma possono essere criticate. Anche quelle della Cassazione, che non possiedono il crisma dell'infallibilità”. E' questo il concetto che ieri sera il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo ha ribadito con forza, intervistato da Luca Formigli per la trasmissione “Piazzapulita”.
L'ex membro del Csm, pm di punta del pool impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, ha così parlato del nuovo libro-intervista, (“Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia il processo che non si doveva fare”, edito da Fuoriscena-Libri Rcs) scritto con il giornalista Saverio Lodato. “Il vaglio critico – ha detto rispondendo al conduttore Formigli - deve essere tanto più intenso quando, come in questo caso, la Cassazione, con poche, pochissime pagine di motivazione, entra pesantemente nel fatto, nella valutazione del fatto e disattende quelle che erano state le conclusioni sancite complessivamente in 10.000 pagine di motivazioni dei giudici di primo e di secondo grado”.
Nell'aprile dello scorso anno la Suprema Corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni modificando la formula da “il fatto non costituisce reato” a “non aver commesso il fatto”. Ugualmente i giudici giudicavano Marcello Dell'Utri non colpevole "per non aver commesso il fatto", mentre i soliti boss mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, venivano 'salvati' dalla prescrizione.


Ciò che non si vuole considerare

Nelle motivazioni della sentenza, inoltre, tra virtuosismi giudiziari e mirabolanti tecnicismi venivano fatte scomparire verità incontestabili.
Nell'analisi Di Matteo ha ricordato i riferimenti delle prime due sentenze in cui i giudici “mai avevano messo in discussione che si erano verificati determinati fatti”. In particolare sono tre quelli indicati dal pm: “Un dialogo a distanza tra una parte delle istituzioni e la parte cosiddetta moderata di Cosa Nostra. Nelle sentenze c'era scritto che questo dialogo costituiva un'alleanza con un nemico, Provenzano, per sconfiggerne un altro ritenuto più pericoloso, Riina. Nelle sentenze, perfino in quella assolutoria degli ufficiali dei Carabinieri, c'era scritto che la mancata perquisizione del covo di Riina era stato un segnale di distensione verso l'ala trattativista di Cosa Nostra. Nelle sentenze c'era scritto che Provenzano era stato protetto a lungo nella sua latitanza da esponenti delle istituzioni”.


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Un punto nodale della sentenza di Cassazione è proprio la derubricazione del reato contestato da “minaccia a corpo politico dello Stato” a “tentata minaccia”. Così facendo i Supremi giudici sostengono che la minaccia non fu percepita dalle istituzioni. Ma la realtà è ben diversa.
“La minaccia è un reato di pericolo - ha ribadito Di Matteo - Non è necessario che si verifichi l'evento che i minaccianti vogliono che si verifichi, è sufficiente che il governo e le istituzioni abbiano percepito quella minaccia. Come fa a dire la Cassazione, ma lo dice, che questo non è avvenuto?”.
Di Matteo ha ricordato, così come fa nel libro, la testimonianza del Presidente della Repubblica Napolitano all'udienza del 28 ottobre 2014. Napolitano, che all'epoca delle stragi era Presidente della Camera dei Deputati, affermò davanti ai giudici che “tutti i vertici delle istituzioni sapevano" e avevano "perfettamente chiaro il fatto che le bombe, quelle del 1993, erano il frutto di un ricatto mafioso, di un 'out-out', nei confronti dello Stato, per alleggerire per esempio il carcere duro".
Alla domanda se, dopo la sentenza, si senta o meno di aver “sprecato il proprio tempo” con il processo, il magistrato ha comunque ribadito di aver sempre fatto, assieme ai suoi colleghi, il proprio dovere "con la consapevolezza di avere comunque fatto emergere dei fatti storici che il Paese deve conoscere" e che "la sentenza della Cassazione non riuscirà ad eliminare nella loro oggettiva esistenza".


"Con le riforme attuali Falcone e Borsellino sottoposti a procedimento disciplinare"

Ovviamente durante la trasmissione si sono toccati anche altri temi, come le continue riforme in tema di giustizia che negli ultimi anni ha visto all'opera l'ex guardasigilli Marta Cartabia ed oggi, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Di Matteo ha ricordato quando, da membro togato del Csm, assieme all'oggi procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, furono tra i pochi ad avanzare critiche rispetto alla riforma della Cartabia che ha di fatto imbavagliato i magistrati, impedendogli di parlare di fatti non più coperti da segreto. Persino ai Procuratori capo vengono ridotte le possibilità di intervento in quanto “possono parlare soltanto a determinate condizioni, per ragioni eccezionali, e attraverso conferenze stampa o comunicati stampa”.
Ma se da una parte si sono manifestate tante ristrettezze, dall'altra si è lasciato campo libero ad "avvocati, imputati, indagati e parenti degli imputati".
Una rottura epocale rispetto al passato. Basti pensare che, come ha ricordato Di Matteo, quando "il pool di Palermo iniziò a istruire il Maxi Processo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino iniziarono le loro esternazioni pubbliche, le loro interviste, le loro conferenze per spiegare che cosa veniva fuori dalle dichiarazioni di Buscetta sugli assetti di Cosa Nostra". Ad oggi questo non sarebbe più consentito, anzi: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone "sarebbero stati sottoposti a procedimento disciplinare", ha detto Di Matteo.


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L'esempio di Pippo Fava contro il bavaglio alla stampa

Nel corso della puntata di Piazzapulita un pensiero è stato dedicato al giornalista Giuseppe Fava, di cui quest'anno ricorre il quarantennale della sua morte. Anche Di Matteo, con emozione, ha voluto esprimere alcune parole: “Io ero un giovane studente universitario di giurisprudenza e ho iniziato ad alimentare la mia passione per l'antimafia, per la magistratura, il mio sogno di diventare magistrato, anche leggendo quella splendida rivista, il mensile di Siciliani, che Giuseppe Fava dirigeva. Ricordo le sue inchieste giornalistiche, quella sui cavalieri del lavoro di Catania e quella sui rapporti tra la mafia dei Corleonesi e pezzi importanti della DC siciliana, quella dei rapporti di contiguità tra una parte della magistratura e la mafia. Era un giornalismo di inchiesta che anticipava le inchieste della magistratura”. Proprio guardando a quell'esempio, secondo Di Matteo, “oggi questo Paese ha un disperato bisogno di questo giornalismo di inchiesta, di questo tipo di giornalismo. Quindi quando sento, vedo, leggo di limitazioni, bavagli, limitazioni al diritto di informazione sono molto preoccupato da tutti i punti di vista”.
Sul punto Formigli ha ricordato come spesso “si parli di tutele necessarie per le garanzie di chi è indagato, ma è innocente fino a prova contraria, e che quindi non deve essere messo dentro il ventilatore delle illazioni, delle supposizioni, dei sospetti senza una sentenza”.
Andando in questa direzione, però, c'è il rischio, secondo Di Matteo, che si “spacci per garantismo quello che è invece uno scopo di protezione dei potenti”. “Sono sacrosante le garanzie difensive di ogni indagato e di ogni imputato - ha ribadito il sostituto procuratore nazionale antimafia - si devono esplicare all'interno del processo. La nostra procedura, sia nella fase delle indagini, sia nella fase cautelare, sia nella fase delle impugnazioni delle ordinanze cautelari, sia nella fase del dibattimento consente la piena esplicazione del diritto di difesa. Nascondere, però, certi fatti, non più coperti da segreto, che hanno un oggettivo interesse pubblico, penso alla frequentazione di un criminale da parte di un politico, o penso ad aspetti che potrebbero anche non essere penalmente rilevanti, io credo che significhi privare comunque il cittadino del diritto e dovere di controllare l'attività di chi lo governa, di chi gestisce il potere. Io penso che chi ricopre certi ruoli debba essere pronto alla piena trasparenza della sua vita pubblica”.


La visione di insieme delle riforme

Per inquadrare correttamente il processo di riforme che si stanno mettendo in atto, secondo il magistrato palermitano va analizzato tutto in maniera complessiva e non in maniera singola. Allargando l'orizzonte è possibile constatare un fatto anche inquietante. “Leggendo alcuni stralci, alcune parti di quel piano di rinascita democratica (di Licio Gelli, ndr), si leggono le stesse cose di quelle che oggi formano oggetto di discussione" in tema di riforma.


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"Il complesso di queste riforme - ha proseguito Di Matteo - disegna una giustizia con delle caratteristiche particolari: intanto disegna uno scudo di protezione per i potenti, una giustizia a due velocità, timida e con le armi spuntate nei confronti delle manifestazioni criminali tipiche dei colletti bianchi e dei potenti e un diritto penale forse eccessivamente anche dilatato e forse eccessivamente anche rigoroso nei confronti delle manifestazioni che sono tipiche del dissenso sociale e politico o anche delle manifestazioni criminali tipiche degli ultimi della società”. “Questo mi preoccupa - ha sottolineato - perché è come se venisse sempre meno il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. E come se si dovesse consacrare una situazione per cui il potente, il potere costituito deve essere preservato, da una parte attraverso la limitazione dei poteri di indagine della magistratura e dall'altra parte attraverso il nascondimento dei fatti, benché non più coperti da segreto, attraverso il bavaglio alla stampa, attraverso il divieto di pubblicare".


"Abbiamo combattuto la politica del collateralismo"

Un altro degli argomenti presentati da Corrado Formigli ha riguardato le esternazioni del vice presidente del consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli, di cui abbiamo già scritto in un precedente articolo Di Matteo è tornato a ribadire di non condividere la "politica dei salotti" e del "collateralismo con il potere attraverso le correnti, attraverso le cordate, attraverso le scelte anche dei procuratori o dei presidenti".


Il caso di Ilaria Salis

Il sostituto procuratore nazionale antimafia, infine, si è anche espresso  sul caso dell’insegnate milanese Ilaria Salis, detenuta in modo indegno in Ungheria, portata in aula legata con le catene, accusata di aver causato lesioni a dei militanti di estrema destra.


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Certamente il grado di civiltà di un popolo e l'evoluzione di un sistema giuridico si misura in base a come tratta i detenuti. Di Matteo, sul punto, ha voluto ricordare cosa è accaduto "nel sistema giudiziario ungherese, soprattutto con riferimento alla magistratura: dal 2011 in poi abbiamo assistito prima ad una improvvisa epurazione di decine e decine, forse centinaia, di magistrati. Dall'oggi al domani venne approvata una legge che portò a 62 anni il limite massimo di età, che prima era a 70 anni, e dall'oggi al domani centinaia di magistrati si ritrovarono a dover abbandonare la loro toga. Poi c'è stata una riforma importante del Consiglio giudiziario nazionale, che è l'equivalente del nostro Consiglio superiore della magistratura, i cui poteri sono stati molto limitati. E poi c'è stata una sorta di gerarchizzazione assoluta all'interno della magistratura per cui i giudici di rango inferiore devono sostanzialmente sempre seguire l'interpretazione di una norma dei giudici di rango superiore. Quindi gerarchizzazione, verticalizzazione, limitazione dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Ecco, io credo che poi forse certe scene che abbiamo visto possono essere anche figlie di una cultura giudiziaria che va verso un riavvicinamento del potere magistratuale con il potere politico, un asservimento della magistratura al potere politico".

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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