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di-matteo-masidi Sara Donatelli - 28 luglio 2014
E’ il 2001. Un Maresciallo si presenta al Nucleo Provinciale di Palermo chiedendo di occuparsi della cattura di Bernardo Provenzano ma viene fin da subito allontanato dal capoluogo siciliano e spedito a Caltavuturo, sulle Madonie. Il carabiniere però non si rassegna e, di propria iniziativa, si mette sulle tracce del boss e si sorprende quando, con pochi mezzi e consultando vecchi verbali, riesce ad individuare un contatore Enel riferibile a chi gestisce la latitanza di Provenzano. Ma le cose non vanno sempre come si pensa, o come si vorrebbe. Difficile infatti immaginare la reazione del Maresciallo quando i superiori gli ordinano di sospendere le indagini. Stesso copione, o quasi, per la cattura di Matteo Messina Denaro.

Ad oggi il nostro Stato rischia, consapevolmente, di perdere uno dei suoi uomini migliori. Il motivo? Una sanzione del codice della strada di 106 euro comminatagli mentre usava l’auto privata durante un’operazione di polizia giudiziaria. Siamo nel 2008, ed una volta arrivata la contravvenzione, l’agente scrive alla Prefettura una relazione nella quale dichiara di essere stato multato durante il servizio. A tale relazione allega una lettera di accompagno di un suo più alto grado che, causa assenza di quest’ultimo, viene firmata dal Maresciallo con l’aggiunta della dicitura “Assente per servizio”. Ma i suoi superiori dichiarano di non averlo mai autorizzato ad usare vetture private e che l’uso di queste è di regola escluso dalle indagini di polizia giudiziaria. Il Maresciallo viene, per tale motivazione, rinviato a giudizio e processato per i reati di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2011 viene condannato in primo grado alla pena di otto mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali per falso materiale, falso ideologico e truffa. Lo scorso 8 ottobre la Corte d’Appello di Palermo, assolvendo il Maresciallo per il reato di falso ideologico, ha effettivamente accertato che quel giorno il carabiniere fosse effettivamente in servizio e che quindi il problema è esclusivamente limitato al fatto che, secondo i giudici, avrebbe messo la firma di un’altra persona per dichiarare il vero. Restano però le accuse di falso materiale e truffa. In base all’articolo 33 del codice penale militare di pace, applicabile ai militari, il Maresciallo rischia la destituzione: la perdita del lavoro, che è sempre stato il suo sogno fin da ragazzo, convinto che avrebbe collaborato con Paolo Borsellino e che oggi è l'unica fonte di sostentamento per sé, la sua famiglia e gli avvocati che è costretto a pagare per difendersi. Una destituzione, la sua, che rappresenterebbe una ben più rilevante perdita per noi che non potremmo conservare la speranza di uno Stato che davvero voglia combattere la mafia. Una possibilità che farebbe comodo a molti, soprattutto come monito a chi intenda seguire il suo esempio. L’avvocato difensore ha svolto indagini con l’audizione di testimoni (anch’essi carabinieri) che confermano l’uso ripetuto e continuativo di autovetture private per indagini investigative e l’ufficiosità di questa procedura. Sempre il legale ha chiesto al Comando dell’Arma dei Carabinieri l’accesso ad atti quali i fogli di viaggio e i memoriali di servizio (i cosiddetti “brogliacci”) compresi tra il 2000 e il 2008 che confermerebbero l’assenza di tracce scritte dell’uso di auto private nelle varie indagini. Richiesta rifiutata. Il Maresciallo ha inoltre chiesto l’acquisizione della copia del suo passaporto e di una relazione di servizio come prova della mancata volontà di contraffare la nota di servizio con il nominativo del suo superiore nella quale era infatti apposta la scritta “A.P.S.”. Richiesta rifiutata. Il 30 ottobre arriverà la sentenza in Cassazione. C’è un uomo dietro la divisa. E quell’uomo si chiama Saverio Masi. Memoria storica dell’antimafia siciliana, una delle fonti più attendibili. Un uomo che ha investigato per anni la criminalità organizzata. Prima la camorra a Napoli, poi la mafia a Palermo. Un uomo che ha deciso di non tenere solo per sé un grande fardello che costituisce uno dei buchi neri delle forze dell’ordine in Sicilia e che a maggio ha presentato presso la Procura del capoluogo siciliano, assieme all’ex collega Salvatore Fiducia, un esposto nel quale accusa i suoi superiori di aver ostacolato la cattura dei boss Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Saverio Masi è anche il testimone che depose il 21 dicembre 2010 nel processo contro il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano e che deporrà nel processo per la trattativa Stato-mafia per riferire, come si legge nella lista testimoniale della procura, sugli ostacoli incontrati nell’abito della sua attività investigativa finalizzata alla cattura di Provenzano. Saverio Masi oggi è il caposcorta del PM Antonino Di Matteo. Difficile non percepire dunque l’ipocrisia di uno Stato che costringe i suoi servitori ad uscire fuori dalle “regole” (utilizzando, per esempio, autovetture private per assenza di disponibilità o per ragioni di “sicurezza” per continuare ad arrestare latitanti) e che poi li lascia al loro destino quando, per una ragione o per un’altra, queste procedure ufficiose diventano oggetto di azioni disciplinari o, peggio, penali. Tutto ciò appare come un semplice pretesto per bloccare, punire e mettere a tacere un uomo scomodo che fa paura perché in grado di far udire nel silenzio circostante la propria voce, per quanto ancora volontariamente ignorata. Colpirne uno per educarne cento. Ma in tutta questa brutta storia, niente e nessuno potrà mai mettere a tacere, o nascondere, la grande dignità di chi, sfidando un sistema di potere, ha continuato a testimoniare una verità scomoda.

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