Francesca Bommarito: “Racconto la morte di mio fratello e due colleghi per riaprire le indagini e avere giustizia”

13 giugno 1983, via Scobar, Palermo. Un commando di Cosa nostra uccide tre carabinieri: il capitano Mario D’Aleo, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere scelto Pietro Morici. Un delitto efferato che passerà alla storia come “la strage di via Scobar”. Una strage che, solo successivamente, confermò ulteriormente il progetto mafioso di attacco allo Stato.
Gli esecutori materiali furono Michelangelo La Barbera, Francesco Paolo Anzelmo, Domenico Gangi, Giuseppe Giacomo Gambino e Salvatore Biondino. I mandanti, invece, Salvatore Riina, Michele Greco, Pippo Calò, AntonioNenèGeraci, Giuseppe Farinella, Raffaele Gangi e Francesco Madonia. Alcuni dei componenti della Cupola di Cosa nostra.
A distanza di 39 anni dal triplice omicidio, Francesca Bommarito - sorella dell’appuntato ucciso in via Scobar - ha ricostruito l’intera vicenda in un libro fresco di pubblicazione intitolato “Albicocche e sangue” (Ed. Iod), prefazione del consigliere togato al Csm Nino Di Matteo.. Lo definisce un “diario del dolore” Francesca, in una nostra intervista (che segue) al debutto della sua opera presentata a Balestrate lo scorso 26 luglio presso il “Museo del mare e delle tradizioni popolari”. Un evento intimo, ma molto partecipato, in cui la cittadinanza balestratese si è riunita attorno alla famiglia Bommarito per fare memoria di una strage e per commemorare un concittadino che ha sacrificato la sua vita per gli ideali su cui si fonda la nostra democrazia.


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All’incontro, organizzato dall’Ass. “Giuseppe Bommarito Contro le mafie Onlus” e l’Ass. “Rete Antimafia Brescia”, affianco all’autrice del libro sono intervenuti anche l’Assessora alla cultura del Comune di Balestrate Aurora Musso, Luigi De Magistris, già sindaco di Napoli, e Mario Bruno Belsito, presidente della “Rete Antimafia Brescia”. Presenti in sala anche l’onorevole Piera Aiello, deputata e testimone di giustizia; Giovanni Impastato, fratello di Peppino; ed Elia Minari, giurista e coordinatore dell’associazione Corto Circuito. La storia di Giuseppe Bommarito è quella di “un carabiniere semplice, con i valori di una famiglia del meridione, orgoglioso, semplice e coraggioso perché quando doveva fare relazioni di servizio non aveva paura a segnalare collusioni tra politici, faccendieri ed elementi della borghesia mafiosa - ha commentato De Magistris -. Per questo le mafie temevano carabinieri come Emanuele Basile, ad esempio. E non dimentichiamoci che negli anni ’80 ci fu una macelleria istituzionale”.
A seguire l’intervista a Francesca Bommarito.


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Francesca, perché “Albicocche e sangue”?
Ho scelto questo nome in onore a Mario D’Aleo, perché la sua compagna, Antonella Lorenzi, mi raccontò un aneddoto molto particolare. La sera della strage lei stava cucinando in attesa del rientro a casa del marito dal lavoro. Mi disse che Mario durante la giornata la telefonò diverse volte, più del solito, informandola di quello che stava facendo. Le sembrava teso e preoccupato. Mi parlò anche di un sopralluogo che iil Capitano D’Aleo fece in elicottero. Antonella mi disse che il compagno ultimamente appariva come uno che non avesse abbastanza tempo a sua disposizione e il poco tempo libero lo dedicava a studiare le carte. Quel giorno Mario assicurò ad Antonella che avrebbero cenato insieme. Antonella stava cucinando un coniglio che mio fratello Giuseppe aveva regalato al Capitano quando improvvisamente sentì una serie infinita di colpi in rapidissima successione. Mi disse che in un primo momento pensò ai fuochi d'artificio. Ma dopo qualche istante una vicina di casa bussò alla porta in lacrime. Un attimo dopo Antonella collegò i botti appena uditi a degli spari e il suo pensiero andò subito a Mario. Si precipitò immediatamente giù e vide il compagno supino a terra, immobile, coperto di sangue e con il giornale “L’Ora” tra le gambe. Pietro ancora al volante e Giuseppe bocconi, scivolato verso terra sul sedile posteriore dall'altro lato della macchina. Da quel momento in poi Antonella mi disse di non ricordare più nulla, fatta eccezione per alcuni odori: il profumo del coniglio in forno e l’odore acre del lago del sangue a terra che si confondeva con il profumo intenso delle albicocche, anche quelle donate da mio fratello Giuseppe (a testimonianza dell'amicizia che c'era fra i due). Da qui nasce il nome “Albicocche e sangue”.

Il libro è diviso in tre parti. La prima è un vero e proprio diario: “Il diario di una strage”
Si, ed è stato doloroso ricostruirlo. Ancora adesso ho difficoltà a parlarne. È come se quei momenti siano rimasti indelebili nella mia mente. La strage di via Scobar ha segnato un “prima” e un “dopo”. Da allora la nostra vita è cambiata e nulla è più come prima. A volte mentre scrivevo piangevo perché vivevo nuovamente qui momenti. Scrivendo questo diario ho provato anche tanta nostalgia. Nostalgia dei bei momenti, delle serate trascorse con tutta la famiglia riunita, allegramente, spensierata. A volte è difficile spiegare alle persone cosa può essere una famiglia, soprattutto una come la nostra. Eravamo una famiglia molto unita, ci aiutavamo l’un l’altro. Fortunatamente non si è perso del tutto questo senso di famiglia, ma molte cose purtroppo non ci sono più. Permane in noi un senso di malinconia costante. In certi momenti di spensieratezza mi capita di rivedere mio fratello e di rivivere quella tragedia… quei momenti bui.


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La prima presentazione del libro "Albicocche e sangue" a Balestrate


Con queste pagine ricostruisci un complesso puzzle fatto di “ibridi connubi” tra mafia, imprenditoria e politica in quel di Monreale
Con il libro ho cercato di ricostruire il filone investigativo di questa strage. Nel farlo ho provato malessere verso le tante persone che sembravano disposte ad ascoltarmi, quando in realtà questa storia non interessava a nessuno. Forse perché scomoda. Inizialmente pensavo fosse normale, provenendo da una famiglia con radici umili, non avendo cognomi altisonanti ed essendo mio fratello “solo” un appuntato dei carabinieri. Poi però, mossa da tanta amarezza ho rifiutato questo pensiero, perché le persone sono persone, indipendentemente dal titolo. E devo ringraziare mio padre per avermi trasmesso il suo carattere: non ho mai avuto paura di dire in faccia alle persone ciò che penso, siano esse generali dell’Arma, semplici carabinieri o cittadini. All’Arma ho sempre detto che mio fratello è morto perché al suo interno vi erano persone che erano mele marce. Persone che hanno tradito mio fratello.

Quando hai iniziato a ricostruire il filone investigativo c’è stato un elemento che ha suscitato particolare attenzione?
In realtà due elementi mi hanno subito incuriosita, e sono legati fra di loro. Il primo riguarda il ruolo e l’atteggiamento avuto nell’immediatezza della strage da parte dell’Arma.


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Monumento in memoria dell'Appuntato, Giuseppe Bommarito, a Balestrate (PA) © Deb Photo


Cioè?
Quando all’indomani del triplice omicidio sono andata a Palermo, alcuni colleghi di mio fratello della compagnia di Monreale, iniziarono a far circolare una voce secondo cui “Peppino (Giuseppe, ndr) era lì per caso. Il capitano lo aveva incontrato per strada e gli aveva dato un passaggio”.

E l’altra stranezza?
L’altro elemento che mi incuriosì fu il trattamento riservato dai mafiosi nei confronti di mio fratello. Giuseppe è stato l’unico dei tre ad essere stato ucciso con la lupara. La Storia mi insegna che con la lupara in Sicilia si uccidono gli infami. Allora perché mio fratello? Perché Giuseppe viene considerato un infame? E come mai questa volta la mafia non si è limitata ad uccidere solo il Capitano, come avvenne con Emanuele Basile? Che motivo c’era di uccidere anche l’autista e mio fratello? E, in relazione all’atteggiamento dei suoi colleghi, come mai uno che “è li per caso” viene ucciso con la lupara? La risposta sta nel fatto che Giuseppe era molto intelligente e un bravo investigatore. Era la memoria storica delle indagini e dell’operato del Capitano Basile. Per questo D’Aleo - entrato in sostituzione di Basile - si affidò all’appuntato Bommarito per conoscere il territorio e le inchieste svolte con il predecessore. Mario D’Aleo era un capitano molto bravo e intelligente. Trascorreva tante notti insonni per studiare, leggere e informarsi. Era una persona determinata ed ha pagato questa qualità con la vita.


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Credi si trattasse di un depistaggio?
Non mi sorprenderebbe la cosa, ma lascio che sia tu stesso a dare risposta al tuo interrogativo raccontandoti un altro aneddoto. La compagna di Mario D’Aleo, mi disse che lui annotava tutte le sue cose di lavoro in un diario che lasciava in caserma assieme al materiale sulle indagini che stava svolgendo. Ma un carabiniere le disse che la notte della strage alcuni ufficiali dell’Arma sono partiti da Palermo per recarsi nella caserma di Monreale e hanno svuotato tutto l’armadietto del Capitano D’Aleo. Cosa c’era là dentro? Cosa aveva annotato il capitano D’Aleo? E soprattutto, perché degli ufficiali hanno avuto l’esigenza di affrettarsi a impadronirsi di quella documentazione? Ecco… ora rispondi tu alla domanda: Potrebbe essere un depistaggio?

Torniamo al libro. “Albicocche e sangue” ha la prefazione del Consigliere togato al Csm Nino Di Matteo, un magistrato che ha condotto alcune delle indagini più scottanti del nostro Paese sulla mafia e sui rapporti che la stessa ha con il potere. Le sue sono parole che danno un valore aggiuntivo al libro.
Sì, è così. E posso dire una cosa? Io darei la vita per Nino Di Matteo, perché è un uomo che stimo tantissimo. Una persona umile. Quando lo contattai per proporgli l’idea di scrivere la prefazione al libro, accettando mi ringraziò dicendo: “Lei mi sta dando la possibilità di onorare la memoria di suo fratello”. Mio fratello sarebbe felice nel sapere che la prefazione di questo libro è scritta da un uomo integerrimo come Nino Di Matteo.

Il libro finisce con una tua confessione, per certi versi amara ma anche liberatoria. Scrivi che l’estenuante iter giudiziario non vi ha restituito vostro fratello ma non ha disatteso la speranza che avevate, fin dall’inizio, nella Giustizia
Sottolineo nuovamente queste parole. E ti dirò di più Jamil… la storia non finisce qui. Il mio impegno non si esaurisce con questo libro. Ho ancora qualche sassolino nelle scarpe che voglio togliermi.

Scriverai un secondo libro?
Assolutamente sì! Voglio far riaprire le indagini sulla strage di via Scobar. La verità va perseguita fino in fondo.
Il “Caso Bommarito” è ancora aperto…

In foto di copertina: Francesca Bommarito, sorella di Giuseppe Bommarito © Deb Photo

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