La trattativa Stato-Mafia? “Una favoletta”. “L'assoluzione di Mannino comporta quella degli ufficiali del Ros”. Il dialogo con Ciancimino? “Attività per trasformarlo in un confidente”. La sentenza di primo grado? “Fallace sulla minaccia al Governo con almeno cinque salti logici”.
E poi ancora: "Subranni incarica a Mori ma dove è la prova? Mori va a trattare con Ciancimino. Dove è la prova? Francesco Di Maggio parla con il ministro Conso, ma dove è la prova? Non c'è".
Sono queste alcune delle argomentazioni che l'avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mario Mori (condannato in primo grado a dodici anni) oggi ha espresso durante la propria discussione nel processo d'appello sulla trattativa Stato-mafia prima di chiedere l'assoluzione per il proprio assistito "perché il fatto non sussiste" o "perché non lo ha commesso".
Una lunga arringa difensiva nel tentativo di smontare la sentenza di primo grado, dove furono ritenute dimostrate le responsabilità del Ros per i fatti commessi fino al 1993 nel veicolare la minaccia di Cosa nostra fino al cuore dello Stato. Un'azione che iniziò con quell'apertura del dialogo con Cosa nostra, dapprima agganciando Massimo Ciancimino e poi direttamente relazionandosi con il padre Vito come interlocutore.
Il reato contestato
Per Milio, che ha voluto ricordare come il reato contestato non sia quello della “trattativa”, la prova della minaccia è inesistente.
“La minaccia deve avere un intento minatorio - ha detto rivolgendosi alla Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino - secondo l'accusa sarebbe stata fatta nel 1993. Quando l'ex ministro Calogero Mannino, minacciato da Cosa nostra, incarica il generale Antonio Subranni (anche lui imputato ndr), che a sua volta incarica il generale Mario Mori che incarica il colonnello Giuseppe De Donno (imputato ndr), che vanno a parlare con Vito Ciancimino. Da lì, secondo l'accusa, nasce la trattativa che poi sfocia nella mancata proroga di oltre 300 detenuti al carcere duro del 41 bis".
Sul punto, nel processo di primo grado, il pm Roberto Tartaglia spiegò in maniera esaustiva quello che fu il ruolo di mediazione contestato con l'articolo 338 (attentato a corpo politico dello Stato). “Anche in questo caso c’è una minaccia e una intimidazione. Quella minaccia è volta a una richiesta che non sarà il contributo per i carcerati, ma c’è una richiesta finalizzata. Abbiamo soggetti istituzionali che intervengono per interrompere quella intimidazione per far cessare l’azione repressiva. La Cassazione pone tre condizioni per dimostrare quando il mediatore risponde di dolo e quando no. La prima: il mediatore se non vuole essere punito deve aver agito su richiesta della persona offesa e non agendo autonomamente o su input di terze persone. La seconda: il mediatore per non essere punito deve aver agito nell’interesse esclusivo della persona offesa. La terza è l’effetto delle prime due: la cassazione dice che il mediatore agisce nell’interesse della persona offesa ma con modalità di tale protezione per chi ha commesso quelle condotte che hanno messo in guardia gli autori dei reati, proteggendo gli autori del reato e creando un cono d’ombra. Questo si chiama concorso in reato di estorsione. Nessuna di queste condizioni è rispettata da Mori, De Donno, Subranni e Dell’Utri”.
L'ex ministro, Calogero Mannino © Imagoeconomica
“La spaccatura Riina-Provenzano”
“Per i giudici di primo grado - ha detto Milio - ciò sarebbe avvenuto il 27 luglio 1993 quando Mori si reca da Di Maggio, vice direttore delle carceri, per parlare del 'problema dei detenuti mafiosi' e rappresentargli la spaccatura tra Riina e Provenzano, quindi facendo poi maturare in Conso l'opportunità di non prorogare il 41 bis. Elementi che avrebbe saputo da Vito Ciancimino e da Totò Cancemi, che si era consegnato appena quattro giorni prima. Peccato che non andò così”.
Ovviamente il legale ha confermato quanto disse Mori (“Il riferimento alle carceri era per le voci che si erano diffuse di un possibile allentamento del 41 bis”) ed ha fatto riferimento al dato che Cancemi non parlò con i carabinieri, né di Riina, né di Provenzano.
Eppure vale la pena ricordare quanto disse Cancemi (deceduto il 14 gennaio del 2011) nell'intervista rilasciata al nostro direttore le cui registrazioni sono state acquisite agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia). In quei colloqui, poi confluiti nel libro: “Riina mi fece i nomi di…" (ed. Massari), l'ex boss di Porta Nuova affrontava i temi più delicati della sua collaborazione: dal ruolo di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi nelle stragi, fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano. Una cattura che sarebbe stata possibile lo stesso giorno in cui Salvatore Cancemi si era consegnato ai carabinieri della caserma Carini di Palermo.
Quindi, nell'affermare che non vi era alcuna spaccatura tra Provenzano e Riina, si dimenticano le parole dello stesso Borsellino che, prima di morire, in un’intervista disse che “Riina e Provenzano erano come due pugili sul ring”.
E al contempo non sono state ricordate le rilevanti dichiarazioni del pentito Nino Giuffré il quale disse che al momento della cattura di Riina “Provenzano commentò che 'sono dei sacrifici che vanno fatti agli dei'”.
Le vecchie sentenze e il “muro contro muro”
Proseguendo la propria discussione Milio ha evidenziato le sentenze definitive sul mancato blitz di Mezzojuso, della mancata perquisizione del covo di Riina, ma anche la sentenza definitiva Mannino.
“L'assunto di questo processo - ha detto - è la trattativa, presunta, tra Stato e mafia. Che sarebbe stata avviata dall'ex ministro Calogero Mannino il quale, temendo per la sua vita, avrebbe chiesto 'aiuto' al generale Subranni. Mannino - come sappiamo - è stato assolto per non avere commesso il fatto. La sentenza è definitiva. Da questo ne deve derivare quindi l'assoluzione di Subranni e di conseguenza anche quella di Mori e De Donno, perché se Mannino non ha chiesto a Subranni di intervenire allo stesso modo Mori e De Donno non hanno ricevuto alcun incarico in merito da Subranni stesso". “I giudici della sentenza Mannino scrivono che - ha aggiunto Milio - i contatti 'Ros-Ciancimino' sono di tipo investigativo e intrattenuti all'unico scopo di arrestare i latitanti e mettere fine alle stragi. La verità è che Mori non ha fatto alcuna minaccia, da qualsiasi lato la si voglia guardare".
Argomentazioni riprese anche nel tentativo di spiegare le note parole di Mori al processo di Firenze, nella deposizione del 27 gennaio 1998, sul “muro contro muro”. ("Dissi a Ciancimino, ormai c'è un muro contro muro. Ma non si può parlare con questa gente? Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?'' La buttai lì convinto che lui dicesse: ''cosa vuole da me colonnello?'' Invece dice: ''ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo''. E allora restammo ... dissi: ''allora provi''). Per la difesa quell'azione rientrava in una strategia investigativa messa in atto per portare Ciancimino ad essere un “confidente infiltrato” e successivamente a “collaborare”. Ma se davvero era tutto così limpido come mai l'autorità giudiziaria al tempo, nonostante vi fosse l'obbligo, non fu mai informata e non fu trovata alcuna relazione scritta?
Quell'iniziativa del Ros, si legge nella sentenza di Firenze, “aveva tutte le caratteristiche per apparire come una 'trattativa'; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione (trattativa Ciancimino, ndr)”. Ed infatti quel dialogo, che a detta del Ros era volto ad evitare altre stragi e ad arrestare latitanti, effettivamente portò all’arresto di Riina (anche se è automatico chiedersi a che prezzo visto che la mancata perquisizione del Covo resta una delle pagine più buie della storia) ma certamente non impedì gli attentati che, è noto, proseguirono anche nel 1993.
Un argomento su cui anche la Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto era tornato: “E’ ferma convinzione della Corte che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”.
Nel botta e risposta a colpi di sentenze l'avvocato di Mori ha anche ricordato come, rispetto a quell'iniziativa del Ros, i giudici del processo Mori-Obinu definirono come lodevole e meritoria quell'iniziativa, alla luce del momento storico in cui si viveva (ovvero nel pieno delle stragi).
Ovviamente tra le “lodi”, omesse nella ricostruzione della difesa del generale, le considerazioni presenti tanto nella sentenza Mori-Obinu quanto in quella Mori-De Caprio, che rappresentano le “zone d’ombra” sull'operato di questi. Nelle motivazioni di secondo grado dei giudici della Quinta sezione della corte d'Appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale (a latere Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco), è scritto che “le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare”.
L'ufficiale dei carabinieri, Giuseppe De Donno © Imagoeconomica
Il “corvo 2”
Anche la vicenda dell'anonimo noto come “Corvo 2”, secondo Milio, rientrerebbe nella trafila degli “assurdi logici”. Si tratta di quella lettera anonima di otto pagine, indirizzata a 39 destinatari (tra cui lo stesso Paolo Borsellino ed il Capo dello Stato), che venne pubblicata sulle pagine de “La Sicilia”. Una missiva in cui si parlava del reinserimento dei latitanti nella società attraverso la dissociazione, dell’abolizione del 41 bis e del blocco della confisca dei beni alla mafia (elementi che verranno inseriti nel papello). Nello scritto si ripercorrevano anche le tappe della discesa dell'onorevole Andreotti facendo riferimento a personaggi della Dc siciliana come Calogero Mannino e Piersanti Mattarella.
“Per la Procura è attendibile - ha detto il legale - Qui si afferma che Mannino avrebbe incontrato Totò Riina. Ma se così era che bisogno aveva di parlare con Subranni per avere salva la vita? La Procura sostiene anche che Subranni avrebbe tentato di insabbiarlo, ma le indagini andarono avanti anche dopo”. Al di là dell'indagine che continuò con i magistrati Teresi ed Ingroia ci sono alcuni aspetti che vanno ricordati. In primo luogo che quel documento anonimo venne assegnato formalmente a Paolo Borsellino. Quindi, sul tentativo che Subranni avrebbe fatto per stoppare le indagini, ci sono alcuni documenti. Il 3 ottobre, in un biglietto indirizzato all’allora procuratore della Repubblica di Palermo, Pietro Giammanco, con allegato comunicato Ansa del 2 luglio 1992 in merito alla posizione del Ros sull’anonimo “Corvo2”, il generale Antonio Subranni scriveva: “Caro Piero ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull'anonimo delle otto pagine. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti Antonio”. Il comunicato allegato recitava così - Roma 2 luglio: “Sono illazioni ed insinuazioni, affermano dal comando generale dei carabinieri riportando valutazione degli organi operativi che stanno valutando il documento, (Ros e Sco) che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti. Oggi si può responsabilmente affermare che talune situazioni - proseguiva la nota - appaiono talmente assurde e paradossali da evidenziare in modo addirittura puerile con cui si cerca di delegittimare gli esponenti politici siciliani e nazionali nel documento indicato”.
Secondo l'accusa una sorta di “indicazione” all’archiviazione nel tentativo di proteggere Mannino. Ovviamente per Milio un'annotazione priva di effetti.
La questione mafia-appalti e la morte di Borsellino
Ovviamente nella lunga arringa non poteva mancare il “cavallo di battaglia” del rapporto mafia-appalti. Prima però l'avvocato di Mori ha voluto difendere il proprio assistito da quella che a suo parere è “un'accusa morale, ancora più odiosa, che si addebita ai carabinieri: e cioè che l'avvio dei contatti Ros-Ciancimino abbia causato una accelerazione del progetto di attentato ai danni di Borsellino e dunque la sua morte. Io ho il dovere morale di occuparmene. Si afferma che Borsellino abbia scoperto la trattativa, che si sia opposto e per questo sarebbe stato ucciso. La Procura diede una data, il 15 luglio 1992, quando Borsellino parlando con la moglie Agnese disse di avere scoperto che il Generale Subranni era 'punciuto' (affiliato a Cosa Nostra, ndr)”. Per l'avvocato Milio, che difende il generale Mario Mori, “ci sono elementi da cui si desume che la strage era in preparazione da mesi”.
A raccontare alla Procura della frase di Borsellino su Subranni, che è imputato nel processo, è stato anche il magistrato Diego Cavaliero, amico del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio. “Circa dieci anni fa, sei o otto mesi prima del matrimonio di Manfredi (Borsellino, ndr), la signora Agnese utilizzò un'espressione nei confronti del generale Subranni", aveva raccontato l'ex sostituto procuratore di Marsala Cavaliero ai pm in aula. "La signora Agnese - mi disse che poco tempo prima di morire, in un momento di rabbia, il marito le aveva detto che il generale Subranni era punciuto. Mi disse anche che in quella occasione Paolo aveva vomitato dopo essere rientrato a casa”.
Secondo Milio, però, “non ci fu alcuna accelerazione della strage di via d’Amelio. Al di là di una cadenza quasi bimestrale degli attentati - Lima, marzo '92; Capaci, maggio '92; via d'Amelio, luglio '92 - vi sono elementi che portano a dire che la strage di via d'Amelio era in preparazione da mesi. Lo dice Gaspare Spatuzza, secondo cui l'esplosivo era già stato predisposto. E lo afferma anche il pentito Onorato". L'unico che parla di "accelerazione" è stato Giovanni Brusca ma lo fa come "mera ipotesi".
Eppure sono sempre le sentenze che confermano l'esistenza dell'accelerazione che vide Cosa nostra consumare l'attentato a Paolo Borsellino appena 57 giorni dopo la strage di Capaci.
Ed è certo che non fu solo Brusca a riferire in merito.
Il magistrato, Paolo Borsellino, ad una fiaccolata in memoria di Giovanni Falcone e degli uomini della sua scorta © Shobha
Su tutti vale la pena di ricordare proprio Totò Cancemi che raccontava: "Mi ricordo (…) di una riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, (…) che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là, con Riina. E io c’ho sentito dire: La responsabilità è mia. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: Questo ci… ci vuole rovinare a tutti, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino. (…) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (…) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa… questa risposta a qualcuno, questi accordi che lui aveva preso".
E non va dimenticato che anche il capo dei capi, Totò Riina, nelle intercettazioni nel carcere Opera con Lorusso, parla di un qualcuno che disse di fare la strage "subito subito".
Di questo, però, il legale di Mori preferisce non parlare, più impegnato a sminuire ogni tipo di riferimento a figure ibride coinvolte in stragi e delitti, tanto da sminuire i riferimenti alla sigla “falange armata”.
Diversamente ha incentrato la seconda parte dell'arringa nello spiegare quello che sarebbe, a suo dire, "un buon movente per l'accelerazione dell'esecuzione dell'attentato di via D'Amelio” ovvero “l'interessamento del giudice Borsellino per il rapporto mafia e appalti predisposto dal Ros e ritenuto fondamentale per le indagini su mafia-politica e imprenditoria". "Voi credete che Borsellino - ha detto il legale rivolgendosi alla Corte d'Assise d'Appello - volesse fare indagini che non dessero fastidio alla mafia? Lui parlava con tutti di 'mafia e appalti', collegando il rapporto con la strage di Capaci. E perché la deposizione di Antonio Di Pietro, ritenuta superflua e non ammessa in primo grado, qui invece è stata ammessa? Perché vuol dire che questa, come altre prove, le avete ritenute fondamentali per la ricerca della verità anche a costo di fare emergere anche comportamenti poco chiari da parte di alcuni magistrati".
E se da una parte sono state ricordate le parole di Di Pietro al processo su quel colloquio che ebbe con Borsellino nella Camera ardente di Falcone non è stato detto che lo stesso Di Pietro, rispondendo alle domande del Presidente Pellino se con Borsellino avesse ipotizzato una connessione tra le indagini su Mafia e appalti e la strage di Capaci, l'ex senatore ha risposto: "Non ne parlammo in questi termini. Quelli furono momenti brevi e di commiato in cui mi disse delle frasi secche. C'era questa convinzione di rivedersi ed il riferimento era alle indagini di Mani Pulite, gli appalti e le tangenti che interessavano anche la Sicilia". Nel corso dell'udienza Di Pietro specificò più volte che né Falcone né Borsellino gli parlarono direttamente di indagini in corso o del rapporto mafia-appalti.
L'argomento è certamente delicato in quanto i giudici di primo grado, accogliendo la ricostruzione dell'accusa,
individuarono proprio nella trattativa il motivo de "l'improvvisa accelerazione che ebbe l'esecuzione del dottore Borsellino".
La sentenza di Palermo
Va detto che la Corte d'Assise di Palermo, nelle motivazioni della sentenza Stato-mafia, non mette in dubbio l'interesse di Borsellino per il fascicolo.
Si dice però che "tale indagine non era certo l'unica né la principale di cui quest'ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)" scrivono i giudici. Dunque, sul piano logico, i giudici spiegano come non vi è la "certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un'idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell'interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l'esecuzione dell'omicidio".
Diversamente come ricostruito nel corso del processo "l'unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l'organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo - ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci - pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d'Amelio". Secondo i giudici, "non v'è dubbio, che quei contatti unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l'avvicendamento di quel ministro dell'Interno che si era particolarmente speso nell'azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste con cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato".
I giudici di primo grado spiegavano anche che "ove non si volesse prevenire alla conclusione dell'accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla trattativa, conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, in ogni caso non c'è dubbio che quell'invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell'ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d'Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo".
Per Milio, però, la sentenza sarebbe fallace sul punto. “Borsellino - ha detto in aula ricordando anche le acquisizioni documentali nel corso del processo di secondo grado, come le deposizioni al Csm dei magistrati della Procura di Palermo - cinque giorni prima di moire difendeva i carabinieri e chiedeva conto e ragione, ai suoi colleghi in procura, delle lamentele del Ros che si aspettavano ben altro risalto rispetto al rapporto mafia e appalti. Tenete conto che il 14 luglio Paolo Borsellino era a conoscenza dei contatti tra Mori e Ciancimino per averlo appreso da Liliana Ferrara il 28 giugno". Lo ha detto l'avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, nel corso della sua arringa al processo d'appello sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia davanti alla corte d'assise presieduta da Angelo Pellino (Vittorio Anania giudice a latere). "La signora Agnese (moglie di Paolo Borsellino, ndr) ha riferito che suo marito gli riferì che c'era una trattativa che durava da un po' di tempo. Glielo riferì tra fine maggio e la prima metà di giugno. In questa forbice temporale il contatto Ros-Ciancimino era all'inizio. La verità è che la trattativa - ha detto Milio - è una invenzione, una favoletta data in pasto all'opinione pubblica per distrarla da storie poco commendevoli. Mentre Borsellino - ha proseguito Milio - si riferiva ai rapporti tra mafiosi, politici e imprenditori, questi sì che andavano avanti da un po' di tempo”.
Palermo, 20 aprile 2018. Il giudice Alfredo Montalto legge la sentenza di primo grado del processo trattativa Stato-Mafia
Mafia-appalti
Tornando alla vicenda dell'inchiesta mafia-appalti, archiviata dopo la strage di via d’Amelio (il 14 agosto 1992 dopo la richiesta dei pm titolari d'indagine, scritta nel 13 luglio 1992 e inviata al Gip il 22 luglio) vale la pena ricordare che si tratta di una questione particolarmente complessa.
Uno dei titolari di quel fascicolo, Roberto Scarpinato, oggi Procuratore generale a Palermo, ha spiegato in più occasioni come nell'accelerazione "non c'entra assolutamente il dossier mafia-appalti perché quello che è accaduto va molto al di là della storia di appalti regionali. Perché Paolo Borsellino era perfettamente al corrente del fatto che l'inchiesta mafia-appalti era stata temporaneamente archiviata e si aspettava, per riaprirla, l'intervento di altri collaboratori di giustizia. Come poi è avvenuto".
Milio ha poi cercato di evidenziare come non corrisponda alla verità l'esistenza di una doppia informativa partendo dal contenuto dell'ordinanza del 15 marzo 2000 a firma del Gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti. E' vero che in questo documento viene esclusa la teoria della doppia refertazione, tuttavia, però, in essa viene anche accreditata, come ricordato dalla Procura generale in requisitoria “la circostanza che nell'informativa del febbraio 1991, consegnata ai magistrati (nelle mani del dottor Giovanni Falcone, ancora per pochi giorni Procuratore Aggiunto Palermo) non erano riportate risultanze già emerse a carico dei politici Lima, Mannino, Nicolosi e che tali risultanze furono, invece, oggetto di refertazione ai magistrati della Procura della Repubblica di Palermo soltanto nel settembre dell’anno successivo".
Della vicenda mafia-appalti si è parlato a più riprese nel corso del processo di primo grado e non solo.
Piccolo fuori programma, nel corso della sua arringa l’avvocato Milio ha fatto ricorso ad alcuni atti non acquisiti nel corso della discussione. Immediato il rimprovero del presidente Pellino: “Lei sa benissimo che non si dovrebbero neanche citare atti che non sono stati acquisiti nel corso della discussione”. A questo punto Milio ha garantito di riassumerne brevemente solo alcuni citandoli e Pellino dopo brevi consultazioni con il giudice a latere e cenni di incertezza ha lasciato correre concedendo all’illustrazione.
Dunque il legale ha chiesto di acquisire documenti tra i quali spiccano le audizioni dei procuratori Alberto Di Pisa e Antonio Ingroia davanti alla Commissione antimafia, del magistrato Felice Lima, e dell'ex procuratore aggiunto Vittorio Teresi al processo Borsellino quater. Tutti attesterebbero l'interessamento di Borsellino proprio per quelle indagini sui rapporti mafia-appalti.
Quindi l'avvocato del generale Mario Mori ha voluto ricordare la frase detta da Borsellino alla presenza dei suoi colleghi, Alessandra Camassa e Massimo Russo che lavoravano con lui: "Un amico mi ha tradito". "Borsellino non si poteva riferire ai Carabinieri", ha ribadito. Nel verbale di interrogatorio del 14 luglio 2009 Alessandra Camassa, oggi presidente del Tribunale di Marsala, aveva raccontato per la prima volta quell'episodio specificando che lo sfogo di Borsellino era stato susseguente ad alcune domande che lei e il collega Russo gli avevano posto sui pericoli cui si esponeva tra l'altro interessandosi alle indagini relative alla strage di Capaci. E al processo disse in aula: ''Ricordo che il giudice Borsellino si alzò dalla sedia si distese sul divano manifestando stanchezza e avvilimento, iniziò a lacrimare in modo evidente. E ci disse: 'Non posso credere, non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire'. Io e il collega Massimo Russo siamo rimasti sorpresi. Questo pianto all'epoca mi impressionò, non avevo mai visto Borsellino piangere. Paolo era particolarmente turbato in quel periodo. Questo avvenne prima del 4 luglio '92, giorno in cui venne celebrato ufficialmente la cerimonia di saluto a Borsellino che già da qualche tempo era tornato a Palermo lasciando la procura di Marsala. Solo anni dopo capii che quel particolare poteva avere un interesse investigativo ma di questo fatto ne parlammo in più occasioni con mio marito e con lo stesso Massimo Russo''. "L'incontro viene collocato tra l'1 e il 21 giugno 1992 - dice oggi l'avvocato Milio - Se fosse stato il generale Mori o il colonnello De Donno il traditore, o il generale Subranni, Borsellino sarebbe andato il 25 giugno alla caserma Carini dei Carabinieri per proporre di fare le indagini? O il 10 e 11 luglio sarebbe andato in trasferta in elicottero con Subranni, o ancora li avrebbe difesi il 14 luglio 1992, pubblicamente, i traditori?”.
Durante l'arringa in cui più volte si è tornati sull'incontro del 25 giugno 1992 anche citando le dichiarazioni del tenente Carmelo Canale, sono stati omessi quei riferimenti per cui l'incontro presso la caserma Carini non era in tema di mafia-appalti, ma sull'anonimo Corvo 2.
Di questo parlò ai magistrati di Caltanissetta nel maggio 2013 e prima ancora, il 12 novembre, ai pm Giovanni di Leo, Gabriele Paci e all’aggiunto Domenico Gozzo, Canale disse che Borsellino chiese di incontrare, il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo.
La questione Riggio
Infine Milio ha anche aggiunto delle considerazioni sulle vicende affrontate durante l'appello come la questione della restituzione dei telefonini e di un rilevatore di microspie a Giovanni Napoli, o ancora le dichiarazioni di Pietro Riggio. In particolare su quest'ultimo è stato particolarmente tranciante: "In questa storia è cristallino che l'unico che deve essere mandato a giudizio per falsa testimonianza e per calunnia è Pietro Riggio, perché è venuto qua per scherzare e sui morti non si scherza e nemmeno sui 12 anni di galera". L'accusa, lo scorso 31 maggio aveva detto, a questo proposito: "Nel 2000-2001 lo Stato attraverso Riggio è a due passi dal latitante Provenzano. Noi non abbiamo rinvenuto la progressiva evoluzione di questa infiltrazione di Riggio. Anzi - aveva proseguito il pg Fici - viene arrestato per associazione mafiosa, per noi innocente, perché intratteneva rapporti e contatti con soggetti mafiosi in quanto infiltrato. In autonomia i carabinieri del Ros e della Dia decidono di rinunciare alla 'talpa', sacrificandola: una scelta sospetta - ha proseguito - anche in considerazione del trattamento che i carabinieri hanno riservato a Provenzano". In conclusione della propria arringa l'avvocato Milio ha chiesto per l'ex comandante del Ros Mario Mori l'assoluzione perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso. Nella prossima udienza, in programma lunedì prossimo, toccherà all'avvocato Francesco Romito, difensore di Giuseppe De Donno.
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