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No, non era solo Gianfranco Micciché (non indagato) a rifornirsi di cocaina, per altro con l'auto blu, dallo chef di Villa Zito, Mario Di Ferro. Dalle indagini emergono altri nomi che bazzicavano la celebre località. Tra questi un noto imprenditore: Mario Fecarotta. È "ricomparso" - come ha ricordato Salvo Palazzolo su Repubblica - dopo che nel 2020 venne arrestato in un’inchiesta che portò in carcere anche Giuseppe Salvatore, rampollo di Totò Riina. A condurre l'inchiesta fu l'allora sostituto procuratore Maurizio de Lucia, oggi a capo della Procura di Palermo, che assieme alla squadra mobile condusse un'inchiesta sugli appalti del porto di Palermo. "Non sapevo che un subappalto fosse finito a un’impresa del figlio di Riina. I miei riferimenti erano persone rispettabili", era solito ribadire l'imprenditore. Parole che non gli impedirono di essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Tornando alla recente inchiesta che ha posto i riflettori sul giro di "clienti" della coca a Palermo, la sera del 20 gennaio lo chef Di Ferro invitò Fecarotta alla Villa per stare assieme. "Siamo qua - diceva -, c'è Gianfranco (Miccichè, ndr)". L'ex senatore di FI nonché delfino di Marcello Dell'Utri in Sicilia, è amico di vecchia data di Fecarotta.
Dalle indagini, però, sta emergendo un quadro ancora più preoccupante di una semplice amicizia storica. Ed è la provenienza della cocaina che riforniva lo chef.

Odore di Cosa nostra
Che la droga a Palermo, e non solo, fosse in mano a Cosa nostra - anche se spesso lo spaccio viene gestito da altre mafie presenti sul territorio - è cosa nota. Nell'inchiesta, però, viene evidenziata la catena di rifornimento di Mario Di Ferro. Mercoledì sera, infatti, è scattato un blitz della Squadra mobile e della Sisco che ha interessato il quartiere della Vucciria a Palermo. E in particolare un magazzino in vicolo San Giacomo. Quello, secondo gli inquirenti, era la base operativa dei fratelli Salvatore e Gioacchino Salamone, oltre ad essere la palazzina in cui abitava "Totò". Ed erano loro a rifornire lo chef Di Ferro. Gli stessi che, in un'indagine condotta dai finanzieri, venivano definiti i "punti di raccordo tra i vertici del mandamento mafioso di Porta Nuova e la catena di spacciatori" nelle aree limitrofi a via Tavola Tonda, dentro la Vucciria, a due passi dalla Cala. Dall'inchiesta emerge anche l'interesse da parte dei due fratelli di ricoprire un ruolo apicale attorno a Villa Zito. Una sorta di anello di giunzione del "mondo di mezzo". Di Ferro chiamava su un cellulare di servizio a cui rispondevano entrambi i Salamone.
I Salamone, però, facevano riferimento a Giuseppe Corona, che dopo aver trascorso 16 anni in carcere per omicidio è diventato playmaker della riorganizzazione di Cosa nostra dopo la morte del Capo dei capi nel 2018. Non ultimo, è stato interessato anche nel processo al clan di Resuttana San Lorenzo. Nel 2018, come ricorda Palazzolo, venne arrestato con l'accusa di investire i proventi della droga in tabaccherie, bar, negozi e immobili per conto di varie famiglie mafiose.

In foto: da sinistra, Salvatore Salamone insieme a Mario Di Ferro

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