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La recentissima intenzione di avviare un percorso di collaborazione con la giustizia di Francesco Schiavone “Sandokan” è solo l’ultimo di tanti (ma non tantissimi) eventi legati al fenomeno del pentitismo, o meglio, della collaborazione.
Chiariamo da subito un principio: la storia della giustizia italiana registra pochissimi casi in cui il criminale che si “pente” è mosso da motivazione di carattere morale o spirituale in qualche modo. Il mafioso che si pente lo fa perchè gli conviene, perchè viene a patti con lo Stato con il quale fa un “cambio di merce”: meno carcere, o meno duro, in cambio di informazioni e notizie. La figura del pentito collaboratore di giustizia è una figura assai complessa. Con la scelta di collaborare il criminale cambia radicalmente il suo modus vivendi e suo malgrado stravolgerà la vita delle persone che ha intorno partendo da sua moglie/marito sino ad arrivare agli iscritti al clan di appartenenza e le loro possibili rappresaglie. Il “pentitismo” è un fenomeno rilevante per combattere la criminalità. L’era dei grandi pentiti ha origine nel 1984 con Tommaso Buscetta che tre giorni dopo l’estradizione in Italia decise di collaborare con Giovanni Falcone e per 45 anni mise nero su bianco tutto ciò che conosceva su “Cosa nostra”, dando, letteralmente, una chiave di lettura a Falcone e Borsellino risultata poi essenziale. Le leggi che hanno interessato la materia negli anni sono state la legge 15/1980, la legge 82/1991 e la legge di modifica 45/2001. L’introduzione di nuovi strumenti e procedure per garantire la genuinità delle dichiarazioni e la trasparenza nella gestione dei pentiti, uno su tutti il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. La legge 45/2001 ha introdotto inoltre la figura del testimone di giustizia, ma si tratta di un insieme articolato di istituti  connotati dalla rinuncia, assoluta o parziale, dello Stato all’esercizio effettivo della “punizione”. E’ un premio insomma.
Va fatta una doverosa e chiarificatrice precisazione: testimone di giustizia e “pentito” non sono la stessa cosa. Il testimone è chi non ha commesso alcun crimine e la sua collaborazione nasce da diversi motivi che non siano, ad esempio, gli sconti di pena, mentre il pentito è una persona che si auto-accusa e/o anche accusa altri, di crimini e di essi si “pente” iniziando la propria collaborazione con la giustizia.


Il falso pentitismo

Ci sono stati anche casi in cui il pentito in realtà non era un vero collaboratore di giustizia o non realmente intenzionato a rivelare quanto sapesse, il suo intento era unicamente quello di depistare le indagini e talvolta provando anche ad invalidare le collaborazioni fornite da veri pentiti. Tra i più clamorosi il caso di Oreste Basco e Pasquale Pagano, un tempo autisti del boss latitante Michele Zagaria, che oggi sono detenuti ma sono stati ascoltati in alcuni processi come dichiaranti; c’è poi il caso di Vincenzo Scarantino il finto pentito della Strage di Via D’Amelio, depistatore (indotto) per definizione, un “collaboratore costruito a tavolino”. Poi ci sono le collaborazioni di alto livello e concrete: tra i collaboratori più conosciuti per i particolari reati compiuti e per le dichiarazioni rilevanti c'è sicuramente Carmine Schiavone (amministratore e consigliere del clan dei casalesi), un criminale le cui dichiarazioni hanno permesso grossi sviluppi durante le indagini inerenti al versamento dei rifiuti tossici nella terra dei fuochi. Come dimenticare Tommaso Buscetta, detto il boss dei due mondi, le cui dichiarazioni furono essenziali per conoscere la struttura di Cosa Nostra. E poi Gaspare Mutolo, Antonio Iovine uno degli esponenti più rilevanti del clan dei casalesi, Oreste Spagnuolo, killer dell’area stragista del clan dei casalesi: un elenco di peso che fa comprendere senza equivoci, qualora ce ne fosse bisogno, che il pentitismo e la collaborazione che ne segue, è uno strumento fondamentale nelle mani degli organi inquirenti nel contrasto alla criminalità, vero o falso che sia dal punto di vista morale. Ma questo, a noi, poco importa.

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