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Ardita: “Sono anni che si fanno riforme sulla giustizia, le stesse che finiscono per peggiorare la situazione

Sabato 21 gennaio, presso l’Hotel 4SPA Resort di Catania, un incontro-dibattito sulla mafia moderato dal caporedattore di ANTIMAFIADuemila Aaron Pettinari, ha raccolto le opinioni di chi conosce molto bene il fenomeno mafioso. L’evento, intitolato: “Quel fresco profumo di Libertà… La legalità per lo sviluppo sociale ed economico del Paese”, voluto e organizzato dalla Fillea CGIL Sicilia, ha visto, a margine dell’incontro, la consegna dei Premi Libertà e Giustizia 2023 (prima edizione, ndr), pensati per le varie personalità che si sono distinte per la promozione e la salvaguardia di giustizia e legalità. Presenti all’evento anche Sonia Alfano, già Presidente Commissione Speciale antimafia Parlamento Europeo, gli imprenditori edili Fabio D'Agata e Gaetano Debole, Giovanni Pistorio Segr. Gen. Fillea Sicilia, Antonio Di Franco della Fillea Nazionale e il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita.


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Sonia Alfano


 “Oggi, più di prima, quando parliamo di mafia dobbiamo necessariamente allargare il concetto e parlare di mafie. ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra corona unita e mafia operano insieme, all’interno di un unico ragionamento di controllo che vedrebbe la partecipazione di altre entità come finanza, politica e massoneria. Lo stesso Matteo Messina Denaro è stato trovato nel regno della massoneria; luogo dove avrebbe goduto di protezione esercitata da apparati di altissimo livello, tanto che il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, in relazione all’arresto di Messina Denaro, ha parlato di borghesia mafiosa e protezioni massoniche. Fatti di cui, purtroppo, l’informazione parla decisamente poco ma che la società civile deve necessariamente conoscere per evitare che ‘certi fatti’, come le minacce di morte indirizzate a magistrati come Nino Di Matteo e Nicola Gratteri, si possano ripetere”. Queste le parole espresse dal caporedattore di ANTIMAFIADuemila, Aaron Pettinari, per introdurre il dibattito su mafia e giustizia durante l’incontro organizzato dalla Fillea CGIL Sicilia a Catania. Un incontro che ha saputo raccontare le abilità in seno alla mafia che, in questi anni, è riuscita a sostituirsi allo Stato, sempre più impegnato a fare riforme capaci di cagionare la salute già precaria della giustizia italiana.


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Chi si avvicina alla mafia in questo momento non lo fa perché è minacciato ma perché gli conviene - ha ribadito l’imprenditore Fabio D'Agata -. La leva della corruzione è diventata la principale arma che la mafia utilizza nel mondo delle imprese”. Dello stesso parere anche l’imprenditore edile Gaetano Debole che, durante il suo intervento, ha precisato: “Non basta eseguire gli arresti per sconfiggere la mafia. Il contrasto alla mafia è un fatto culturale, pertanto, bisogna iniziare dalla scuola, cambiando per questo la mentalità dei giovani e delle generazioni future”. Le parole espresse dai due imprenditori, Debole e D’Agata, raccontano l’espressione di una mafia mutevole, scaltra e lungimirante; capace con il suo ‘welfare mafioso’, di stare al passo con i cambiamenti socio/economici del Paese.


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Gaetano Debole

Incapacità di Stato e l’effetto ‘Zì Dima’
Nella speranza che un eccesso di pessimismo possa scongiurare il preludio di un disastro di Stato, tra riforme sbagliate e frasi sconnesse, l'alternanza dei ministri con relative riforme, sembrano rievocare i paradossi delle migliori novelle pirandelliane.
Proprio come Zì Dima, rimasto bloccato all’interno della giara che deve riparare, riforma dopo riforma, il rischio che lo Stato possa restare imprigionato negli effetti del suo operato, diventa sempre più reale.


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Sono anni che si fanno riforme sulla giustizia e, sono anni che queste stesse riforme finiscono per peggiorare la situazione”. Con queste parole, il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita, ha descritto il paradosso di uno Stato vittima di sé stesso. “Ricordo quando un boss della mafia, condannato all’ergastolo per aver ucciso durante la guerra di mafia degli anni ‘80, è riuscito ad uscire dal carcere dopo 26 anni grazie ad un cavillo legale - ha spiegato Ardita -. Tornato in libertà, la prima cosa che ha fatto è stata quella di riorganizzare Cosa nostra e, immediatamente dopo, organizzare il brutale omicidio di un  imprenditore. Si tratta di un fatto grave che denota il fallimento dello Stato nella tutela dei suoi cittadini”. Una regressione che si esprime al meglio attraverso la riforma della giustizia Cartabia che, per rispondere alla richiesta dell’Europa sulla necessità di velocizzare i processi, ha pensato bene di farli finire “per morte indotta dopo due anni dall’inizio del procedimento d'appello” dimenticando che, - per usare le parole espresse dal procuratore Nicola Gratteri in altre sedi -,  in realtà, “l’Europa ha chiesto di velocizzare i processi e non di eliminarli”.


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Sebastiano Ardita


Il brutto che avanza
La preoccupazione scaturita dalla capacità pervasiva della mafia nel tessuto socio economico del Paese, non è l’unico dato emerso durante il dibattito organizzato dalla Fillea CGIL Sicilia. Un altro dato allarmante, emerso durante l’incontro, viene rappresentato dall’immagine di una mafia capace di promuovere sé stessa e la sua immagine, agevolata da una narrativa, anche cinematografica, capace di esaltarne il fascino criminale oltre che la capacità di raggiungere obiettivi che in altre circostanze potrebbero sembrare irraggiungibili. Un aspetto che potrebbe allargare ulteriormente la distanza tra cittadini e Stato.


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Da un lato, la ‘bella vita’ che ha caratterizzato i 30 anni di latitanza di Messina Denaro: l’abbigliamento griffato, l’orologio costoso, viaggi e belle donne che si accompagnano al rispetto guadagnato in stile ‘Gomorra’, dall’altro, lo Stato ‘sfigato’ e ‘ambiguo’ sostenitore di legalità. “Io non vorrei che Matteo Messina Denaro passasse per un ‘fico’ - ha commentato Antonio Di Franco -. Messina Denaro è uno stragista e delinquente, bisogna sempre fare molta attenzione ai messaggi che si danno”. Resta il fatto che - come ha ricordato Fabio D'Agata -, “In Italia, l’imprenditore che decide di denunciare il mafioso che gli ha chiesto di ‘entrare in società’ per guadagnare soldi facili, dopo mesi di indagini, si ritrova con un cantiere sospeso e il rischio del fallimento sulle spalle”. Tuttavia, il problema di alcuni ministri rimane la tutela della privacy delle persone arrestate che non possono essere nominate dagli inquirenti, gli stessi che, nonostante la libera informazione e il diritto di cronaca, non possono neppure descrivere i motivi della carcerazione. Alla fine di questa storia - ha fatto notare Sonia Alfano -, “Prima di chiederci se lo Stato intende veramente fare la lotta alla mafia, dovremmo chiederci se ha anche la voglia di processare sé stesso”.

Foto © Angelo Vitale

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