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strage-capaci-big1di Piero Melati - 15 aprile 2013
Palermo. C'era un fascista, a Capaci, che doveva schiacciare il bottone del telecomando. Ma si è defilato in extremis, scomparendo dalla scena principale. Con lui, è sparito un intero cantiere, aperto la notte prima del botto. Ipotesi: era servito per “rinforzare” i 500 chili di tritolo della mafia con un “collante” militare. Molti testimoni videro quel cantiere. Ma furono ignorati.

Capaci, 1993: una storia di ombre. Capaci, 2013: si torna sul luogo del delitto. Ci sono inquirenti, nella sede romanda della Direzione nazionale antimafia, nelle stanze della procura di Caltanissetta, negli uffici palermitani e calabresi dell'intelligence, che hanno deciso di ripartire da zero. Circolano note riservate che utilizzano un codice cifrato: “muovere l'ombra”, “operazione sotto falsa bandiera”, “l'asimmetria”, “il piano inclinato”. Oppure “l'eliminatore” e “il fuciliere”, per distinguere, all'interno di un commando, i soldati avvertiti dei piani più segreti dai semplici, ignari “manovali". Un linguaggio più utile a comporre i “pezzi mancanti”. O a spiegare personaggi finora rimossi, come il depistatore Elio Ciolini (che previde le stragi), oppure strane morti (il suicidio in carcere del corleonese Antonino Gioé, che delle stragi sapeva troppo).
Si sono rimessi al lavoro gli analisti. Stanno rileggendo i massacri nella cui voragine è scomparsa la Prima Repubblica. A cominciare da Capaci. Prima conclusione? Non è stato un attentatuni, quello del 23 maggio del '92 contro Giovanni Falcone. Alle 17 e 58, all'altezza del km 5 della A24, tra Capaci e Isola delle Femmine, è andata in scena quella che lo scrittore brasiliano Jorge Amado definì Tocaia Grande. La grande imboscata. Il presupposto di questo lavoro è duro da accertare. Si tratta della consapevolezza che l'inchiesta Borsellino è stata depistata. Falsi pentiti, finti processi, condanne ingiuste: senza le rivelazioni dell'ultimo pentito, Gaspare Spatuzza, il massacro di via D'Amelio (dove morirono Borsellino e la sua scorta) si sarebbe conclusa in una farsa. “E se non fosse l'unico caso?” è stata la domanda. Meglio rivedere tutto. A cominciare da Capaci.
Oggi anche un'inchiesta giornalistica (Stefania Limiti, Doppio Livello, Chiarelettere, pp. 480, euro 18,60) offre spunti per guardare al lavoro degli analisti. Nell'ultimo capitolo, False bandiere a Capaci, la giornalista riprende il filo delle “simulazioni” al computer effettuate dagli esperti dell'Esercito a Capaci, poi confluite nelle indagini dei pm Paolo Giordano e Luca Tescaroli. Bastavano 500 chili di tritolo a realizzare un attentato senza precedenti? Mai, nella storia, era stata colpita con esplosivo un'auto in corsa a velocità elevata. Un solo precedente: l'attentato spagnolo da parte dell'Eta a Luis Carrero Blanco, il delfino del generalissimo Franco (20 dicembre del '73). Quella volta la vettura venne scagliata a trenta metri d'altezza. Ma procedeva a passo d'uomo. A differenza di quella di Falcone. Gli esperti assimilano Capaci a quel tipo di azione militare denominata “imboscata”. E la considerano tecnicamente un modello unico nella storia del terrorismo. L'esplosivo, come noto, venne collocato dentro un condotto sotto l'autostrada, in tredici bidoncini trasportati sottoterra con l'aiuto di uno skateboard. Poi, raccontò il pentito Giovanni Brusca, venne ripulito tutto per non lasciare tracce. E invece, dentro al cratere dell'esplosione vennero trovati un sacchetto di carta con una torcia a pile, un tubetto di alluminio con mastice, guanti in lattice da chirurgo. “Lattice? Ma no, noi avevamo guanti da muratore, per spostare i bidoni. Quelli damediso si sarebbero strappati” dirà Brusca. A cosa servivano, dunque, quei guanti buoni a non seminare impronte?
E ancora, tra le tracce di esplosivo, è stato rinvenuto un “collante” di tipo militare. Nulla a che vedere con il contenuto dei barilotti usati dalla mafia. Viene utilizzato per rendere più potente un'esplosione. La mafia, si è appreso di recente, aveva estratto il suo tritolo da vecchi ordigni per la pesca di frodo. Possibile, quindi, che non sarebbe stato sufficente. Si scopre poi che, secondo diveris testimoni, la notte pirma, in quel punto dell'autostrada, venne avvistato un furgoncino. Accanto, sei persone al lavoro. Chi erano? Non risultano interventi autorizzati da enti o da Comuni. I pentiti hanno detto che, la notte prima, in zona non c'erano mafiosi. Gli identikit dei misteriosi personaggi vennero poi ricostruiti in base alle descrizioni di chi li aveva visti. Ma quella pista venne abbandonata. Almeno uno dei testimoni era altamente attendibile: un ingegnere oggi deceduto, cognato del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non basta. Sono state individuate “discrepanze” nel racconto di sei dei pentiti che hanno parlato di Capaci. Una circostanza la cita Stefania Limiti: Giovanni Brusca ha raccontato che fu lui a premere il bottone del telecomando, perché il “fuciliere” designato, Pietro Rampulla, che aveva effettuato personalmente le prove, “quel giorno aveva un impegno familiare”. Un impegno? Nel giorno della strage? “Questa circostanza è servita a far sparire in un cono d'ombra Pietro Rampulla, lasciando invece sulla scena il mafioso Giovanni Brusca”. Ma forse, di questo abile gioco di prestigio, Giovanni Brusca non si è neppure reso conto. Pietro Rampulla è un “uomo d'onore” di Mistretta. Ma è anche “un neofascista esperto di bombe da attivare con congegni radiocomandati, legato a Ordine Nero”. Sulle sue tracce, si arriva agli scontri politici degli anni 70 e alla rivolta del “Boia chi molla” di Reggio Calabria. Il primo che parlò di lui du Luigi Ilardo, vicino a Bernarso Provenzano, divenuto nel '94 la “fonte Oriente” del colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Ilardo non ebbe tempo di dire tutto su quegli strani mondi. Nel'95 si offrì per catturare Provenzano. Ma il capo dei Ros, Mario Mori, scelse di attendere. Quando venne ucciso, nel maggio del '96, Ilardo aveva deciso di pentirsi. Dopo il delitto, Riccio accuserà i suoi capi di avergli “bruciato” il confidente. Si studia anche un'altra circostanza. Totò Riina voleva uccidere Falcone a Roma. Tutto era pronto. Poi cambiò idea e scelse la strage. Rampulla la ideò, preparò ordigno e telecomando. Resta un mistero: chi consigliò Riina? Oggi, forse, il boss si vergogna di ammettere che qualcuno lo ingannò, spingendolo sul “piano inclinato” dello stragismo, che finì per annientare la “sua” Cosa Nostra. Su rilegge il fallito attentato dell'Addaura dell'89. Il procuratore aggiunto della Dna, Gianfranco Donadio, invita a considerare per intero la frase che Falcone pronunciò poco dopo. “Non parlò solo di menti raffinatissime” ricorda Donadio “ma di menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile, se si vogliono capire le ragioni che hanno spinto qualcuno a tentare di assassinarmi”. Tre anni dopo, “lo scenario più attendibile” si ripeté a Capaci. Falcone era tornato dagli Usa. Aveva incontrato il re dei pentiti, Tommaso Buscetta. Sei mesi dopo don Masino dirà, su chi indagava sulle stragi: “Se ne intendono quanto i dottori si intendono di astrologia. Io vedo altre cose intorno a queste cose”.

Tratto da: Il Venerdì di La Repubblica

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