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testo e foto di Pietro Orsatti - 6 ottobre 2010
La Domiziana è una linea sospesa a mezz’aria, fra cielo e merda. Una freccia di asfalto piantata nel cuore di una delle terre più fertili e generose d’Italia. Una terra stuprata da monnezza e cemento e camorra e violenza.
   



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Desiderio e scarto, bisogno e identità cancellata. La terra dei fuochi. Mondragone, Casa Picenna, San Cipriano d’Aversa, Castelvolturno, Casal di Principe. Il Litorale Domizio sfregiato, le campagne cancellate da discariche e cemento. Terra di schiavi e occhi bassi. Di militari a presidiare le piazze e uomini dei clan a ogni angolo di strada. Il potere formale e spesso impotente e quello reale, condizionante, virale.

E poi muri e cancelli e finestre oscurate. Più hai paura e più il muro che circonda la tua casa sarà inutilmente alto. E paesi senza storia e senza confini, fusi l’uno all’altro. Entri in un bar a prendere un caffè e sei a San Cipriano. Esci asciugandoti la bocca, fai dieci metri, attraversi la strada ed è già Casal di Principe. Qui l’amministrazione comunale non è un potere, al limite è uno “sportello”, anche se a volte qualche amministratore ci prova a fare il suo mestiere. Da solo, isolato. Qui l’unico potere è quello dei Casalesi, della forma di camorra, se è possibile chiamarla ancora così, più vicina a quella che è stata e probabilmente è ancora Cosa nostra.

“I muri hanno orecchie, nel bene e nel male”, sussurra Peppe. “I muri ascoltano”. E parlano. Parlano di questa terra contadina trasformata non in area metropolitana ma in un nulla di asfalto, cemento, stradine soffocanti. E ancora decine di ville alla Scarface.

Proviamo a immaginare un ragazzo di Casal di Principe, cresciuto negli anni ’80 nel corso della “presa del potere” dell’intero territorio da parte delle famiglie dei Casalesi. Proviamo a pensare a questo ragazzino di dodici anni che cresce per strada con il mito di Nino D’Angelo e del boss dietro l’angolo. Pensiamolo in branco con i suoi coetanei. Biciclette e fango, polvere e un pallone. E poi la strada, solo la strada. La strada che è come una porta aperta sulla vita, l’unica che si possa immaginare. La strada è anche aver un parente saltato per aria solo perché aveva fatto la scelta sbagliata cercando la via facile del potere reale. La strada è una scacciacani accattata solo perché “la tengono tutti”. «E quando la scacciacani è nella tua tasca fare il salto per usarla per una rapina può essere un attimo. Ci puoi pensare. È facile». E quando la madre del ragazzino quella “mezza” arma se la trova in casa sono guai, e guai grossi. «Ti ammazzo io prima che ti ammazzi tu». L’uomo di oggi ride ricordandosi le botte prese vent’anni fa. «La cinghia di mio padre me la sogno ancora di notte – racconta -. Quando hai quell’età e vivi la strada, quando cresci in questo posto con questi miti e con questi vuoti sei sospeso a mezz’aria. Basta un soffio di vento e ti ritrovi dalla parte sbagliata. Davvero, te lo giuro, basta niente».

Poi dopo qualche istante riprende «Oggi guardo questi ragazzini per strada e mi ricordo perfettamente di come ero io allora. Io sono loro. Identico – e indica mentre parla un gruppo di ragazzini che già hanno gli atteggiamenti di piccoli boss e soldati -. Se mia madre non mi avesse preso in tempo chissà che fine avrei fatto. Mia madre mi ha salvato la vita togliendomi di qua. Io so perfettamente che hanno per la testa ‘sti ragazzini. Io ero esattamente come loro».

Peppe Pagano nessuno sa chi sia, di lui non si parla sui giornali e meno che mai in televisione. Ma è un italiano che conta per la sua comunità, e non solo. E gli basta. Lui è un  pezzo della resistenza alla cancellazione di un Paese intero. Questo nostro Paese che ogni giorno perde un pezzo della propria identità. Conta, Peppe, forse più del politico di turno e più, perfino, del volatile potere del boss locale in ascesa. Conta perché con la sua semplice presenza, con  quello che fa ogni giorno in questa terra di cielo e merda, di fuochi e cemento, innesca il cambiamento. E il suo è un cambiamento che rimane, che ha radici profonde. Affondate nel sangue delle persone.

Peppe Pagano fa il presidente di una cooperativa sociale che si occupa di disagio mentale, la coop Agropoli. È un presidente particolare. Tutto meno che un manager. Da un lato inventore di un nuovo meccanismo di assistenza e integrazione. Dall’altro operatore e poi ancora filtro, macchina, parafulmine di un gruppo di utenti e operatori che alle porte di Casal di Principe, a San Cipriano, hanno cambiato qualcosa soltanto esistendo. Il modello è quello basagliano, l’azione semplice e straordinaria: aprire al centro del paese un ristorante dove lavorino i “matti”, fino a poco prima chiusi nelle case o negli istituti.

Quando Peppe parla di NCO gli si accende lo sguardo. “A criatura” non è certo la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. È una roba completamente diversa e dirompente. NCO è un ristorante nato come attività della cooperativa  Agropoli dall’azione congiunta di un gruppo di giovani di San Cipriano D’Aversa e dai genitori di ragazzi disabili. Nuova Cucina Organizzata. Sotto, al piano terra, il ristorante, sopra l’unità abitativa. Un nome, uno sberleffo. Una risata e poi lavoro e speranze per chi speranze non ne aveva più. NCO è stato il primo passo, un passo importante, sia per la lotta per la piena integrazione sociale di chi è colpito da disagio psichiatrico, che per la battaglia per la trasformazione di un territorio sociale devastato da decenni di sottosviluppo e di potere criminale.

«Sai – spiega Peppe – non mi pongo quasi mai il problema se quello che facciamo avrà un peso o no nella trasformazione culturale e sociale di questo territorio, se faccio questo o altro per lottare contro il potere mafioso. Io faccio questo e basta. Non giudico, non faccio comizi, non è il mio ruolo. Io sono un operatore e non un giudice o un politico». Però quello che fai cambia le cose. «Certo che le cambia. Crea degli spazi, mostra che ci sono delle altre possibilità che farsi complici o vittime o dover andare via. Questo è un posto senza piazze, senza luoghi di incontro, senza socialità, senza aggregazione. La gente per stare insieme prende la macchina e se ne va via al centro commerciale. Si chiude lì dentro, in un luogo senza storia e identità, in perfetta solitudine». E invece a NCO sei costretto a sporcarti le mani, a fare i conti con te stesso e con quelli che ti circondano.  Una pizza, una risata, il lavoro di chi lavoro non si sarebbe mai sognato d’avere. Non distingui se non per pochi dettagli assolutamente marginali chi sia l’utente del servizio o l’operatore. C’è altro da fare. C’è da gestire la cucina e la cassa, curare la “famiglia”, la casa, organizzare un catering per un matrimonio a fine settimana. E il paese piano piano ha risposto. E sono i giovani, prima di tutto, a venire in questo posto dove camorra e monnezza sono distanti galassie. A meno di un chilometro dalla villa di Sandokan, dietro l’angolo dove il “rispetto” è violenza e imposizione. E poi le discariche, della camorra e dello Stato (onnipresenti e che non sai neppure distinguere come a Ferrandelle e dintorni).

E la cosa più incredibile è che NCO fa utili. Che vengono reinvestiti. In parte per supplire agli immancabili ritardi della pubblica amministrazione nell’erogazione dei finanziamenti per gli stipendi degli operatori e in parte destinati a “allargare” il progetto. Come quella villa e quel giardino confiscati al boss Spirito e ora unità abitativa e luogo di aggregazione aperto alla città. La villa del boss ristrutturata con gli utili di una pizzeria. “Matti” e ragazzi, e un giardino che sembra un caos post moderno. Arte, musica, integrazione. E quel muro alto da trasformare. Da aprire. «Che facciamo di sto muro? All’inizio ovviamente abbiamo pensato la cosa più facile: abbatterlo. Poi abbiamo pensato a un gesto ancora più forte. Lo vogliamo bucare. Il muro che da barriera impermeabile diventa oggetto d’arte e opportunità». Poi Peppe ridendo ci trascina al primo piano dell’ex villa del boss e ci porta nel bagno di una delle stanze. Al centro un idromassaggio. «Lo vedi? Il simbolo del potere – e ride ancora – dove oggi ci si fa il bagno un ragazzo che tutte le istituzioni ritenevano non recuperabile, anzi, che addirittura siamo andati a recuperare in un istituto legato al letto, pieno di farmaci fino agli occhi. È lui oggi che si gode l’idromassaggio del boss». E non basta. «La cosa più incredibile e che appena crei opportunità le persone le usano, le fanno proprie. E conviene anche allo Stato. Se per un modello tradizionale, e che non prevede l’inclusione sociale dell’utente, il pubblico spende un tot, questo modello di assistenza, anzi di percorso, costa poco più della metà».

Sarà un caso che proprio questo servizio sia uno dei prossimi obiettivi dei prossimi tagli regionali da parte dell’assessorato alla Sanità? Sarà un caso che la logica manicomiale, che sopravvive nonostante la legge Basaglia, proprio in questo territorio, nell’ospedale psichiatrico criminale di Aversa, abbia uno dei suoi esempi più abberranti?

«Amico mio, ci sono ancora tante battaglie da vincere, tanti muri da bucare», dice Peppe mentre attende che arrivi la sera e inizi la prima festa aperta a tutti in questo giardino confiscato ai boss. E il paese piano piano entra dal cancello spalancato. Pizza e mozzarelle fresche e pomodori. E chiacchere e musica e un gruppo di ragazzi che ha messo in piedi uno spettacolo su Peppino Impastato. E la casa aperta a chiunque voglia entrare a vedere una mostra su Don Giuseppe Diana. Ucciso dalla camorra. Simbolo della resistenza della parte sana di questa società che non si vuole piegare al potere della connivenza e della violenza. E ancora un telescopio sul tetto per vedere le stelle. Alle dieci non c’è quasi neanche più spazio per muoversi. Il giardino è stracolmo di persone stupite. Stupite da se stesse. «Guarda – si lascia andare a fine serata Peppe -. Lo vedi? I muri hanno orecchie in questo posto. E questa volta hanno ascoltato bene».

NOTA DELL’AUTORE
Oggi le paure di tagli e di azioni per bloccare questa realtà si sono materializzate. Ecco l’articolo:
Colletti bianchi a Gomorra. Storia solo di ordinaria burocrazia?

Tratto da:
gliitaliani.it


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