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pasolini massacro di un poetadi Pietro Orsatti
Quanto sappiamo della morte di Pier Paolo Pasolini? Poco. O peggio, troppo. Talmente troppo da non riuscire mai a trovare un punto fermo di verità. In quanti si sono mossi per mettere insieme lo scempio di un corpo, di un sogno, di un'idea? Una folla. Chi ha cercato di depistare in ogni modo quello che accadde la notte fra il 1 e 2 novembre 1975 all'Idroscalo? Tutti, perfino alcuni amici. Per pudore, per paura. Ci sono ancora cose da sapere sul massacro del poeta eretico? Tutto. Ecco, forse sono queste le domande da cui è partito uno dei lavori di inchiesta più interessanti pubblicato negli ultimi mesi.

Leggere “Pasolini, massacro di un poeta” di Simona Zecchi (Ponte alle Grazie) fa tornare voglia di fare inchiesta “vecchio stile”. Quel modo di fare giornalismo che ormai è diventato un lusso. Che dovrebbe essere indispensabile ma che il marketing – e la politica – ritengono superfluo. Ma l'autrice ha testa dura e scarpe buone. E coraggio. E dopo anni di lavoro ci propone una ricostruzione dell'omicidio Pasolini che appare la più credibile fra tutte quelle emerse fino ad oggi, che siano state frutto di processi o di inchieste gornalistiche. Simona ha lavorato sulle carte, intercettato le contraddizioni di tutte le inchieste giudiziarie che hanno cercato di dare senso a quella notte, ha cercato documenti scomparsi, ha ritrovato prove scartate dagli inquirenti o nascoste dalle tante veloci mani di depistatori professionisti che hanno segnato per troppo tempo la storia del nostro Paese.

L'autrice parte dalle minacce ricevute da Pasolini nei mesi che hanno preceduto la sua terribile morte. E poi affonda spietata la sua attenzione nella dinamica di quel delitto. Dove Pelosi, l'unico condannato, è si protagonista ma non tanto per il suo ruolo materiale nello strazio del corpo del poeta quanto nella costruzione meticolosa e attenta di un aguato. E di un massacro tribale. A cui partecipano appartenenti alla criminalità romana, eversori neri, picchiatori, perfino un appartenente alla Banda dei Marsigliesi (che all'epoca non era ancora stata soppiantata da quella della Magliana ancora non nata). E poi in quinta - ma non estranei alla scena - una folla di teorici dell'eversione, facce mascherate di appartenenti agli apparati dello Stato, manipolatori professionisti dell'informazione. Fisicamente più di dieci persone a massacrare Pasolini, poi una folla di spettatori e poi il solito impasto di malacarne disgustoso che ha segnato – e a volte segna ancora – la vita del nostro Paese.

Prove ritrovate, documenti e testimonianze inedite, un lavoro di ricostruzione che se non “definitivo” è certamente il più credibile finora proposto e il  punto di partenza per avvicinarsi alla verità. Dopo 40 anni.

Il libro di Simona mi ha colpito anche per un'altra ragione. Perché si intreccia strettamente con il mio lavoro degli ultimi anni. Perché quel rito osceno, quel massacro tribale, sembra essere stato il momento di sintesi in cui si è sancito un patto. Di potere ancor prima che criminale. Dove criminali, marchettari, spacciatori, terroristi, eversori, pidduisti, ex repubblichini, apparenti fedeli servi dello stato, giornalisti avessero scelto il simbolo da rimuovere. Tutti insieme. Un poeta. Un intellettuale. Una voce. Che faceva paura. E che doveva essere tolto di mezzo nel modo più feroce possibile.

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