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A Milano Salvatore Borsellino e Stefano Mormile raccontano come e perché si ostacolò la verità sulla morte dei loro fratelli

Una società nella quale è possibile costruire depistaggi è una società nella quale è impossibile costruire amore e amicizia. Ma anche spontaneità, fiducia e giustizia. In una società del genere ogni relazione diventa estemporanea, incoerente, fittizia”. E’ su questo concetto, espresso da una delle studentesse della Consulta Giovani di Cornaredo, che si è svolta mercoledì la serata organizzata a Milano dal Movimento Agende Rosse, dal titolo “Depistaggi possibili ed amori impossibili”. Un appuntamento presentato dal Consigliere regionale Luigi Piccirillo e moderato da Jamil El Sadi, redattore di ANTIMAFIADuemila, che ha visto la partecipazione di Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo) e Stefano Mormile (fratello dell’educatore carcerario Umberto) i cui interventi sono stati alternati dalle esibizioni artistiche e dai monologhi delle studentesse e studenti della Consulta Giovani, del CCRR e del Centro Giovani di Cornaredo (Milano). I depistaggi come componente inquinante degli accertamenti per la verità e giustizia sui principali fatti di sangue avvenuti dal dopoguerra ad oggi, è questo il filo rosso seguito nel corso dell’appuntamento.


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E di depistaggi, la famiglia Mormile e la famiglia Borsellino ne hanno visti nascere e morire tanti in questi tre decenni. Il fratello del magistrato ucciso da Cosa nostra il 19 luglio 1992 insieme alla sua scorta ha ricordato, impugnando il microfono e passeggiando, emozionato, per il palco della Sala Gaber del Consiglio Regionale della Lombardia, come i depistaggi sull’attentato di via d’Amelio sono stati numerosi e “progettati ancora prima della strage stessa”. “C’erano elementi dei servizi segreti in via d’Amelio che sapevano che la strage ci sarebbe stata”, ha affermato. Nel suo discorso, seguito con attenzione dal pubblico in sala, Borsellino, fondatore delle Agende Rosse, ha ricordato il depistaggio del falso pentito Vincenzo Scarantino, il quale “con torture fisiche e psicologiche venne costretto ad addossarsi la colpa della strage”. Ciò che “gli hanno messo in bocca” ha terribilmente rallentato l’accertamento della verità sulla tragedia. Ma in tutta la vicenda, “il principale depistaggio”, ha ricordato Borsellino “è la sparizione dell’Agenda Rossa”. “Uccidere Paolo senza fare sparire la sua Agenda Rossa non sarebbe servito a nulla”, ha sottolineato. “Perché Paolo in quell’agenda sicuramente aveva scritto della trattativa Stato-mafia”.


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Salvatore Borsellino ha quindi mostrato al pubblico un’agenda del 1991 dello stesso tipo e colore di quella in possesso del fratello. La voce gli si è rotta mentre la sollevava. “A Paolo venne regalata un’agenda come questa dai carabinieri, lui la mise in un cassetto e la tirò fuori, senza separarsene mai un attimo, solo il 23 maggio 1992, quando vene ucciso suo fratello, Giovanni Falcone”. “Era lui il vero fratello di Paolo”, ha detto  trattenendo le lacrime. E’ su quell’agenda che il magistrato si segnava gli appuntamenti di primaria importanza. Ed è lì, come sostiene Salvatore, che Paolo Borsellino si sarebbe annotato appunti riservatissimi sulla strage di Capaci sulla quale aveva iniziato ad indagare e per la quale aveva annunciato di voler deporre a Caltanissetta. Era riuscito ad accordarsi coi pm per il 20 luglio, ma verrà ucciso il giorno prima. Proprio per questo l’agenda rossa è di vitale importanza per scoprire la verità sull’autobomba di via d’Amelio.


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Ma venne sottratta da mani non mafiose, con passaggi di mano inspiegabili di uomini in divisa: carabinieri e polizia. “E’ la sparizione dell’agenda il più grande depistaggio - ha ribadito Borsellino - e su questa sparizione non è mai stato fatto un processo”. Secondo il fratello del magistrato, l’agenda rossa oggi “giace nei sotterranei di qualche ministero o struttura dei servizi a Roma. E purtroppo non verrà mai fuori ma intanto vengono fuori altre testimonianze, un gelataio, Baiardo (Salvatore, ndr), che ha ospitato Matteo Messina Denaro nella sua latitanza sul Lago d’Orta, che dice su quell’agenda ci sono state riunioni in cui c’erano funzionari dello Stato deviato ed esponenti mafiosi e dice che una copia dell’agenda è in mano a Matteo Messina Denaro”. “Sulle prime mi era sembrata un’assurdità - ha raccontato Borsellino - ma poi ci ho pensato e forse le cose sono ancora peggiori di quelle che si possono immaginare. Ho pensato che forse una copia di quell’agenda o di alcune pagine è stata veramente data in pegno alla mafia perché venissero rispettati i patti fatti nel corso della trattativa”.


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Il depistaggio nel caso Mormile
Sempre di depistaggio, ha parlato anche Stefano Mormile, fratello di Umberto, educatore carcerario assassinato l'11 aprile 1990 a Carpiano da due killer mentre si stava recando al lavoro presso il carcere milanese di Opera. Per il delitto, rivendicato dalla Falange Armata, dopo vari anni sono stati condannati come mandanti i boss di Platì Domenico e Antonio Papalia, due dei vertici massimi della ‘Ndrangheta, Franco Coco Trovato, e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola (oggi pentito). Per la famiglia Mormile, nonché per la procura di Reggio Calabria che sta approfondendo la vicenda con un’informativa depositata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sulla Falange Armata al processo ‘Ndrangheta Stragista, Umberto Mormile venne ammazzato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e l'amministrazione penitenziaria per poter entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis senza l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria.


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Ma c’è chi per anni ha creduto e tuttora crede che morì perché Umberto era dedito ad eseguire favori a beneficio dei boss mafiosi sia del carcere di Parma sia di Opera. Stefano Mormile, in sala, ha ricordato come, nonostante già nel 1996 da Cuzzola “raccontò per filo e per segno il movente dell’omicidio”. “Cuzzola, che guidava la moto, ha parlato conoscendo i fatti”, ha puntualizzato Mormile. “Le sue dichiarazioni sono certificate”. La procura di Milano di allora aveva “preso per buone le dichiarazioni di Cuzzola” ma “poi non fece nulla” e il processo si concluse con una “sentenza scandalosa” della Corte d’Assise di Milano in cui “c’è una verità e al contempo la sua negazione”. “Nella stessa c’è scritto che i mandanti sono stati i fratelli Papalia e Franco Coco Trovato, gli esecutori Schettini e Cuzzola ma i moventi dell’omicidio erano due”, ha spiegato Mormile.


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Il primo che “Umberto Mormile venne ucciso perché corrotto” e il secondo che “Umberto Mormile venne ucciso perché incorruttibile”. Secondo Mormile, “ancor prima di arrivare al pregevole lavoro che sta conducendo la procura di Reggio Calabria che sta scoperchiando molte altre evidenze ci sono state verità che sono state sapientemente offuscate”. “E sono verità conosciute da chi dovrebbe accertarle, però si preferisce comunque non procedere”. In quanto alle omissioni e i depistaggi, Stefano Mormile ha ricordato l’introduzione di “false prove e falsi pentiti”. “Sempre la procura di Milano nell’accertamento del movente, pur di accreditare la tesi di Umberto come corrotto, subito dopo le dichiarazioni acquisite e certificate di Cuzzola che parlava di responsabilità dei servizi segreti nell’omicidio, sentì alcuni pentiti che spuntarono come funghi e che invece cercarono di contrastare questa verità”.


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Uno di questi, che spiccò per la particolare fantasia dimostrata nel raccontare balle, fu un certo Emilio Di Giovane che parlò anche senza aver vissuto direttamente i fatti e accreditò Umberto non solo come un corrotto ma come un avido a libro paga dei Papalia sin da quando lavora nel carcere di Parma”. “Per rafforzare la sua tesi - ha raccontato il fratello dell’educatore carcerario - disse che Umberto veniva pagato profumatamente con decine e decine di milioni di lire e che gli venne regalata una golf nuova fiammante. Ma quella macchina, per esempio, oltre a non essere nuova, né fiammante gliel’avevo procurata io facendogliela vendere da un mio amico. Sarebbe bastato fare una verifica per accertare questa circostanza. Ma invece le dichiarazioni di Di Giovane sono state prese per oro colato senza alcun riscontro”. “Questo per dire - ha affermato - che sarebbe stato molto facile accertare la verità. Una verità che ora sta accertando un giudice a Reggio Calabria”.


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Mormile ha poi dichiarato che “la pervasività di questo sistema ha prodotto effetti che tutti stiamo pagando sulla nostra pelle ma il pedaggio più pesante spetterà ai giovani che si dovranno sobbarcare la deriva socio-economica ma soprattutto culturale di questo Paese, perché nascondere la storia con mistificazioni significa anche negare un futuro ai nostri figli”. L’ospite ha poi fatto alcune esortazioni a fine intervento sulla legittimità dell’esistenza dei servizi segreti e dello strumento politico del segreto di Stato. “E’ chiaro che l’ombra dei servizi è sempre presente in tutte le stragi di Stato”, ha riflettuto. “Ormai siamo tutti consapevoli della presenza ingombrante dei servizi penso che dovremmo appellarci a quel poco di senso di responsabilità che magari è rimasto a chi ci governa di abolire i servizi. Perché così come sono non funzionano e per me dovrebbero essere aboliti. Io penso che una democrazia non ha bisogno di servizi segreti, di mani oscure”. “E se non si vuole abolire i servizi - ha dichiarato ancora sul punto - la politica dovrebbe almeno riformare i servizi segreti, garantendo soprattutto i controlli”.


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Per quanto riguarda il segreto di Stato, Mormile ha ricordato ciò che avvenne con la vicenda del Protocollo Farfalla, emersa per caso solo nei primi anni duemila e intrinsecamente legata alla vicenda dell’omicidio del fratello. “Il Protocollo Farfalla è stato uno scandalo di inaudita potenza, ma piuttosto che creare scompiglio nelle istituzioni, nell’opinione pubblica, venne tacitato”. “C’era un reato gravissimo - ha spiegato - c’erano i nomi e i cognomi dei colpevoli, almeno tre o quattro che hanno messo la loro firma nei documenti illegali. La procura di Palermo e poi parallelamente quella di Roma, aprirono un’inchiesta, ma intervenne il governo con uno strumento che è un macigno che viaggia parallelamente a coprire le nefandezze dei servizi: il segreto di Stato”. In questo modo, ha ricordato Mormile, si è apposto “sul Protocollo fantasma una pietra tombale”.

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