di Silvia Cordella - 21 dicembre 2012
Nella tarda serata di ieri, dopo sette ore di camera di consiglio, la prima sezione della Corte di Cassazione ha confermato la pena a 6 anni e mezzo di custodia cautelare emessa dalla Corte d’appello di Palermo nei confronti di Domenico Miceli, l’ex assessore alla sanità del Palazzo delle Aquile condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Miceli era stato arrestato per la prima volta il 26 giugno 2003 nell’ambito dell’indagine del Ros sui rapporti mafia – politica, dietro le elezioni regionali siciliane del 2001. Le “cimici”, piazzate dai carabinieri nel salotto del capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, avevano messo in luce gli accordi elettorali fra l’ex Presidente della Regione Salvatore Cuffaro (anche lui recluso a Rebibbia dopo la condanna definitiva per favoreggiamento alla mafia, ndr) e il boss palermitano. Grazie alle registrazioni dei dialoghi intercettati si era scoperto il ruolo fondamentale dell’ex assessore comunale quale tramite dei rapporti fra i due interlocutori che avevano scelto di candidarlo nella stessa lista dell’ex Governatore per rispondere all’esigenza politica del capomafia.
Miceli nel 2006 incassava così la sua prima condanna a otto anni di carcere, poi ridotta nel 2008 a sei e sei mesi. Nel 2011 il verdetto della Cassazione aveva praticamente confermato la linea accusatoria della Procura ma rimandava alla Corte d’appello le carte del processo al fine di stabilire se vi fossero i margini per concedere a Miceli le attenuanti generiche. Il responso era stato però negativo e la pena, riconfermata ieri dagli ermellini, è diventata questa volta definitiva. Domenico Miceli si è quindi costituito nel penitenziario romano per scontare una pena residua di 4 anni e 10 mesi, avendo già scontato nel 2003 un anno e 8 mesi. “È un’ingiustizia – avrebbe detto prima di entrare a Rebibbia, la stessa prigione che ospita Totò Cuffaro - ma se devo andare in carcere lo farò con la maggiore serenità possibile”. Lo diceva mentre passeggiava insieme all’avv. Lelio Gurrera nella capitale. In albergo, la valigia pronta. A casa, in attesa della sentenza sono rimasti moglie e figlio.