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I fratelli d’Amico imprenditori cerniera tra boss e società civile. Secondo gli investigatori erano la cassaforte dei Mancuso

Imprenditori facoltosi della Piana di Gioia Tauro venivano collusi o protetti dai boss di ‘Ndrangheta con i quali facevano affari illeciti. E’ questo il quadro che si delinea dall’operazione “Petrolmafie Spa” che ha portato alla luce la "nefasta sinergia" tra mafie e colletti bianchi, impegnati in frodi fiscali miliardarie nel settore dei carburanti petroliferi. Tra i vari imprenditori finiti nelle maglie dei Finanzieri e dei Carabinieri del Ros, ci sono i Ruggiero. E in particolare Vincenzino, classe ’35, e il figlio Gianfranco, che il gip di Reggio Calabria definisce “collusi con le ‘Ndrine”. “I Ruggiero - rimarca il giudice - sono imprenditori di riferimento della cosca all'interno dell'area portuale gioiese e del territorio comunale, che hanno avuto "protezione" da parte dapprima di Mommo Molé, capobastone della cosca, e in seguito da parte dei Piromalli, fra cui Pino Piromalli, classe '45, detto “Facciazza”. L'inchiesta ripercorre infatti anche il tentativo della famiglia Ruggiero di inserirsi nelle attività di manutenzione dei container all’interno del porto di Gioia Tauro con l'avallo del potente clan dei Piromalli, riuscendo ad acquisirne l’appalto mentre tentavano - come emerge dall’inchiesta “Chiana Metaurus”, archiviata ma oggi tornata alla ribalta - di aggiudicarsi anche il ricco servizio della raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani, ritiro e smaltimento acque di sentina delle navi in transito al porto. Attraverso le vicende societarie si ha contezza della strategia, secondo gli inquirenti, messa in atto da Gianfranco Ruggiero il quale, costretto a cedere le quote di partecipazione della società “Inter Repairs Sud srl” al suo socio, a seguito degli intervenuti sequestri, avrebbe tentato di rientrare nella gestione dei servizi nel porto servendosi di prestanome. Ciò in palese disaccordo con lo zio Giovanni Ruggiero, classe '28, “il quale - scrivono gli inquirenti - ben sapendo chi erano gli effettivi proprietari dei servizi i portuali (i Piromalli), temendo le inevitabili attenzioni delle forze dell'ordine, aveva tentato invano dl dissuadere il nipote”. Ma c’è un altro elemento che porta ad affermare come l’attività non fosse condotta esclusivamente da Ruggiero: le dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia e massone Cosimo Virgilio che, avendo fatto in passato Io spedizioniere nel porto, descriveva la sua iniziativa imprenditoriale come una cosa di ‘Ndrangheta, su cui aveva investito direttamente il boss Mommo Molé. Questi, infatti, pur non figurando ufficialmente come socio, formava occultamente la compagine sociale dell’”Inter Repairs". Si trattava, come precisato da Viriglio, “del solito meccanismo di riciclo di denaro illecito che i Molè consegnavano alla loro cassaforte, Ruggiero, e che veniva poi ripulito inattività lecite e redditizie”. Ancora, in linea con quanto riferito dagli altri collaboratori di giustizia, le dichiarazioni rese da Pietro Mesiani Mazzacuva, che si sofferma sulla genesi del connubio criminale che aveva stretto don Vincenzino" al clan Molé, voluto in particolare dalla consorteria mafiosa per introdursi nei settori imprenditoriali curati da questo ramo della famiglia Ruggiero. “Penso che Mommo voleva riuscire a entrare in quel circuito imprenditoriale che Vincenzino Ruggiero conosceva bene, per questo gli chiese di fare compare d'anello per entrare in quel meccanismo”, dice al Pm Gianluca Gelso che gli chiede se “Vincenzino Ruggiero, l'anziano, aveva interesse alI’interno del porto di Gioia”. Mesiani risponde negativamente in riferimento a Vinecenzino Ruggiero sottolineando pero che “Gianfranco aveva una ditta che si occupava di cose frigorifere, l’Inter Repairs”. “Loro erano liberi di operare all’interno del porto o c'era qualche entratura, diciamo tramite famiglie mafiose?”, chiede quindi il magistrato. “Erano liberi - risponde il collaboratore - Gianfranco essendo compare di Mommo Molè, fino a che voglio dire i Molè, fino a febbraio 2008, ancora qualcosa contavano”. I Ruggiero, aggiunge Mesiani, “si diceva che erano più vicini ai Piromalli, mentre la famiglia di Vincenzino e Gianfranco si era avvicinata ai Molè, o più, i Molè si erano avvicinati a lui quando ha chiesto che Vincenzino gli facesse da compare d'anello, più che altro questo era, non il contrario”.

I rappresentanti del “mondo di mezzo” tra boss e società civile
Sempre riguardo gli imprenditori ritenuti vicini ai boss, gli investigatori ripongono le loro attenzioni sui fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico che rappresenterebbero quel “mondo di mezzo” capace dl mettere in contatto il boss vibonese Luigi Mancuso con il mondo dell’imprenditoria e della politica.
“Abbiamo fatto una scelta che… di una scala… quindi dobbiamo sapere che ognuno ha il proprio gradino… capito”. Così parlava l’imprenditore Giuseppe D'Amico per gli inquirenti la “scala” scelta sarebbe stata l’adesione al clan Mancuso. Con queste parole, scrivono i magistrati della Dda nel fermo dell'operazione “Petrolmafie spa”, “inequivocabilmente scolpiva l'appartenenza propria e dell’interlocutore a strutture criminali gerarchicamente organizzate, all'interno delle quali “ognuno ha il proprio gradino”. Con la fedina penale praticamente immacolata, i fratelli D'Amico avrebbero mantenuto, secondo la Dda, questa doppia veste: ufficialmente imprenditori di successo, in realtà cassaforte del clan Mancuso. Un altro dato sottolinea l'ambivalenza dei fratelli D'Amico. A portarlo all'attenzione dei magistrati della Dda è il collaboratore di giustizia Andrea Mantella. E’ lui a far mettere a verbale che “Pino D'Amico aveva la dote della Santa. anche se non so chi gliela avesse conferita”. Una dote, quella della Santa, che consente a chi ne fa parte di interloquire con la massoneria e talvolta di farne pure parte. Proprio la Santa emerge più volte nelle migliaia di pagine di fermo redatte dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dai pm Annamaria Frustaci, Antonio De Bernardo e Andrea Mancuso.
Giuseppe D'Amico viene infatti intercettato al telefono con un avvocato vibonese. Al centro del colloquio c’è l’adesione dell’imprenditore a una loggia di Lamezia Terme. Il professionista si mostra felice del “risultato che abbiamo avuto a Rom ...a Firenze”. “Uno della nostra loggia - spiega - diventato Gran secondo sorvegliante" e io sono “l’inquirente nazionale”... sono il pubblico ministero nazionale per quanto riguarda il "Tribunale Massonico”. Gli obiettivi delle telefonate tra D'Amico e l'avvocato sono due: fissare la data per la cerimonia di ingresso di D'Amico ma soprattutto coinvolgere II cugino presidente della Provincia. È proprio D'Amico a chiamare Solano: “Se ti fa piacere te ne vieni con noi a Lamezia… perché lui ha preso un bell'incarico, poi ti dico… ci servi amore mio, ci servi…”. Nel frattempo, è notizia di ieri, Il gip di Vibo non ha convalidato il fermo per i due fratelli D’Amico ma ha emesso una misura cautelare perché non ci sono secondo il gip di BVibo Valentia pericoli di fuga.

Fonte: La Gazzetta del Sud

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