La massima istanza della giurisdizione penale, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, infine ha pronunciato, gettando un fascio di nuova luce sulla controversa materia del “saluto fascista”. In estrema sintesi, alla stregua del dispositivo e dello schema di motivazione letti all’esito dell’udienza, la Corte regolatrice sancisce l’antigiuridicità del saluto fascista nel corso di manifestazioni pubbliche, ancorché limitatamente al pericolo di “riorganizzazione” del partito fascista e fatti salvi i rituali di “commemorazione”. Cosicché, aderendo a uno specifico orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, correttamente individua nella sola legge Scelba del 1952 la previsione dell’“apologia del fascismo”.
Inoltre, il collegio unitario del giudice della legittimità esclude dalla materia il “principio di specialità” nella relazione con la legge Mancino del 1993, distinta da una maggiore genericità in ragione del divieto di frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l'incitamento all'odio, l'incitamento alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. In tal modo, significando la possibilità per il giudice di merito di applicare entrambe le disposizioni in concorso, in presenza dei necessari presupposti di fatto e di diritto.
Altro l’“apologia del fascismo”, che, per l’appunto, cade sotto le specifiche disposizioni della legge Scelba.
Ed ecco il punto dirimente. Alla luce della citata legge costituzionale del 1952, l’apologia del fascismo non deve necessariamente esprimersi attraverso atti di propaganda esplicita o violenza eversiva, in quanto che il delitto appare pienamente integrato anche in costanza della semplice e tipica gestualità del saluto di memoria fascista, a mente degli art. 1 e 5, in attuazione coerente della XII disposizione finale della Costituzione, nel prosieguo corroborata da plurime pronunce della Corte Costituzionale.
Se non che, mette conto osservare, il letterale tenore delle norme che occupano fa riferimento alle manifestazioni in senso lato, in modo indistinto, vale a dire indipendente dai contesti e dalle finalità dell’una o dell’altra. In breve, il divieto non contempla eccezioni, vedi caso per occasioni “commemorative”, se pubbliche, per la semplice ragione che la “pubblicità” in sé del saluto fascista, una delle “manifestazioni esteriori usuali del disciolto partito fascista”, vale come tale a integrare il delitto di “apologia del fascismo” e, finanche, di potenziale “riorganizzazione”, del tutto a prescindere da circostanze, intenzioni e pericoli ulteriori, insomma dalla situazione concreta nella quale siffatta gestualità si concreta.
Certamente, “riorganizzazione”. L’art. 1 della legge Scelba, infatti, sancisce che “si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista (anche) quando una associazione o un movimento compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. Semplici manifestazioni, dunque, tout court, anche in assenza di ulteriori evidenze e/o pericoli. Non occorre scomodare i rudimenti dell’ermeneutica, il senso dell’identificazione non potrebbe essere più chiaro!
Insomma, a nulla rileva, ai fini della ratio normativa, se i partecipanti alla “cerimonia” rappresentino o meno un pericolo, astratto o concreto e palese, per l’ordine pubblico, ovvero, che non riaprano la sede del partito fascista a Roma, in piazza Colonna o in via della Lungara! La semplice “manifestazione esteriore” del saluto si configura come intrinsecamente antigiuridica e, dunque, sufficiente, nella prospettiva del comando giuridico che esprime la volontà dello Stato democratico.
Quanto alle commemorazioni, in specie, v’è qualcosa di più.
In generale, si dovrebbero ragionevolmente impedire quegli eventi/sfide che possono suscitare controversie e presentare rischi. È del tutto evidente, che, in situazioni politiche sensibili, una cerimonia commemorativa, dunque celebrativa di una specifica memoria, può implementare o aumentare desideri di vendetta, catalizzando ulteriore violenza. Il principio logico-giuridico di precauzione esige una maggiore e doverosa attenzione, qualora si svolgano eventi altamente politicizzati, connessi pertanto con la volontà di potere politico, e di propaganda e proselitismo impliciti, oggettivamente difficili da controllare e modellare.
Al riguardo, lo storico israeliano Guy Beiner introduce il concetto di “decommemorating”, de-commemorazione, diniego, ossia, verso atti di commemorazione che potrebbero provocare violenza. I suoi studi, tuttavia, non suggeriscono di eliminare le commemorazioni in generale, ma che la de-commemorazione può paradossalmente funzionare come una forma di “ricordo ambiguo”.
Va da sé che la dibattuta questione è ben lungi dall’essere risolta, anche perché le singole sezioni della Corte Suprema hanno, de iure, la facoltà di non condividere i principi di diritto ora affermati dalle Sezioni Unite, le quali di conseguenza potrebbero essere ancora investite della questione.
La sentenza costituzionale n. 74/58, infatti, statuisce la legittimità costituzionale non solo delle sanzioni penali che prendono in considerazione gli atti finali e conclusivi di un’ipotetica riorganizzazione del partito fascista, bensì anche di quelli idonei a creare un effettivo pericolo di tale riorganizzazione, qualora il fatto, qualunque fatto, ancorché commemorativo, trovi nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo pervasivamente idoneo a provocare adesione e consensi e a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione.
Panoramica della sede della Cassazione
Dalle pronunce della Corte Costituzionale si desume come la fattispecie di cui all’art. 5 della legge Scelba configuri determinate condotte, in quanto tali, come un reato di pericolo concreto. In dottrina, peraltro, il contenuto delle manifestazioni simboliche che ricordano l’ideologia fascista o nazista assumono un rilievo decisivo sul piano della offensività, principio cardine della giurisdizione, a norma della XII Disposizione, senza alcuna necessità di individuare una idoneità concreta e funzionale alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, ove si svolgano in ambito pubblico, che per sua natura può consolidare il consenso intorno a tali idee e realizzare un effetto di turbamento della pacifica civile convivenza democratica.
Invero, anche alla luce dell’art. 10 CEDU, il quale, parimenti all’art. 21 Cost, garantisce all’individuo la libertà di manifestazione del pensiero e di stampa, tale principio consente la limitazione della predetta libertà in tre casi: quando tale restrizione sia espressamente prevista per legge, quando la conseguente interferenza col diritto di espressione persegua i fini previsti dal medesimo articolo 10 e quando l’interferenza si concretizzi in misure necessarie e proporzionali sia allo scopo perseguito, sia al fatto al quale s’intende reagire.
In definitiva, appare oltremodo arduo, oltremodo, che il giudice di merito, che non dispone di sfere di vetro e capacità divinatorie, nel singolo caso concreto riesca a valutare, con prognosi ex ante, le condizioni ambientali e psichiche esatte nelle quali il saluto fascista sia in grado di creare consenso e una base per la ricostruzione del partito fascista. Questa la ragione saliente per la quale la norma esclude ogni discrezionalità del giudizio e incrimina le condotte tipiche senza alcuna distinzione!
Nella trepidante attesa di un inevitabile, rinnovato “conflitto delle interpretazioni”, un promemoria per qualche... distratto.
In tempi recenti, la Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che: “Il “saluto fascista” o “saluto romano” costituisce una manifestazione gestuale che rimanda all’ideologia fascista e ai valori politici di discriminazione razziale e di intolleranza sanzionati dall’art. 2 del decreto-legge n. 122 del 1993, evidenziando che la fattispecie contestata non richiede che le manifestazioni siano caratterizzate da elementi di violenza, svolgendo una funzione di tutela preventiva, che è quella propria dei reati di pericolo astratto”.
Quindi il “saluto fascista”, in sé e per sé, integra la fattispecie per la connotazione di pubblicità che qualifica tale espressione gestuale, evocativa del disciolto partito fascista, che appare pregiudizievole dell’ordinamento democratico e dei valori che vi sono sottesi.
Conclusivamente.
Le precedenti argomentazioni della Suprema Corte forniscono una chiave di lettura in ordine al discrimine tra il delitto di esibizionismo razzista di cui all’art. 2 della Legge Mancino e il delitto di manifestazioni fasciste di cui all’art. 5 L. 645/52.
Il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni tipiche e connotanti il partito fascista può rilevare, va ribadito, ai sensi di entrambe le norme. La differenza tra le disposizioni menzionate inerisce al bene giuridico tutelato: quello dell’art. 2 della legge Mancino va individuato nell’ordine pubblico in senso materiale, vale a dire nella condizione di pacifica convivenza immune da disordine e violenza, mentre il bene giuridico tutelato dagli art. 1 e 5 della legge Scelba va rinvenuto nella sicurezza dell’ordinamento costituzionale.
Ne discende che la libertà di “braccia tese” à gogo confligge apertamente con l’ordinamento giuridico costituzionale e la legge penale, con buona pace della seconda carica dello Stato (sic), il gongolante Ignazio La Russa, e della sua ardente passione per i busti del duce. Per tacere - frange scopertamente eversive, alla CasaPound, a parte - di vaste frazioni di popolo, le cosiddette “zone grigie” del Paese.
Riguardo a queste ultime, vero è che la conclamata “estraneità al fascismo” rappresenta soltanto la precondizione necessaria, epperò del tutto insufficiente. In Assemblea Costituente, infatti, nella seduta del 13 marzo 1947, Aldo Moro argomentò con parole definitive, accolte con una forte ovazione, in merito all’implausibilità, al limite dell’insensatezza, e connesso rifiuto, dell’a-fascismo, giudicato un ostacolo alla “via lunga”. Una via, pare, smarrita, da ritrovare e percorrere. Ancora. Sempre.
E ci sovviene dello sgomento lucido di Pietro Nenni, nel 1922, poco prima del naufragio, davanti a troppi... “occhi bendati”. Invero, com’è indubbiamente vero, il passato non è una terra straniera e, anzi, può ritornare e ritorna, in forme sempre nuove, impreviste e imprevedibili, talora sorprendenti. Avanzando, anche nel nostro presente storico, abilmente e di necessità mascherato, un passo dopo l’altro...
“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”, scriveva George Orwell nell’immediato dopoguerra. La cui ‘utopia negativa’ suona, sì, come intransigente rifiuto del regime sovietico, ma focalizza altresì il tema generale del potere, delle sue perverse pratiche di controllo e manipolazione, finalizzate, per l’appunto, a un subdolo “controllo del presente e del futuro”.
Cinquant’anni dopo, uno storico autorevole, George Mosse, in singolare consonanza con la riflessione di Hannah Arendt, conclude e ammonisce che “il fascismo non è solo un problema del passato, bensì anche un problema del futuro”. E, al pari di Primo Levi, non pensa certo al ritorno del... duce!
“C’è ancora cammino da compiere, promesse da mantenere”, recita il poeta greco Konstantinos Kavafis. Memento.
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