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Silvio Berlusconi è morto!
Sono stati 86 anni vissuti pienamente durante i quali non si è fatto mancare nulla. Ha avuto ogni cosa dalla vita: innanzitutto la sua improvvisa e inspiegabile esplosione come imprenditore di grande talento, ma comunque sorto dal nulla. In pochissimo tempo riuscì a creare un vero impero economico - divenendo uno dei più ricchi uomini d’Italia (forse d’Europa), senza che nessuno mai fosse riuscito a conoscere l’origine delle sue fortune. Per dirla facile e comprensibile a tutti: da dove ha preso le iniziali finanze per dare corso alle sue titaniche imprese? Eppure avrebbe avuto l’occasione di spiegare ai cittadini questo arcano. Ma lo vedremo più innanzi.
E comunque così nacque “Milano due”, un’opera imponente dalla quale presero il via le sue molteplici attività in tutti i campi dell’economia italiana.
“Milano 2 è un quartiere residenziale sito nel territorio del comune italiano di Segrate, nella città metropolitana di Milano, e costruito negli anni settanta dalla Edilnord di Silvio Berlusconi.
La sua ascesa imprenditoriale è senza limiti; tutto merito della sua genialità assistita dalla grande creatività del suo più grande amico, Marcello Dell’Utri, che da vero Jolly, poteva avvalersi di uno stuolo di amicizie - per lo più, a dir poco, discutibili - che sapevano ben camminare anche in terreni fortemente accidentati.
Non parlerò della vita personale di Berlusconi, né della sua vita imprenditoriale, tanto meno delle sue notti pazzerelle hard o delle sue squadre di calcio. Lo hanno già fatto in tanti e, in questi giorni siamo tempestati di notizie che riguardano il personaggio.
Ovviamente questo sistema ha impedito all’opinione pubblica di farsi un’idea dell’attività finanziaria ed imprenditoriale di Silvio Berlusconi che altrimenti sarebbe venuta fuori nel corso dei processi.
Approfitto piuttosto dell’occasione per raccontare un aneddoto che mi vide partecipe in un’occasione in cui ebbi modo d’incontrare il cavaliere.
L’occasione fu il processo nei confronti di Marcello Dell’Utri con riguardo ai rapporti fra mafia e politica. 11 dicembre 2004, il Tribunale di Palermo condanna Dell’Utri a nove anni di reclusione con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, a due anni di libertà vigilata e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici oltre il risarcimento dei danni alle parti civili.
Nella sentenza si legge che Dell’Utri, con la sua varia ed intensa attività, ha contribuito, volontariamente, consapevolmente e concretamente al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di “Cosa Nostra” alla quale ha consentito ed offerto di entrare in contatto con ambienti e personaggi dell’economia e della finanza; circostanza questa che ha agevolato l’organizzazione criminale nel perseguimento dei propri fini economici e politici illeciti, con sistemica perseveranza.
Dal processo è emersa la prova che Dell’Utri si era implicato a tal punto da assicurare al sistema mafioso, specifici favori e sostegni in campo politico, soprattutto con la presentazione di proposte di legge vantaggiose per l’organizzazione che, in cambio – anche questo è stato ampiamente provato nel processo – gli avrebbe concesso un aperto consenso elettorale che si sarebbe manifestato nelle imminenti elezioni nazionali con il voto a “Forza Italia” ed alle successive elezioni europee con il sostegno della sua candidatura nella file dello stesso partito.
In appello, la condanna è stata ridotta a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa per i fatti accaduti sino al 1992, avendo ritenuto che Dell'Utri abbia intrattenuto stretti rapporti con le vecchie organizzazioni mafiose di Stefano Bontade, Totò Riina e Bernardo Provenzano sino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino, facendo da intermediario fra le organizzazioni malavitose e Silvio Berlusconi.
Tuttavia il 9 marzo 2012 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello, accogliendo così il ricorso della difesa avverso la condanna a sette anni.
E quindi al termine del nuovo processo d’appello, il 25 marzo 2013, la Corte di Appello di Palermo, accogliendo la richiesta del sostituto procuratore generale, Luigi Patronaggio, ha condannato Dell’Utri a sette anni di reclusione con l’obbligo di risarcire le spese legali alle parti civili (Comune e Provincia di Palermo). In buona sostanza è stata nuovamente accolta la tesi della Procura Generale secondo cui i rapporti di Dell’Utri con il mondo mafioso, erano proseguiti fino al 1992; circostanza che la Corte di Cassazione aveva ritenuto non sufficientemente provata.
Comunque la notizia sarebbe incompleta se non rilevassimo che, nella parte motiva della sentenza, la Suprema Corte sostiene che Marcello Dell’Utri fece da mediatore tra Berlusconi e la mafia in un momento in cui il Cavaliere era minacciato da Cosa Nostra; e lo fece sulla base di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri.

Nel corso del processo di primo grado la Procura della Repubblica di Palermo, chiamò Silvio Berlusconi a testimoniare nel processo Dell’Utri, disponendo un articolato di domande finalizzate ad accertare fatti e questioni di fondamentale importanza per il processo e dei quali solo lui poteva avere conoscenza. I pubblici ministeri, Gozzo ed Ingroia, volevano sapere quali fossero stati effettivamente i rapporti che Berlusconi aveva intrattenuto con Dell’Utri e con Gaetano Cinà, quali erano le ragioni per le quali aveva assunto lo stalliere Mangano (per garantire la sua incolumità personale) e tutto quello che ruotava intorno alla sua permanenza ad Arcore. Ma soprattutto, i PM volevano chiarimenti circa l’origine del patrimonio di Berlusconi, volevano che lui spiegasse quello che neanche il suo consulente, il Professore Iovenitti, aveva saputo spiegare in udienza: flussi di denaro dei quali non vi era traccia alcuna del percorso seguito, dall’origine alla destinazione; trasferimenti di denaro attraverso molteplici società - holding - costituite appositamente senza alcuna funzione istituzionale che non fosse quella di rendere più complesso e non tracciabile il percorso del denaro, al solo fine di renderne meno identificabile la sua origine.
Fu così che dopo diversi tentativi nei quali Berlusconi aveva sempre trovato delle buone ragioni per non presentarsi in aula, finalmente acconsentì alla richiesta dei pubblici ministeri avvalendosi però delle prerogative riconosciute al Presidente del Consiglio che gli consentivano di farsi interrogare a domicilio.
Era il 26 novembre 2002 quando ci presentammo a Palazzo Chigi. Eravamo un folto gruppo: i due pubblici ministeri, Gozzo ed Ingroia con le loro rispettive assistenti, io e Francesco Giuffrida, consulenti della Procura e perfino il maresciallo Giuseppe Ciuro, prima del suo tradimento che sarebbe maturato da li a qualche anno dopo.
L’udienza era stata fissata per il pomeriggio, alle ore 17; ma già in albergo, il Presidente della seconda sezione del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, in trasferta con gli altri componenti del collegio giudicante e l’assistente di cancelleria, ci aveva dato ragguagli circa il cerimoniale che sarebbe seguito, in quanto preventivamente concordato con la segreteria di Palazzo Chigi. Ci spiegò come sarebbe stata ricostruita l’aula del Tribunale e le posizioni che ciascuno di noi avrebbe occupato. Ci disse anche che, per ragioni di sicurezza, ci avrebbero fatto entrare da un ingresso laterale. Immaginammo subito che il vero scopo era quello di non farci incontrare i giornalisti, che sostavano davanti all’ingresso principale di via del corso, ancor prima dell’udienza. Entrammo in un cortile interno, dove fummo ricevuti da un addetto al cerimoniale del Palazzo del Governo e, attraverso scale, corridoi e stanze varie, fummo condotti in una grande sala, dove riconobbi subito l’avvocato Ghedini e l’onorevole Bonaiuti; ma c’era anche tanta altra gente. Furono tutti molto cordiali e dopo brevi convenevoli passammo nella stanza successiva: una grande sala tappezzata con tessuti verdi – si dice che fosse quella in cui il capo del governo incontrava le rappresentanze sindacali – al centro della quale vi era un lunghissimo e largo tavolo dalle estremità arrotondate. Ci sistemammo subito all’estremità di destra di questo tavolo – come ci era stato raccomandato; nei lati lunghi del tavolo si fronteggiavano, alla nostra sinistra, il tribunale (il presidente e due giudici a latere e l’assistente di cancelleria), alla nostra destra, il collegio di difesa.
Il presidente Guarnotta, dette ritualmente inizio all’udienza fin quando chiese di ammettere il teste in aula. Berlusconi uscì da una porta e fu tale la prontezza dei suoi difensori a scattare in piedi che, qualcuno di loro fece cadere una sedia che procurò un beffardo trambusto anche a causa del fragoroso fracasso. Il cavaliere si portò all’estremità opposta alla nostra postazione e, per quanto fosse lontanissimo, si notò subito il suo fastidio e l’atteggiamento di assoluto voluto distacco; si capì subito che voleva far presto e che considerava quella circostanza una sorta di messinscena che gli faceva perdere tempo; guardò a lungo i suoi avvocati, quasi a volergli ricordare la sua intenzione di avvalersi della facoltà di non rispondere. Aveva il tronco del corpo rigido, la mascella tesa e lo sguardo torvo ed i movimenti delle sue mani manifestavano un’incontinente nervosismo.
Quando il presidente gli chiese ritualmente se intendeva rispondere alle domande dei pubblici ministeri o se ritenesse di volersi avvalere della facoltà di non rispondere, Berlusconi rispose subito, molto sinteticamente, confermando questa seconda volontà.
Bene! Allora era finito tutto. L’udienza poteva ritenersi conclusa con grande compiacimento per il cavaliere e per i suoi avvocati che già pregustavano la soddisfazione della vittoria per essere riusciti nel loro intento: quello di avere ridicolizzato la Procura chiudendo in pochi minuti la partita.
Ma non fu così! Prontamente Antonio Ingroia, rivolgendosi al presidente del Tribunale, chiese la parola. Gli fu concessa ma non potemmo fare a meno di intercettare il grande disappunto di Berlusconi che non mancò di fulminare con gli occhi i suoi legali - peraltro rimasti sorpresi e spiazzati per l’inattesa iniziativa dei pubblici ministeri - quasi a volergli sollecitare un intervento che ponesse fine a quel tormento.
Antonio Ingroia parlò tanto, più di quanto ciascuno di noi potesse immaginare, più di quanto lo stesso presidente, anche lui colto di sorpresa, potesse figurarsi.
L’intervento di Ingroia era direttamente indirizzato a Berlusconi e lo pronunciò guardandolo negli occhi: lo invitava, con voce stentorea, a fare chiarezza, a collaborare in favore dell’accertamento della verità, anche per sgomberare il campo da tutta una serie di dubbi e di ombre che volteggiavano intorno alla sua persona. Il cavaliere guardava con insistenza i suoi avvocati ai quali rivolgeva occhiate infuocate alternate ad altrettanti fulminanti sguardi ai pubblici ministeri.
Comunque l’udienza ebbe termine, quando il presidente ne dichiarò la chiusura dopo avere appreso ancora una volta da Berlusconi che non aveva intenzione di rispondere.
Il cavaliere si alzò in piedi e si avviò verso l’uscita quando i suoi legali gli fecero capannello intorno, come a volergli assicurare una protezione; quella protezione che forse non avevano saputo dargli nel corso dell’udienza e che lui tanto aveva invocato con gli occhi al fine di essere tolto immediatamente dall’impiccio. L’abbiamo visto sparire, attraverso una porta laterale, coperto dai suoi.
Francamente non ricordo – mi sarà sfuggito – se Berlusconi abbia rivolto un saluto agli intervenuti, prima di allontanarsi.

Andammo via, dopo esserci intrattenuti molto brevemente con il collegio di difesa per freddissimi convenevoli, ripercorrendo all’inverso il percorso che avevamo già fatto prima. Uscimmo dalla stessa porta posteriore del palazzo per lasciare spazio ai giornalisti che, davanti all’ingresso principale, incontravano i legali del cavaliere i quali intenzionalmente si erano riservati la possibilità di offrire la loro versione dei fatti.

Comunque i giornalisti ci raggiunsero in albergo, dove Ingroia e Gozzo rilasciarono le loro interviste.

Fu un’esperienza importante, che lasciò un segno indelebile nella mia vita professionale, per via della delicatezza dell’evento che mi aveva comunque consentito di essere parte in una vicenda della nostra storia politica in cui un capo di governo aveva dato un pessimo esempio di democrazia; in quell’occasione Berlusconi, per quanto avesse ottenuto il proprio scopo – quello di non rispondere alle domande dei pubblici ministeri di Palermo – era comunque perdente. Adesso, dopo la sua scomparsa, questo episodio resta scritto e depositato agli atti della sua rovinosa avventura giudiziaria. E non possiamo fare a meno di ricordarcene perché questa storia sta a rappresentare la ferrea volontà di un ex capo di Stato scorretto e di cattivo esempio, convinto – come è sempre stato nel corso dei suoi mandati – di essere al di sopra delle leggi nei confronti delle quali dimostrava un evidente intolleranza.

Adesso, dopo la sua morte, pur umanamente rispettosi, non possiamo che riconoscere come Berlusconi, sotto il profilo politico, abbia cambiato la cultura del nostro Paese avvincendo tutta quella nuova generazione che fortemente delusa da una classe politica e dirigenziale inadatta a governare il Paese e da uno Stato assente e incapace di tutelare le generazioni future, si è fatta abbindolare dalla nascita di un uomo nuovo, capace di sfoggiare il proprio talento in tutti i campi della conoscenza umana, potenzialmente salvatore della nazione e, soprattutto fornito di una indiscutibile capacità di comunicazione. Eppure la sua storia, dopo la sua morte, continua inesorabilmente a vivere, a consegnarci un ex capo del Governo autore di crimini ineffabili costellati di segreti che il cavaliere ha portato con sé dentro il suo mausoleo. E quell’episodio che ho narrato, da me vissuto direttamente altro non è che l’espressione più platealmente irrispettosa dei poteri dello Stato, dei diritti della collettività e della democrazia conquistata con il sacrificio di tanti partigiani.

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