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Un omicidio ed un tentato omicidio in due mesi a Vittoria, nel ragusano, omicidi sventati appena in tempo a Niscemi, nel nisseno. La zona tra ragusano e nisseno torna teatro della violenza mafiosa, anche se sarebbe più giusto dire “rimane”.

Questi sono solo gli ultimi episodi di una mafia nella mafia che continua a sparare.

Prima si diceva che “la mafia non esiste”, poi che “la mafia non spara più”, tutti luoghi comuni che non svelano la vera violenza delle mafie le quali, quando opportuno, utilizzano la violenza. E lo fanno senza preoccupazioni.

Mafia nelle mafie, in particolare quando si parla di affari legati alla droga o a “conti” in sospeso. Le mafie in questa zona si sono trasformate in ‘narcomafie’, continuando ad essere violentissime e a non badare al particolare. Lo fanno in Campania, lo fanno in Puglia, lo fanno in Sicilia, da un lato nel palermitano (con le indagini che hanno dimostrato come stesse iniziando una vera e propria guerra di mafia), dall’altro soprattutto nella zona tra Vittoria e Niscemi.

A Vittoria, appunto. Un omicidio ed un tentato omicidio in due mesi, nel ragusano, non si registravano da tempo. L’omicidio di Giovanni Russo il 27 febbraio scorso ad opera di Alex Ventura, nipote dei capi del clan Carbonaro-Dominante Filippo e GBattista Ventura. Il tentato omicidio appena ieri, due colpi di arma da fuoco al collo e al volto di Roberto Di Martino, storico boss prima e collaboratore di giustizia poi.

Chi scrive segnalò già nel 2016 il ritorno dei “pentiti” sul territorio (LEGGI). Indisturbati e senza paura. Segnali d’allarme, con diversi articoli, rimasti spesso ignorati.

Basta fermarsi per un attimo e pensare ai collaboratori di giustizia che fanno arrestare (ex) sodali per poi ritornare sul territorio, anni dopo, senza nessun tipo di preoccupazione.

È accaduto per uno dei capi del clan Carbonaro-Dominante di Vittoria, Claudio Carbonaro, poi nuovamente arrestato ad anni di distanza dalla collaborazione con la giustizia. Accade per Roberto Di Martino, ferito nell’agguato di ieri.

A Vittoria le mafie si spartiscono affari diversi, l’uno fa da schermo all’altro. Dalla droga, alle estorsioni, fino a quelli più “alti” legati all’ortofrutta.

La droga, a fiumi nel ragusano, rimane l’affare più immediatamente redditizio che i mafiosi si spartiscono. E da tempo, proprio nel vittoriese, i clan si fronteggiano per spartirsi la torta. Tutto con il placet di chi fa affari più “importanti”, come quelli legati all’indotto dell’ortofrutta che sfruttano questi episodi delittuosi per fare da schermo ai propri affari.

Fatto sta che le mafie sparano e lo fanno indisturbate, senza provocare l’indignazione che dovrebbe. Anzi, nel caso di Alex Ventura, in diversi – tra le chat di whastsApp – ne inneggiavano al “coraggio”. Un substrato inquietante che rassicurava tutti quando, appena costituitosi, il Ventura dichiarava: “non c’entra la mafia”.

Tutti rassicurati, appunto. Perché è ovvio che il diretto interessato lo ammetta. E perché è normale che il rampollo di una famiglia mafiosa spari indisturbato, e uccida, per le vie cittadine.


dimartino roberto laspia

Roberto Di Martino


Adesso Roberto Di Martino, un boss – poi pentitosi, poi chissà – di spessore, che si accompagna a pregiudicati da sempre interessati all’affare della droga ed a quello dei trasporti dell’indotto mercatale (LEGGI). Non dimenticando che Vittoria, la cittadina del ragusano, fu teatro dell’ultimo omicidio della storia di un boss ndranghetista – Michele Brandimarte – in territorio di altre organizzazioni criminali. Brandimarte, fratello dei “re” del porto di Gioia Tauro, venne ucciso a dicembre di quasi dieci anni fa. Droga, appunto. E trasporti, camion che sono veri e propri ‘taxi’ della droga, da e per il mercato di Vittoria, passando per Fondi e Milano, in quello che è il triangolo delle agromafie legate ai mercati ortofrutticoli più importanti. Quindi percorrendo in lungo ed in largo l’Italia, con merce deperibile, fermati solo a campione. Affari a tanti zeri, mafia nelle mafie.

Intanto, nella vicina Niscemi, appena pochi mesi fa i carabinieri con l’operazione “Mondo opposto” della Dda di Caltanissetta sventavano alcuni omicidi anche di imprenditori. Una delle vittime aveva osato ribellarsi e così il capo mandamento – Alberto Musto – aveva deciso che doveva morire. Lui e (o) le persone a lui vicine.

Nelle intercettazioni il boss si diceva certo: “A questo oggi gli faccio saltare la testa”. Per poi precisare ancora meglio che “Però già mi accontento che… se sappiamo qualche parente suo eee… E ce l’hanno sulla coscienza, magari a sua …, che spacchio (minchia, ndr) ci interessa“.

Ai boss certamente non interessa nulla, a chi rappresenta le istituzioni dovrebbe interessare maggiormente. Eppure continuano commistioni e silenzi, segnali pericolosissimi. Come ad esempio le foto di esponenti politici locali con alcuni tra gli arrestati, in particolare Francesco Cantaro (accusato di essere all’interno dell’associazione mafiosa e di svolgere “la funzione di intermediario” “tra Alberto Musto e soggetti potenzialmente controindicati” nonché “mettendo il proprio bar, e in particolare alcune sale riservate dello stesso, a disposizione del sodalizio per l’effettuazione di incontri di particolare rilievo per la vita dell’associazione mafiosa”).  

Ed ancora il capomandamento, Alberto Musto, si vantava che suo padre (Antonio Mario) fosse “figlioccio di Antonino Di Cristina”. Per chi non lo sapesse Di Cristina era reggente dell’omonima famiglia mafiosa e sindaco di Riesi, ucciso in un agguato mafioso il 7 settembre 1987.

Musto spiegava che il padre – scrivono gli inquirenti – “già da piccolo, fosse vicino ad ambienti mafiosi, ostentando che questi era figlioccio di Antonino Di Cristina”.

E perché commistione in questo caso? Perché proprio il padre lo troviamo nella piazza centrale di Niscemi a leggere i nomi delle vittime di mafie il 21 marzo del 2023, appena pochi mesi prima dell’arresto del figlio. E nello stesso periodo in cui venivano pianificati, dal figlio, gli omicidi degli imprenditori.

Ricapitolando. Il figlioccio di Di Cristina, padre del capomandamento Alberto, che legge i nomi delle vittime della stessa mafia davanti a centinaia di persone, tra i quali i vertici comunali. Se fosse una presa di distanze sarebbe straordinaria, ma dopo gli arresti nessuna dichiarazione pubblica è stata resa, né di dissociazione dall’illustre “padrino” né dai figli. Senza quest’ultima presa di distanze rischia di diventare un segnale devastante, di potenza e tracotanza. Soprattutto se contrapposta all’immagine degli imprenditori che, denunciando, rischiano la vita, costretti ad una vita sotto scorta.


musto laspia

Le immagini, i segnali, in certi territori, come Niscemi e Vittoria, sono tutto. E non si può far finta di nulla. Fino a quando cittadini comuni o, ancor peggio, rappresentanti politici faranno a gara a omaggiare queste persone le cose non cambieranno mai.

Ed allora più che pensare “al buon nome della città”, che spesso viene contrapposto agli articoli che raccontano le mafie, bisognerebbe avere il coraggio di non mettere la testa sotto la sabbia e guardare ciò che accade. Indignandosi per la violenza mafiosa.

Perché, purtroppo, le mafie sparano.  

Tratto da: laspia.it

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