Dal libro di Luca Tescaroli all'allarme della scorsa Commissione parlamentare antimafia

Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 06-11-2023.

“Senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il 'pentito', il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo. Se è questo che si vuole e se si ritiene che, di fronte ad una criminalità organizzata dilagante e sempre più minacciosa, lo strumento del pentitismo non rappresenti un utile mezzo di indagini istruttorie, occorre che lo si dica chiaramente affinché, per lo meno, non si ingenerino illusioni o aspettative in coloro che, sia pure per mero tornaconto personale, avevano ritenuto ingenuamente che il loro contributo all’accertamento di gravissimi crimini sarebbe stato apprezzato, prima o poi, dal Paese”.
Le parole pronunciate da Giovanni Falcone nell’aprile 1986 a Courmayeur, al Convegno “La legislazione premiale”, sono più che mai attuali se si guarda allo stato attuale delle leggi sui collaboratori ed i testimoni di giustizia.
Quelle parole in qualche maniera lasciavano una traccia da seguire. La morte del giudice Rosario Livatino, avvenuta il 21 settembre 1990, creò i presupposti per far approvare, nel gennaio 1991, la prima normativa organica in materia di protezione e assistenza dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. “Una regolamentazione che - così come scrive il Procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, che ha scritto anche un libro sull'argomento (“Pentiti - Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia” ed. Rubettino) - ha dato dignità giuridica all'istituto, prevedendo uno "speciale programma di protezione" per proteggere e assistere economicamente chi collabora e i loro familiari. Al fine di consentire a costoro il reinserimento sociale e la possibilità di intraprendere una nuova vita, iniziando anche un'attività lavorativa, è stata prevista la possibilità, su richiesta degli interessati, di cambiare le generalità, garantendo la necessaria riservatezza”.

Le riforme sui pentiti
A trentuno anni dalle stragi, però, si sta tornando pericolosamente indietro.
E' oggi evidente come anche questo importantissimo istituto sia stato nel tempo svilito nella sua essenza ed oggettivamente depotenziato da quelle stesse Istituzioni che dovrebbero incentivarlo.
Un tema che proprio Tescaroli affronta con estrema chiarezza così come la scorsa Commissione parlamentare antimafia con la relazione condotta dal X Comitato, che vedeva relatrice Piera Aiello, anch'essa testimone di giustizia.
Senza il contributo dei collaboratori di giustizia oggi non sapremmo molte cose di Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra. Sapremmo poco o nulla sulle stragi ed i delitti commessi, sugli affari, gli interessi ed i rapporti con politica ed economia.
Senza il contributo di nuovi collaboratori di giustizia non potremmo comprendere fino in fondo le trasformazioni di un sistema criminale che è sempre più evoluto.
La riforma della legge sui pentiti era un chiodo fisso per Totò Riina al punto da essere inserita, assieme all'abolizione dell'ergastolo e del 41 bis, tra i primi obiettivi del “papello, l'elenco di richieste che Cosa Nostra aveva presentato per porre fine alle stragi degli anni Novanta.
Ho avuto modo di incontrare più volte il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, ex membro della Cupola, deceduto il 14 gennaio del 2011, nonché il primo ad accusare Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri di avere contatti diretti con i vertici di Cosa Nostra.
Tra le sue dichiarazioni, poi confluite nel libro intervista “Riina mi fece i nomi di...” (pubblicato da Massari Editore), vi erano proprio le parole del boss corleonese che su quel particolare punto era disposto al tutto per tutto. “Io mi gioco pure i denti - diceva Riina - Dobbiamo cominciare dai bambini di 6 anni, basta che sono parenti e sono pentiti li dobbiamo ammazzare, fino al ventesimo grado di parentela li dobbiamo ammazzare”.
Questa “guerra” dichiarata contro i collaboratori di giustizia si è concretizzata, soprattutto nella prima fase, con rapimenti, omicidi, attentati e così via.
Vale la pena ricordare le vendette “multiple” dei boss. Quando non sono stati colpiti direttamente i collaboratori sono stati letteralmente falcidiati i parenti. Esempi sono i casi di Francesco Marino Mannoia, di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, il rapimento e l'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Mario Santo, l'uccisione, mediante simulazione di suicidio, del padre di Gioacchino La Barbera.
Poi c'è stato il tempo della campagna di delegittimazione da parte della politica. Da Buscetta a Cancemi, fino a Brusca, Spatuzza, e tanti altri ex appartenenti a Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra, ogni volta che venivano fatti nomi eccellenti subito si puntava il dito contro il pentito di turno. Così si è intervenuti sulla normativa.
Particolarmente stringente la norma approvata nel 2001. Nello specifico, furono previsti più rigorosi accertamenti per l’ammissione al sistema di speciale protezione e per la concessione di attenuanti e benefici penitenziari. Al fine soprattutto di indurre il collaboratore a riferire prontamente tutte le informazioni in suo possesso, si è stabilito un termine massimo di 180 giorni decorrenti dalla dichiarazione di volontà di collaborare (che non si applica invece ai testimoni di giustizia).
Tescaroli, nel suo libro, affronta tutti questi temi senza nascondere anche i rischi che possono celarsi comunque dietro ad una collaborazione con la giustizia.
Nel corso della storia non sono mancati i falsi pentiti, ma così come diceva Giovanni Falcone, questo non può essere un motivo per cui lo Stato debba rinunciare a uno strumento che è ancora oggi fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata.
Falcone sottolineava che “[...] lo strumento del pentitismo, sia pure tra luci ed ombre, ha fornito finalmente una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà, finora ritenuto impenetrabile [...] Si sostiene talora che lo Stato, attraverso le dichiarazioni dei 'pentiti', viene strumentalizzato da costoro per la consumazione di sottili vendette personali, ma si dimentica che uno degli specifici compiti statuali è quello di sostituire alla vendetta la giustizia, impedendo che i cittadini ricorrano alla violenza. Inoltre, il fatto che, per la prima volta, autorevoli membri di organizzazioni criminali, che hanno sempre ritenuto disonorevole il ricorso all’autorità statuale, abbiano deciso di affidare allo Stato, implicitamente riconoscendone l’autorità, l’appagamento della loro sete di vendetta, lungi dal far gridare allo scandalo, dovrebbe far ritenere positivo questo fenomeno quale chiara espressione del declinare della tradizionale omertà [...]”.
E sempre lo stesso Falcone, parlando delle dichiarazioni rese da Buscetta nel cosiddetto maxiprocesso, descriveva in maniera chiara la fondamentale importanza del contributo dei pentiti nei processi di mafia: “[...] Prima di lui, non avevamo che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno mafioso. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice [...]”. Falcone, sottolinea Tescaroli nella sua pubblicazione, era consapevole dell’importanza delle questioni al centro del dibattito sui 'collaboratori'. Aveva fornito uno “specifico metodo investigativo, conoscitivo e valutativo” per la ricerca dei riscontri ed affrontare i temi “dell’attendibilità e della genuinità delle  dichiarazioni dei collaboratori di giustizia”.
Ma interveniva anche sull'attuazione delle misure di protezione, che “avrebbe dovuto essere affidata a organi diversi da quelli investigativi e, ove possibile, a uno specifico e autonomo organismo, sul modello di quelli esistenti in altri Paesi. E ciò per evitare una commistione di ruoli e l’insorgere di pericoli per la genuinità delle acquisizioni probatorie. Il sistema normativo di favore e di tutela avrebbe dovuto, cioè, realizzarsi avendo cura di evitare margini di arbitrio che, attraverso lo strumento della concessione o del diniego della protezione, potessero influire sui meccanismi di acquisizione delle prove”.


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Nuove criticità
Oggi però proprio il sistema di protezione e di tutela presenta delle criticità gravissime che potrebbero seriamente comprometterne la tenuta e disincentivare i boss ad intraprendere questo percorso di rottura con l'organizzazione criminale.
Nella relazione della Commissione antimafia, che ha avuto modo di sentire le doglianze di oltre sessanta tra collaboratori e testimoni di giustizia, senza mezzi termini si parla di “inadeguatezza del Servizio centrale di protezione”.
Le criticità sono varie: “Deficit informativo circa i diritti e doveri connessi con l’assunzione del status di collaboratore o testimone di giustizia; sistemazioni logistiche carenti e utilizzo di immobili già destinati a famiglie di soggetti sottoposti a misure di protezione con conseguenti pericoli per la sicurezza; inadeguatezza delle misure poste a tutela dell’incolumità sia in località protetta che in quella di origine; condizione di isolamento e mancanza di punti di riferimento; insufficienza e più in generale inadeguatezza del sistema delle misure adottate per il sostegno economico e il reinserimento lavorativo; lungaggini burocratiche e talvolta assenza totale di risposta da parte dell’apparato tutorio per risolvere le più svariate esigenze; difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e all’accesso alla misura del cambio di generalità”.
Proprio quest'ultimo punto è uno degli argomenti che Tescaroli ha più volte affrontato in maniera diretta. Al fine di consentirne il reinserimento sociale e di sottrarre loro ed i familiari a rappresaglie spesso sanguinose, ai collaboratori di giustizia vengono attribuite nuove generalità. Ma su tali generalità vengono poi trasferite le risultanze del casellario giudiziario e del centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell'Interno.
“I trasferimenti di tali dati alle nuove generalità – scrive il procuratore aggiunto fiorentino - in concreto, impediscono l'attuazione dell'obiettivo del reinserimento sociale del collaboratore, dal momento che ogni datore di lavoro, per procedere all'assunzione di propri dipendenti, richiede il certificato del casellario giudiziario. Si è verificato, infatti, che più collaboratori, in stato di libertà, dopo aver espiato le condanne loro inflitte, hanno dovuto rinunciare a lavorare proprio per impedire che chi aveva dimostrato disponibilità o che li aveva assunti venisse a conoscenza dei suoi precedenti. Conoscere le imprese criminali compiute significa disvelare la loro vera identità e far rivivere il loro passato, vanificando lo scopo del cambio delle generalità, esponendo a pericolo il collaboratore di giustizia e i suoi familiari”.
“Vi sono mafiosi, anche detenuti – prosegue ancora il magistrato - che continuano a coltivare i propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni. Occorre chiedersi, poi, quale imprenditore o pubblica amministrazione assumerebbe ex stragisti, assassini, estortori, rapitori, mafiosi o terroristi alle proprie dipendenze, pur sapendo che hanno collaborato ed espiato il loro debito con la giustizia”.
Non solo. Parimenti “l'attuale normativa non assicura l'anonimato se un collaboratore viene fermato per strada e sottoposto a un normale controllo di polizia, come è già avvenuto. La verifica routinaria compiuta attraverso la consultazione della banca dati, tenuta presso il Ministero dell'Interno (sdi), fa emergere la sequela dei precedenti. Si pensi a cosa può accadere se un carabiniere si trova di fronte a un soggetto, che risulta aver commesso stragi, omicidi, estorsioni, che passeggia con persone e conoscenti ignare del suo passato: arrivo di pattuglie, trasferimento del collaboratore in ufficio di polizia per approfondire la situazione, disorientamento delle persone che si trovano in sua compagnia, compromissione della sua copertura, ecc...”.
Episodi simili sono stati raccontati da diversi collaboratori di giustizia.

La testimonianza di Barreca
Recentemente Filippo Barreca, uno dei primi collaboratori di giustizia della storia della 'Ndrangheta, è tornato a farsi sentire sul punto. “La modifica della legge 82/91 e l'introduzione del decreto 161/2004 hanno gettato una lunga ombra sulle vite dei collaboratori di giustizia – ci ha personalmente raccontato - Nel 1995, ho subito un cambio di generalità che mi ha permesso di intraprendere un'attività imprenditoriale nel settore delle costruzioni. Ho ricevuto un finanziamento significativo. Ma nel 2009, il Ministero dell'Interno ha cambiato il mio status imprenditoriale e ha divulgato il mio vero nome, causando il blocco dei miei lavori”. “Questa situazione – ha proseguito - è stata devastante per me e la mia famiglia. La pubblicazione del mio vero nome ha compromesso la nostra sicurezza e bloccato i nostri progetti imprenditoriali. Ho dovuto affrontare numerose sfide e ostacoli a causa di questa divulgazione. Lo Stato deve innanzitutto rivedere la legislazione relativa ai collaboratori di giustizia per garantire una maggiore protezione. Dovrebbe anche fornire un adeguato sostegno a coloro che rischiano la propria vita per aiutare a debellare la criminalità organizzata”.
Secondo Tescaroli andrebbe aperta una riflessione “per valutare l'opportunità di un intervento proiettato a evitare i travasi informativi in questione, rivalutando gli interessi che interagiscono sul punto, allo scopo di offrire una effettiva nuova identità, che recida definitivamente i ponti con il passato, per chi ha deciso di cambiare vita e ha concretamente fornito un apporto collaborativo, pagando molto spesso un caro prezzo in termini di uccisione dei propri familiari”.

Se la nuova misura sull'ergastolo ostativo incide sul pentitismo
Un altro colpo all'istituto dei collaboratori di giustizia è stato dato anche recentemente dopo il  pronunciamento della Consulta sull'ergastolo ostativo che in qualche maniera aveva “aperto” ai riconoscimenti premiali per i condannati per mafia che non collaborano con la giustizia.
Lo scorso anno, con il decreto legge n.162, del 31 ottobre 2022, convertito in legge il 30 dicembre dello stesso anno, il Governo Meloni ha comunque fissato dei paletti evitando il cosiddetto “liberi tutti”, ma comunque si è aperto un nuovo squarcio. Il che rappresenta comunque un problema.
Tescaroli nel libro porta l'esempio recente di Antonio Gallea, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, ammesso al regime di semilibertà, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione (Stidda). “Del resto – scrive il magistrato - se il condannato non collabora potrebbe sempre essere chiamato a contribuire alla vita dell’organizzazione e, in caso di non adesione, verrebbe certamente ucciso, un’alternativa eticamente non accettabile. Da ultimo, va evidenziato che mentre per il collaboratore di giustizia è previsto l’obbligo di specificare dettagliatamente tutti i beni posseduti o controllati, per gli irriducibili non è previsto un analogo dovere, ma solo quello di far fronte agli obblighi risarcitori e riparatori a favore delle vittime”.
Così è lampante come collaborare con la giustizia non sia più conveniente neanche in termini economici e, così come evidenziato da più addetti ai lavori, si avrà “un effetto deflattivo sulle collaborazioni di livello con la giustizia degli uomini di onore”.

Il pentimento di Galatolo e l'attentato a Nino Di Matteo
Non ci stancheremo mai di ripetere l'importanza che hanno i pentiti nella lotta alla mafia.
Grazie ad essi sono stati svelati non solo fatti e misfatti compiuti, ma anche quelli da compiere.
Un esempio chiaro è il contributo offerto dall'ex boss dell'Acquasanta Vito Galatolo. La sua collaborazione con la giustizia, iniziata nel 2014, svelò l'esistenza di un progetto di attentato nei confronti dell'allora pm della Procura di Palermo (oggi sostituto procuratore nazionale antimafia) Nino Di Matteo.
“Per togliersi un peso dalla coscienza”, Vito Galatolo, figlio del boss Vincenzo - tra i mandanti dell'uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo, nonché fedelissimo dei Madonia (clan in stretti rapporti con i servizi segreti) – aveva chiesto di parlare proprio con il magistrato palermitano.
Quell'ordine di morte giunto alle famiglie palermitane venne impartito nel 2012, con una missiva, da Matteo Messina Denaro in persona, con l’interesse di “entità esterne a Cosa Nostra”, perché il pm “si era spinto troppo oltre”, a cui si aggiunsero poi le parole dette in carcere anche da Totò Riina.
Non solo. Disse anche che i mandanti erano “gli stessi mandanti di Borsellino”.
Testimoniando in più processi Galatolo ha sempre spiegato che per quell'attentato erano stati acquistati 200 kg di tritolo, che almeno una parte era stato acquistato dalla Calabria e che Messina Denaro mise a disposizione un suo artificiere dicendo che “facendo quell’attentato non ci dovevamo preoccupare perché questa volta saremmo stati coperti”.
Quando fu sentito durante il processo Stato-mafia aveva spiegato che sarebbe stato Messina Denaro a mettere a disposizione un artificiere: “Avevamo l'ordine che non dovevamo presentarci con questa persona. Questo ci stupiva, il fatto che non dovevamo sapere chi era questo uomo di Messina Denaro. Noi capimmo che era esterna a Cosa Nostra e che poteva essere qualcuno dello Stato che era interessato a fare questa strage. Secondo noi non era una cosa solo di Messina Denaro, c’era qualcuno al di fuori di Cosa Nostra. E questo serviva a far capire a tutti che la mafia era ancora viva”.
La Procura di Caltanissetta, nella richiesta di archiviazione indagini, pur non trovando il tritolo, confermò che quel progetto di attentato  è “certamente operativo per gli uomini di Cosa Nostra”.
Ad oggi, per fortuna, quel progetto di attentato non è stato ancora eseguito ed è assolutamente plausibile pensare che proprio l'intervento del collaboratore di giustizia ha posto un freno, fornendo tutti i dettagli sugli altri boss che erano stato coinvolti, a cominciare dal boss di Resuttana Vincenzo Graziano che quando fu arrestato nel dicembre 2014 si sarebbe fatto sfuggire la seguente frase: "L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti". Insomma senza l'intervento del pentito, oggi, vi sarebbe stata un'altra strage di Stato.


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Lo Stato-mafia che sorride
“Senza i collaboratori - sottolinea giustamente Tescaroli - il cancro della mafia non può essere estirpato o contenuto. Questo è il motivo che indusse Falcone a farsi pubblicamente promotore di proposte per una disciplina della materia in grado di delineare un sistema di regole più selettive e rigorose per accedere alla protezione e ai benefici premiali. Benefici che devono essere in grado di incentivare la collaborazione, attraverso la possibilità di sconti di pena fuori dal circuito carcerario e di misure di protezione e di assistenza anche economica”.
Falcone, in un’intervista rilasciata, nel 1990, a Michele Santoro nel corso di una puntata di Samarcanda, evidenziava l'efficienza del programma di protezione dei testimoni degli Stati Uniti d'America.
Istituito nel 1971, il programma WITSEC, è stato sicuramente pionieristico sulle garanzie e la protezione dei testimoni che entrano volontariamente nel programma.
Nel corso della storia degli Usa il programma speciale portò decine di pentiti a svelare tutto durante gli anni novanta, causando l'incarcerazione e la condanna di centinaia di mafiosi, tra cui John Gotti, boss della storica famiglia dei Gambino.
Decisive nel caso Gotti, precedentemente assolto, furono le dichiarazioni di Sammy “The Bull” Gravano, non un killeraccio ma il suo ex braccio destro nonché uomo designato alla sua successione.
Anche se non era il primo uomo d'onore a confessare contro i suoi compagni, un mafioso così potente come lui che accettava di rompere il giuramento costituì un precedente fondamentale nella lotta alla mafia negli Usa.
Per capire l'importanza della figura basta immaginare cosa sarebbe avvenuto in Italia se si fosse pentito Bernardo Provenzano.
Gravano diede importantissime informazioni non solo contro Gotti, ma contro l'intero sistema.
In cambio lo Stato Americano non riconobbe solo una riduzione di pena, ma l'immunità per i procedimenti giudiziari aperti sui crimini compiuti fino a quel momento.
Negli Stati Uniti i pentiti vengono valorizzati e protetti durante tutta la durata del processo e in prigione.
Quando escono di prigione, i testimoni ricevono una nuova identità e un nuovo alloggio, ma anche un percorso professionale e una storia medica reinventati. Possono scegliere tra più luoghi dove poter vivere e se non si trova un luogo appropriato, vengono trasferiti all'estero. Viene dato loro un nuovo passaporto e viene garantita la protezione dell'U.S. Marshals. Non solo. All'inizio, le autorità garantiscono loro anche un apporto finanziario e li aiutano a trovare un impiego e viene fornito anche un supporto psicologico (in Italia, seppur previsto, non è adeguato). Non è facile, infatti, tagliare completamente i ponti con il passato, ma il sistema prevede, in caso di recidiva nel compiere delitti, una risposta ferma e immediata.
Tuttavia, anche in quel caso, se si commette il delitto, non viene rivelata l'identità del collaboratore.
Il procedimento viene aperto con il nome di copertura.
Cosa accadrebbe se misure simili fossero adottate anche nel nostro Paese?
Alla luce dei fatti come potranno scegliere di collaborare con la giustizia boss come Giuseppe o Filippo Graviano, o altri boss che furono vicini ai vari Riina, Provenzano o Matteo Messina Denaro se non vi è una vera protezione e non vengono garantiti determinati diritti?
I sistemi di potere criminale ai quali aderiscono istituzioni deviate dello Stato (lo Stato-mafia) sanno perfettamente che una delle armi più importanti per abbattere la mafia, ed il potere ad essa alleato, sono proprio i collaboratori di giustizia.
L'aver svilito questo straordinario strumento di lotta al sistema criminale è un chiaro segno che quella trattativa avviata negli anni delle stragi, seppur lentamente, sta andando in porto. Tutto senza bisogno di ammazzare i pentiti.
La morte di Messina Denaro ha rilanciato il mantra della “mafia sconfitta” mentre i numeri raccontano di organizzazioni criminali capaci di guadagnare miliardi, in particolare grazie al traffico di stupefacenti di cui la 'Ndrangheta detiene il monopolio.
Così è in atto un gioco al ribasso nella lotta alla mafia, che nessun governo (neanche quello a targa Cinquestelle) ha mai voluto inserire ai primi posti del proprio programma politico, nei fatti ricalca proprio i desiderata dei boss scritti nel famigerato "papello" di Totò Riina.
“La mafia ha vinto” aveva affermato con disarmante precisione Tommaso Buscetta, nell'intervista storica rilasciata nel 1999 a Saverio Lodato.
Cosa Nostra avrà anche pagato un prezzo, "ma in cambio sta ottenendo una grande contropartita", disse 'Don Masino, “la possibile eliminazione dell'ergastolo ostativo, alcune modifiche del Codice, la discussione sull'articolo 41-bis, il cosiddetto 'carcere duro', il discredito dei collaboratori di giustizia”. E poi ancora aggiungeva: “Prevedevo - e ora non mi meraviglio per nulla - le reazioni isteriche di un mondo colluso e complice, o, bene che vada pavido e incoerente. Anche questa è la forza di Cosa Nostra. Vorrei che il tempo mi desse torto, ma mi sta dando ragione”.
Come dargli torto. Tutto si sta avverando. Mentre la Commissione parlamentare antimafia cerca di riscrivere la storia delle stragi, la legge sui collaboratori di giustizia viene uccisa dallo Stato-Mafia. L'ennesimo atto posto in essere affinché sulla ricerca della verità su delitti di Stato e mandanti esterni venga posta una pietra tombale.
Se così sarà, se si continueranno a colpire i collaboratori di giustizia, come è stato abbondantemente ricostruito, si dovrà avere il coraggio di dire che la guerra contro la mafia non sarà solo stagnante o difficile. Ma sarà persa.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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