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La denuncia dell’ex magistrato: “Pista Sutera e pista massonica erano valide. Non venni creduta lasciai Palermo per la rabbia"

Le indagini sulle ricerche di Matteo Messina Denaro furono totalmente ostacolate. Ogni volta che si alzava il livello, ad esempio sulla massoneria, in molti, e fu per me una grossa delusione, non dico che avessero paura ma cominciavano a non crederci più (per esempio sui collaboratori che stavamo sentendo) nonostante in otto anni di lavoro alla Dda di prove sulla mia professionalità ne avessi seminate”.

A dirlo è Teresa Principato, già procuratrice aggiunta di Palermo, oggi in pensione, commentando gli anni in cui indagava sulla rete di protezioni del boss, allora latitante, Matteo Messina Denaro. L’ex magistrato non riuscì a catturare il capo mafia di Castelvetrano per un soffio, ma non per via di insuperabili abilità di nascondimento del latitante, quanto più per i vari “ostacoli frapposti” all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo al tempo. Ostacoli piantati “nonostante gli scenari della cattura fossero molto promettenti”, ha precisato in un’intervista a La Stampa. “Sia io sia altri colleghi cercammo di convincere il procuratore a fermare i colleghi del gruppo agrigentino che volevano procedere all'arresto di un boss che secondo noi ci avrebbe portato dal ricercato. Avrebbero vanificato tutto. Anche i carabinieri del Ros ci parlarono. Invano”.

Per nove anni Teresa Principato ha inseguito “Diabolik” (nome con cui veniva chiamato il boss, ndr) per assicurarlo alla giustizia, ha battuto piste che portavano alla Spagna e al Venezuela e altre che riconducevano alla Sicilia, dove poi è stato finalmente preso lo scorso 16 gennaio. Tutte piste valide cadute, o fatte cadere da qualcuno, sul più bello. Messina Denaro, probabilmente, sapeva che l’ex procuratrice avrebbe potuto mettere seriamente a repentaglio la sua fuga, e infatti nel 2014 un confidente aveva riferito che lo stesso capomafia trapanese stava cercando il tritolo per compiere un attentato nei suoi confronti. Teresa Principato aveva capito che Matteo Messina Denaro era protetto da reti massoniche. Ma non venne creduta, in questo, come in altro. Non venne sostenuta. E nel 2018 decise di dire addio alla Procura per andare a Roma alla direzione nazionale antimafia per quattro anni, fino alla pensione. L’addio fu una decisione sofferta, ma che non poteva non percorrere. “Considerato l'atteggiamento tenuto nei miei confronti da alcuni colleghi e responsabili dell'ufficio giudiziario dell'epoca me ne andai via, insalutata ospite. Non ritenevo ci fossero più le condizioni per rimanere”. “Mi costò molto andarmene. Ero arrabbiata, delusa. Tanto da pensare che non ci fosse la reale volontà di catturare il latitante. Lo credevano anche altri miei colleghi e diversi investigatori”.


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Il capomafia agrigentino di Sambuca di Sicilia, fedelissimo di Matteo Messina Denaro, Leo Sutera


La storia è quella “di un'indagine stoppata della quale ho cercato anche di dimenticare alcuni particolari”, ha affermato a La Stampa l’ex magistrato. “Seguivamo un capomafia, Leo Sutera. Appena uscito dal carcere incontrò Messina Denaro. Aveva anche il compito di farlo incontrare con due mafiosi palermitani. Fotografammo Sutera in un casolare mentre da sotto una pietra estraeva un pizzino del latitante. Lo lesse e lo rimise al suo posto”. Sutera non si accorse di nulla. “Quell'indagine fu molto costosa e fu la prima volta che utilizzammo i droni in Italia in un'indagine antimafia. Eravamo tutti certi che ci avrebbe potuto portare da Messina Denaro”. “E invece - ha raccontato - i colleghi che investigavano sul territorio agrigentino volevano arrestarlo in un'altra operazione, ma così ci avrebbero bruciato”.

Logica vorrebbe che l'esecuzione di quelle misure cautelari venissero ritardate. Ne parlai col procuratore capo di allora (Francesco Messineo, ndr). Messineo mi chiese se fossi certa del contenuto delle intercettazioni consegnatemi dal Ros. Confermai, ma non si convinse e successe un'altra cosa strana”. “Seppi che poco dopo, in quei giorni, si recò in aula bunker dove venivano effettuate le intercettazioni sulle ricerche del boss. Chiese a un ufficiale di sapere se ve ne fossero di interesse”. Un atteggiamento abbastanza insolito, secondo Teresa Principato. Di quella vicenda l’ex magistrato parlò direttamente al procuratore capo. “Cercai di dimostrare che più stringente della cattura degli agrigentini era il fermo del latitante. Mi disse: ‘ce la fai a prendere Messina Denaro in una settimana? Sennò li arrestiamo tutti perché la popolazione non può continuare a subire questo gruppo mafioso e senza Sutera non ha senso, l'operazione perde efficacia”.

Alla domanda se quello fosse un grado di urgenza giustificato, l’ex aggiunta ha risposto: “Il mio giudizio non poteva che essere diverso, per me era preminente la cattura del latitante. Tolto Sutera, peraltro, erano personaggi di relativa importanza. Tra parentesi poi il gip non convalidò nemmeno alcuni di quegli arresti”.


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L'ex sottosegretario agli interni di Forza Italia, Antonio D'Alì


Della vicenda accaduta Teresa Principato raccontò tutto al Csm “ma non ricordo se la pratica aperta abbia sortito alcun risultato”. Ma non solo venne arrestato Leo Sutera, che avrebbe potuto portare a Messina Denaro, “poco tempo dopo arrestarono anche i due mafiosi palermitani che dovevano essere condotti dal latitante”. Un boccone amaro per l’ex pm. “Pensai che l'indagine fosse stata totalmente ostacolata, che la cattura non fosse ritenuta prevalente e che sarebbe stato impossibile ricominciare daccapo”. Ma Teresa Principato e i suoi colleghi non si diedero per vinti. “Ripartimmo con enorme fatica dalla massoneria”. La pista dei notabili portò i magistrati ovunque. Del resto, ha ricordato, “Trapani ha il record di logge coperte e non…”. L'inchiesta condusse “ad evidenze di logge cui erano iscritti questori, medici poliziotti. Indagammo col Gico ma non fu facile nemmeno stavolta”.

A ostacolare anche quell’indagine furono i dubbi sollevati “sul collaboratore che ci stava portando dentro quelle storie, che ritenni fondate in generale, ma non sulla pista massonica di cui lui faceva parte. Mi ritrovai in una riunione senza nemmeno il consenso dei colleghi. Completamente sola e, inascoltata ospite, decisi di andare via in anticipo”.

Nei giorni scorsi Leo Sutera, l'uomo che le hanno arrestato a un passo da Messina Denaro, è stato condannato in Cassazione. “Una magra consolazione”. E sulla cattura di Messina Denaro l’ex procuratrice aggiunta non crede “si sia consegnato”. Ma, ha puntualizzato, “senza nulla togliere al lavoro di alcuni, era stanco, aveva abbassato le difese. E poi aveva forti rapporti politici”. La Principato ha fatto riferimento ad Antonio D'Alì, ex sottosegretario agli interni di Forza Italia, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa anche per aver favorito la famiglia del latitante.

Il padre di Messina Denaro era il campiere della famiglia del politico. D'Alì ha fatto assumere in una delle sue banche il fratello dell'ex latitante e un Prefetto che voleva togliere dalle grinfie della mafia un'azienda, fu fatto trasferire sempre da lui, così come il capo della squadra Mobile Giuseppe Linares”.

Questo “mi fece riflettere sulla possibilità della mancata realizzazione di altre indagini sulla cattura che in quegli anni - ha concluso - andarono a monte”.

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