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Intervista di Jamil El Sadi

“Una scena inimmaginabile… una scena di guerra”. È il ricordo di Totò Cusimano, volto storico del giornalismo palermitano e nazionale, del tragico 23 maggio 1992 in cui nel tratto di autostrada Palermo-Punta Raisi l"'Attentatuni" uccise i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo assieme agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Un attentato che rientrava nella strategia stragista con cui Cosa nostra - coadiuvata da entità esterne - mise in ginocchio lo Stato ricattandolo con attentati e delitti eccellenti. Un vero e proprio golpe. “Destabilizzare per stabilizzare”, dice Cusimano. “Non eravamo preparati a quelle scene - ricorda -. La strage di Capaci ha una precisione militare che certifica la presenza di entità esterne alla mafia”.
Quel giorno mi trovavo a casa. Alcuni colleghi mi chiamarono dicendomi che ci fu un’esplosione sull’autostrada. La prima cosa che pensammo è che ci fosse stata un’esplosione nel cementificio. Pensammo subito quindi ad un incidente sul lavoro. Ma ci sbagliammo - continua -. Al tempo avevo fonti di primissima rilevanza e mi bastò fare un paio di telefonate per capire cosa fosse successo. Si trattava di un attentato ai danni di 'Monza 500' (sigla con cui tra i reparti di scorta si indicava Giovanni Falcone, ndr)”.
A 31 anni dalla strage, Cusimano, che nel tempo ha lavorato per la Rai e per il Giornale di Sicilia, ricorda i rapporti con Falcone e le vicende che lo hanno visto coinvolto in una Palermo - quella degli anni '80 e '90 - oltremodo ostile ad un magistrato che si opponeva alle logiche di appartenenza, delle correnti e delle connivenze politiche e mafiose. Dal fallito attentato all’Addaura del 1989 all’isolamento dentro il palazzo di giustizia della città; dagli attacchi da parte di giornali, politici e intellettuali per le indagini condotte alle clamorose bocciature nel corso della sua carriera in magistratura; dall’attentato di Capaci alle “menti raffinatissime” di cui parlò lo stesso Falcone al giornalista Saverio Lodato. Il tutto in un racconto che lega indissolubilmente il ruolo del cronista a quello dell’amico di un magistrato delegittimato, attaccato e infine ucciso. Un fil rouge che arriva fino a oggi e coinvolge ancora una volta magistrati integerrimi come Nino Di Matteo che hanno avuto il coraggio di processare la mafia, sì, ma anche di scoperchiare con indagini e processi i rapporti che quest’ultima ha avuto con la politica.

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