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Alla ricerca del tempo perduto. Ma non come un Proust riverito dalla storia. Bensì come una sorella di vittima di mafia. Di un appuntato dei carabinieri falciato senza pietà da Cosa Nostra nella Palermo del 1983, quando la città era la capitale dell’Italia criminale.

Questo ha fatto Francesca Bommarito, siciliana arrivata per lavoro a Milano una vita fa, appena tre giorni dopo la laurea, perché questo le spettava di fare venendo da una famiglia di sette figli. Suo fratello Giuseppe era in servizio a Monreale. E visse in diretta un’esperienza unica nella storia d’Italia.

L’assassinio consecutivo di due comandanti dei carabinieri in una stessa città: Monreale, appunto, regno dei Brusca e di Riina. Prima Emanuele Basile nel 1980, poi Mario D’Aleo nel 1983. E proprio con D’Aleo l’appuntato condivise gli ultimi istanti di vita una sera di giugno insieme a un altro carabiniere, Pietro Morici. Lo avevano accompagnato davanti alla casa della fidanzata in via Scobar. E gli morirono accanto, in mezzo alle albicocche finite sull’asfalto e che Giuseppe aveva appena regalato al suo capitano.

Ecco, 40 anni dopo Francesca ha raccontato in un libro - “Albicocche e sangue” (Iod, 2022) - non solo quella sera di strazio, in cui in tivù ad “American Graffiti” subentrò d’improvviso un altro film, vero però, quello dei folti capelli neri di suo fratello intrisi di sangue. Ma ha raccontato anche e soprattutto la sua spasmodica ricerca del tempo perduto. Il tempo inafferrabile, disseminato di piccoli segni in grado di portarla via via verso una verità che appariva proibita. Ci ha messo decenni a scrivere questo libro, partendo dal nulla. Lei non investigatrice, lei priva di mezzi, è partita da un piccolo, quasi insignificante dettaglio.

Suo fratello, solo lui quella sera, venne ucciso da una lupara. Il tipo di armi usato parla sempre. Giuseppe non fu dunque ucciso “per caso”, come tutti le dissero per anni. Ma per punirlo di qualcosa, che emerse d’improvviso da una relazione di servizio sbucata da atti dimenticati. Non aveva obbedito, Giuseppe, al capomafia di Monreale che gli aveva intimato di non raccontare a nessuno di averlo sorpreso in riunione con l’ex sindaco dentro un mobilificio. L’appuntato aveva disobbedito e ne aveva scritto in un rapporto in caserma. Era perciò vittima designata quanto il suo capitano.

Quella di Francesca è stata un’odissea alla ricerca dei personaggi di un’epoca intera. Carabinieri, giudici, parenti, avvocati, giornalisti, politici. Anni ottanta e anni novanta e duemila. Per chiedere a colleghi e superiori. Ogni volta senza sapere chi avesse veramente di fronte. Un’odissea cosparsa di traditori, come se ne trovavano a grappoli in quella Palermo, dove si moriva per una soffiata in arrivo dai luoghi delle istituzioni. Fossero il palazzo di giustizia o la questura, la prefettura o la caserma.

Mette i brividi il suo racconto, a partire da quel maresciallo fermato per fortuna da un colonnello mentre taroccava la domanda di arruolamento di un aspirante carabiniere dai natali mafiosi per farlo entrare nell’Arma. Mette i brividi l’elenco delle persone che affettuosamente le chiedono un appunto, promettono una telefonata, assicurano di interessarsi e poi si eclissano.

L’altra sera a Trezzano sul Naviglio questa storia terribile e il coraggio con cui Francesca vi si è addentrata fino a un po’ di giustizia hanno suggerito che forse occorrerebbe più attenzione alle parole: la mafia oggi non è “ancora più forte di prima”. No, quegli anni non sono davvero gli stessi di oggi. Continuiamo a vedere e a indignarci, giustamente. Ma i tanti sacrifici qualcosa lo hanno pur ottenuto.

Questione di proporzioni. Questioni di gradi di consapevolezza, direte. Certo. Ma non è poco.

La lezione di Neruda è ancora la più vera: “venite a vedere il sangue per le strade, venite a vedere il sangue per le strade, venite a vedere il sangue per le strade”.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 27 febbraio

Foto @ Deb Photo

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