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di matteo lodato c jacopo bonfili 2di Paolo Borrometi
Intervista al sostituto procuratore che insieme al giornalista Saverio Lodato ha scritto "Il Patto Sporco". "Ci dobbiamo rendere conto che non parliamo soltanto di fatti di 25 anni fa, ma di fatti che coinvolgono la gestione del sistema di potere pubblico negli ultimi decenni con delle proiezioni certamente ancora nell’attualità"

Un “Patto sporco”. È quello che emerge dalla sentenza Stato-mafia ed è quanto riportato in un libro scritto a quattro mani dal sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, Nino Di Matteo e da Saverio Lodato (edito da Chiarelettere).

“Dal 20 aprile del 2018 abbiamo una sentenza di primo grado che certifica che la trattativa ci fu e che uomini dello Stato si resero complici dei vertici di Cosa Nostra nel ricatto nei confronti di quattro diversi governi della Repubblica”. Spiega Nino Di Matteo. “Per la giustizia ci sono voluti 25 anni per affermare con una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano quello che era accaduto ma mi chiedo, e con Saverio Lodato ci siamo chiesti in questo libro con una certa amarezza, se quanto oggi consacrato in una sentenza dei giudici non era conosciuto ben prima da soggetti, ambienti della politica e delle istituzioni che, invece di denunciare quello che era accaduto o quello che stava allora accadendo, hanno preferito tacere, hanno preferito nascondere, hanno addirittura preferito cercare di cancellare le prove di quel terribile connubio”.

Per i magistrati che si sono occupati della pubblica accusa nel processo “Trattativa” sono stati anni bui, fatti da continui tentativi di delegittimarli oltre alle minacce drammatiche che hanno subìto. Eppure la solidarietà istituzionale è stata pressoché nulla.
“Ci siamo scontrati con difficoltà di ogni tipo, non quelle naturalmente connesse alle indagini che colpiscono anche settori delle istituzioni quelle difficoltà ce le potevamo aspettare, ci siamo scontrati con una diffusa omertà istituzionale e con una resistenza anche delle parti sane del Paese che pensavano fosse inopportuno che lo Stato processasse sé stesso. Pensavano fosse inopportuno screditare con un’accusa così pesante settori dello Stato come l’Arma dei Carabinieri, settori dei servizi segreti e uomini politici. Ma noi ci siamo resi conto subito che, ovviamente, il nostro era un processo a singoli appartenenti a quei corpi, a quei settori, a quei partiti politici e non voleva criminalizzare nessun ambiente. Siamo andati avanti seguendo un principio: uno Stato che ha paura di far venire fuori e far emergere anche responsabilità dei propri esponenti rispetto fatti così gravi è uno Stato che non può essere autorevole”.

"Eppure dopo la sentenza del 20 aprile molto blanda è stata l’attenzione verso una sentenza che ha fatto la storia. I principali quotidiani, le principali testate televisive hanno parlato per un giorno di questo processo e di questa sentenza. Dopo il deposito delle motivazioni, che è avvenuto il 19 luglio del 2018, le stesse testate giornalistiche hanno parlato per mezza giornata di quelle motivazioni. Il tema è stato rimosso e questo Paese non può diventare un Paese senza memoria. Perché un Paese senza memoria, ne sono convinto da cittadino prima ancora che da magistrato, è un Paese senza futuro e senza coscienza dell’importanza e della memoria”.

Entrando nello specifico, quali sono i tre o quattro punti più importanti della sentenza?
“Sono tante le linee guida di quella sentenza, mi vengono in mente alcuni punti che mi permetto di ricordare. Il primo: la trattativa ci fu e il dialogo con i vertici di Cosa Nostra venne iniziato e venne cercato da esponenti dello Stato. La trattativa non evitò altro sangue, anzi provocò un ulteriore inasprimento della linea stragista. Riina in particolare quando seppe che attraverso Ciancimino alcuni ufficiali dei Carabinieri del Ros avevano cercato i vertici di Cosa Nostra si convinse che quello era il momento per fare altre stragi, per buttare sul piatto della bilancia della trattativa la violenza di altro sangue”.

E sulla strage che coinvolse Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta?

“È molto importante quello che è stato scritto a proposito dell’effetto che la trattativa può aver giocato sull’ accelerazione improvvisa dell’intenzione di uccidere il dottor Borsellino. Borsellino probabilmente aveva, se non saputo, cominciato ad intuire qualcosa sull’ esistenza della trattativa. È assolutamente plausibile che qualcuno avesse da temere che Borsellino avesse annotato quei suoi sospetti nell’agenda rossa che portava sempre con sé. È assolutamente plausibile, questo lo aggiungo io ma sulla base di elementi di fatto e processuali di particolare consistenza, che l’agenda rossa sia stata fatta sparire proprio per evitare che quei sospetti, potessero dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, trovare una conferma documentale in quell’agenda. E certamente, penso che lo possiamo affermare secondo un criterio di buon senso e logica ed esperienze di chi da molti anni si occupa di processi di mafia, l’agenda rossa non può essere stata fatta sparire dai mafiosi che hanno partecipato alla strage ma con ogni probabilità da uomini di uno Stato deviato che già in quel momento ha voluto nascondere elementi importanti per la ricostruzione del movente dell’uccisione del giudice e degli agenti della scorta”.

Alla luce delle sentenze è emerso il collegamento fra Cosa Nostra e l’imprenditore Silvio Berlusconi, con intermediario Marcello Dell’Utri.
“Nonostante un gravissimo silenzio e una gravissima ignoranza indotta nell’opinione pubblica sull’argomento noi avevamo già una sentenza che ha condannato definitivamente il senatore Dell’ Utri per concorso in associazione mafiosa che stabiliva e statuiva che l’allora imprenditore Silvio Berlusconi nel 1974 con l’intermediazione di Marcello Dell’ Utri avesse stipulato un patto con esponenti apicali, esponenti di vertice della Cosa Nostra palermitana. Patto di reciproca protezione e sostegno e che quel patto era stato rispettato dal 1974 almeno fino al 1992. Questa sentenza di primo grado della trattativa va oltre. È stato dimostrato che l’intermediazione di Dell’Utri è proseguita anche attraverso la trasmissione di messaggi e richieste di Cosa Nostra a Silvio Berlusconi anche dopo il 1992. Soprattutto dopo che Silvio Berlusconi, a seguito delle elezioni del marzo 1994, divenne Presidente del Consiglio. Quindi per la prima volta questa sentenza chiama in ballo Silvio Berlusconi non più come semplice imprenditore, ma come uomo politico e addirittura come Presidente del Consiglio".

Aggiunge il magistrato: "E c’è un passaggio che pochi hanno sottolineato che può essere incidentale ma è assolutamente indicativo della gravità del comportamento di Silvio Berlusconi che i giudici ritengono accertato, è un passaggio apparentemente slegato all’imputazione mossa a Dell’Utri in questo processo ma molto significativo. Si ritiene, da parte dei giudici, provato il dato che Silvio Berlusconi continuò a pagare ingenti somme di denaro a Cosa Nostra palermitana anche dopo essere diventato Presidente del Consiglio. Risultano annotati in un libro mastro della mafia palermitana movimenti di denaro e ricezione di una somma montante a centinaia di milioni da parte del gruppo imprenditoriale legato a Berlusconi anche dopo che Silvio Berlusconi aveva assunto la carica di Presidente del Consiglio. Un Presidente del Consiglio, se questo è vero, il capo di un governo della nostra Repubblica pagava Cosa Nostra. Rispetto a queste a tante altre conclusioni in questo Paese è importante conoscere. In questo Paese è sicuramente legittimo non condividere le conclusioni dei giudici. In questo Paese è fondamentale dibattere. In questo Paese ritengo invece essere grave la rimozione dell’argomento. Ecco perché un libro, un piccolo contributo può servire spero a stimolare l’approfondimento che ritengo essere doveroso per ogni cittadino. Ci dobbiamo rendere conto che non parliamo soltanto di fatti di 25 anni fa ma di fatti che coinvolgono la gestione del sistema di potere pubblico negli ultimi decenni con delle proiezioni certamente ancora nell’attualità. Discutiamo, non tutti possono essere d’accordo con lavoro che abbiamo fatto noi ma ignorare è peggio che certe volte essere pregiudizialmente contro”.

Fatti che rappresentano il “Patto sporco” indagati da Nino Di Matteo procuratore e raccontati nel libro a “quattro mani” con Saverio Lodato.

Tratto da: agi.it

In foto: il pm Nino Di Matteo insieme al giornalista e scrittore Saverio Lodato © Jacopo Bonfili

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