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I Pg: “Provata l'esistenza di una verità inconfessabile, che è dentro lo Stato. Un'illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra”

“I fatti accertati non possono essere nascosti e taciuti: le verità, anche se scomode, devono essere raccontate”. “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto”. “Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista. La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali. Perché, come ha riconosciuto il presidente della repubblica nel corso della commemorazione del vile eccidio della strage di Capaci del 23 maggio scorso 'o si è contro la mafia o si è complici' non ci sono alternative”.
Sono questi alcuni de passaggi conclusivi della requisitoria dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che oggi hanno chiesto al presidente della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), la conferma delle pesantissime condanne inflitte in primo grado a capimafia, ex ufficiali del Ros e politici. In primo grado, infatti, nella storica sentenza del 20 aprile 2018, la Corte d'Assise presieduta da Alfredo Montalto (a latere Stefania Brambille), aveva inflitto 28 anni al boss Leoluca Bagarella, 12 anni agli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e all'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Quindi fu condannato a 12 anni il boss Antonino Cinà, mentre ad 8 l'ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno. Tutti quanti a processo per violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato (reato previsto dall’articolo 338 del Codice penale).
Imputazione che sul piano tecnico è stata difesa dall'accusa chiedendo il rigetto di tutti i motivi di appello presentati dai difensori degli imputati.
Sempre in primo grado vennero dichiarate prescritte invece le accuse per l'ex boss Giovanni Brusca, in videocollegamento per la prima volta da uomo libero dopo la recente scarcerazione. Tra gli imputati (con l'accusa di falsa testimonianza) vi era anche l’ex ministro Nicola Mancino, assolto “perché il fatto non sussiste”, e Massimo Ciancimino. Quest'ultimo, che con le sue dichiarazioni ha contribuito a far tornare la memoria a tanti smemorati di Stato, ed ha svelato alcuni retroscena su quanto avvenne nella stagione delle stragi, era accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia dell'ex capo della polizia De Gennaro. In primo grado i giudici lo avevano assolto dal primo capo di imputazione “perché il fatto non sussiste” e condannato ad 8 anni per il secondo. In appello, però, la Corte ha dato ragione ai due legali che avevano chiesto il "non doversi procedere" per intervenuta prescrizione già prima della pronuncia della sentenza del 2018.


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I fratelli Filippo e Giuseppe Graviano


Quelle menti raffinatissime della trattativa
Se nelle scorse udienze la discussione si era incentrata in particolare sulle vicende della detenzione di Riina, del “metodo Ros” e del sequestro di tre telefonini e di un rilevatore di microspie, nel 1998, a Giovanni Napoli, ritenuto fedelissimo dello storico padrino di Corleone Bernardo Provenzano della collaborazione di Pietro Riggio e la sentenza Mannino, oggi Fici e Barbiera hanno voluto mettere in evidenza la posizione del generale Antonio Subranni, la questione della doppia informativa del rapporto del Ros mafia-appalti e la responsabilità di Marcello Dell'Utri.
Nella lunga requisitoria, dunque, un accento è stato posto dal Pg Fici su quelle “menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa”, ovvero quelle che “consentono a Riina di dire che lo Stato 'si è fatto sotto'. Ma questo induce ulteriore violenza. Poi una volta arrestati Riina e i fratelli Graviano (le stesse menti raffinatissime, ndr) garantiscono una latitanza protetta per lo 'zio', Bernardo Provenzano. Nel frattempo nasce Forza Italia. Ma i fatti rimasti accertati non possono essere nascosti e taciuti: le verità, anche scomode, devono essere raccontate".
Nella ricostruzione dell'accusa "un ruolo decisivo in questa situazione di convivenza gattopardesca lo ha avuto anche Marcello Dell'Utri, che nella fase di elaborazione di un progetto di un nuovo soggetto politico, e poi nella fase elettorale – 1993-1994 – ha curato la tessitura di relazioni e poi la propaganda con cosa nostra e 'Ndrangheta alle quali ha dovuto fare promesse, poi tramutatesi in richieste veicolate al presidente del Consiglio”.
“Se è vero, come ha sostenuto la difesa, che Dell’Utri non ha veicolato alcuna richiesta dei mafiosi all’amico Berlusconi divenuto premier, perché questi non è venuto a riferirlo a questa Corte? - si sono chiesti i Pg - Tutto questo a fronte di prove che documentano oltre ogni ragionevole dubbio che Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ha sostituito Salvo Lima come uomo di confine tra uomini di cosa nostra e lo Stato, possiamo concludere, anche in ragione del silenzio di Berlusconi (che conferma il compendio contenuto nella sentenza di primo grado) che effettivamente Dell’Utri ha trasmesso le minacciose richieste del popolo della criminalità organizzata”.
Dunque è stato ribadito come lo stesso Berlusconi, chiamato a testimoniare sull'argomento, si è avvalso della facoltà di non rispondere. “Un comportamento legittimo – ha poi immediatamente ribadito – ma per un verso ha lasciato perplessi: perché da un ex presidente del Consiglio ci si poteva attendere qualcosa di diverso… Comportamento legittimo con il quale è stato delegato ogni sostegno processuale all’amico di un tempo, Marcello Dell’Utri.


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L'onorevole Calogero Mannino © Imagoeconomica



La visione complessiva dei fatti
Nelle conclusioni Fici ha ribadito la necessità che nella ricostruzione della storia vi sia una visione complessiva dei fatti. “Non è mera suggestione. Anzi – ha affermato l’accusa – è un doveroso ed utilissimo strumento per leggere gli accadimenti, cogliendone il senso, il collegamento e la continuità. E soprattutto a disvelare l’animus che ha guidato le condotte dei protagonisti con le loro missioni e del loro agire doloso”.
In particolare sono stati ricordati gli eventi della mancata perquisizione del covo di Riina (“Una ferita ancora sanguinante”), del mancato blitz a Mezzojuso e quindi i fatti di Terme Vigliatore (con la fuga del boss Nitto Santapaola), prima di arrivare al fulcro del processo con la trattativa Stato-mafia.
“C’è stata una trattativa con il vertice di cosa nostra avviata da uomini dello stato – ha ribadito Fici – gli imputati Mori, Subranni e De Donno. Che si sono fatti carico, autorizzati da chi non è dato comprendere, di ricercare una intesa con il contro potere criminale. La sentenza ci racconta che questa trattativa, una volta avviata, ha innestato dinamiche di ulteriore violenza e prevaricazione alla quale sono scampati coloro che erano individuati come politici traditori, primo fra questi Calogero Mannino, per il quale è stato sospeso l’ordine di essere ucciso”.
E poi ancora: “Erano i giorni in cui Riina diceva compiaciuto ai suoi sottoposti che ‘quelli dello Stato si erano fatti sotto’. E a cui lui aveva fatto un papello di richieste”. Poi 'trattativisti' sul fronte dello Stato avevano individuato e puntato sull’ala moderata e non stragista di cosa nostra. “E così mentre Riina, Brusca, Bagarella e i fratelli Graviano vengono catturati allo ‘zio’ Bernardo Provenzano viene assicurata una latitanza protetta e protratta per altri lunghi anni”. "Lo ‘zio’ ha governato con i 'pizzini' e la strategia della sommersione mentre la latitanza di Matteo Messina Denaro è ancora attuale. Contestualmente alla transizione da Riina a Provenzano le stesse menti raffinatissime – ha aggiunto il Pg – che stavano nell’ombra, muovendo le fila dei loro pupi, hanno individuato i nuovi referenti politici sul fronte istituzionale. E così è nata Forza Italia, che ha avuto successo e ha governato il paese con l’entusiastica adesione di milioni di cittadini in assoluta buonafede e ai quali in questa sede non si vuole mancare di rispetto”.


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Salvo Lima e Vito Ciancimino © Shobha


Il dossier mafia-appalti
Nella giornata di oggi, replicando ai motivi di appello dei rappresentanti dell'Arma, si è parlato molto dell'intricata vicenda del dossier mafia-appalti. Uno dei “cavalli di battaglia” nella difesa degli ex Ros. In particolare il pg Fici ha messo in evidenza le contraddizioni della sentenza d'appello Mannino (divenuta definitiva, ndr) nel momento in cui i giudici di secondo grado hanno parlato dell'inesistenza di una doppia refertazione. La verità è ben diversa: "Tra il 1991 ed il 1992 vi furono due dossier su mafia e appalti. Nella prima informativa erano stati omessi i nomi dei politici, potenti, dall'allora ministro Calogero Mannino e Salvo Lima" che poi sono apparsi solo un anno e mezzo dopo. La prima fu presentata dai Ros "il 20 febbraio del 1991 a Giovanni Falcone". La seconda, "questa volta con i nomi dei politici, 19 mesi dopo, il 5 settembre del 1992". "Nell’informativa 'mafia-appalti', consegnata nelle mani di Falcone il 20 febbraio 1991, non erano inseriti i nomi dei cosiddetti politici di peso. Tra questi quello di Calogero Mannino, ma neppure di Salvo Lima (che poi venne ucciso nel marzo del 1992, ndr). Tutto questo anche se dalle intercettazioni risultassero significativi elementi a carico degli stessi". "Il nome dei politici compare il 5 settembre 1992, dopo le stragi mafiose di quell'anno – ha spiegato ancora il Pg – con i nomi di Mannino, Lima e Rino Nicolosi. Ma solo dopo che era esploso l'interesse dell'opinione pubblica sulla vicenda". "Solo a seguire il nome di Mannino venne iscritto nel registro degli indagati”. Nel frattempo, però, “il coinvolgimento di politici era stato oggetto di fughe di notizie già nella primavera 1991 e nell'estate 1992".
Il riferimento alla questione, ha ribadito più volte Fici, non vuole essere quello “di riscrivere un giudicato assolutorio" nei confronti dell'ex ministro della Dc, "né arrivare a una 'ossessione persecutoria', come è stato scritto in modo offensivo", ma vi è la necessità di ricostruire in maniera corretta una vicenda che nel giudizio di primo grado non viene ritenuta credibile come tesi per spiegare l'accelerazione della strage di Borsellino.
“Tale indagine – era scritto nelle motivazioni della sentenza della Corte d'Assise – non era certo l'unica né la principale di cui quest'ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)" scrivono i giudici. Dunque, sul piano logico, i giudici spiegavano come non vi è la "certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un'idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell'interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l'esecuzione dell'omicidio".


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Il generale Antonio Subranni © Ansa


Il ruolo di Subranni
Nella requisitoria, tra le prove sopravvenute passate in rassegna, si è parlato anche dell'archiviazione per prescrizione dell'indagine, con l'accusa di favoreggiamento, nei confronti del generale dei carabinieri oggi in pensione, Antonio Subranni rispetto al depistaggio delle indagini sul delitto di Peppino Impastato, militante di Dp assassinato a Cinisi il 9 maggio 1978.
In particolare è stato ricordato come il Gip di Palermo evidenziò "un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative" così come è messa nero su bianco la considerazione per cui Subranni "aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa".
“Di questo ufficiale dell'arma dei carabinieri è importante conoscere il profilo professionale – ha aggiunto il Pg – nella sentenza di primo grado si ricordano i rapporti remoti nel tempo dello stesso con i noti esattori mafiosi di Salemi, Ignazio e Nino Salvo, e del particolare rapporto privilegiato che lo stesso aveva, di conoscenza e cordialità, con Vito Ciancimino anche in epoca successiva al disvelamento al grande pubblico dello spessore criminale del soggetto in quesitone. Un rapporto intenso che ebbe anche con l'ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, anche in epoca successiva al processo a proprio carico”.
Questi argomenti, ha sostenuto l'accusa, si aggiungono alle dichiarazioni di Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino, la quale ai magistrati aveva raccontato come il marito, prima di essere ammazzato, le disse di aver saputo che Subranni era “punciutu”.
Parole che restano scolpite nella pietra. Ma cosa disse ai pm nisseni che la interrogarono? Vale la pena ricordarlo: “Il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”.
Un'altra questione che le difese hanno sempre contestato è la ricostruzione dell'avvicendamento che si è consumato ai vertici del Dap con la sostituzione di Amato con Capriotti. Una vicenda che, secondo i Pg, trova un'importante ricostruzione grazie alle “agende dell'ex Presidente Ciampi, ma che vengono totalmente ignorate dai difensori”.

La credibilità dei collaboratori di giustizia
Nella parte della requisitoria del Pg Barbiera un punto è stato fatto anche sui collaboratori di giustizia, spesso accusati di una “progressione accusatoria” su determinati argomenti, che troverebbe una sorta di giustificazione nel timore “di aprirsi nella sua integralità con l’interlocutore inquirente, magistrato o investigatore che sia, che è sempre espressione delle istituzioni democratiche costituite, facenti parte dello stesso Stato le cui schegge impazzite hanno intrapreso un'interlocuzione penalmente censurabile”.


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6 luglio 1992. Paolo Borsellino insieme alla moglie Agnese Piraino Leto, sulla destra


Le conclusioni
Nelle sue conclusioni Fici, prima di chiedere la conferma delle condanne di primo grado, ha ribadito come “centinaia di prove dichiarative, documentali e logiche, esaminate congiuntamente, restituiscono al popolo italiano un complesso ma intelligibile mosaico”. Ai fatti più eclatanti già ricordati in precedenza il Pg ha anche aggiunto altri fatti che “raccontano una storia, arricchita in questo giudizio d’appello, oltre che dalla suggestione della cattura in Piemonte di Balduccio Di Maggio come qualcosa di costruito dai carabinieri del generale Delfino, anche dall’inquietante sollecitazione rivolta al boss Vincenzo Milazzo da parte di esponenti di servizi segreti per una sua piena partecipazione alla strategia stragista. Una vicenda conclusasi, a causa del riluttante atteggiamento del capomafia di Alcamo, con la sua uccisione ed il barbaro strangolamento della giovane ragazza Antonella Bonomo, nonostante il suo stato di gravidanza, per evitare il rischio che la stessa potesse riferire agli inquirenti eventuali confidenze del suo uomo”. Una storia, ha proseguito Fici “rimasta arricchita altresì dal rinvenimento di tre telefoni cellulari e di un rilevatore di microspie ad un fedelissimo di Provenzano, Giovanni Napoli, poi restituiti alla moglie di quest'ultimo. Ed ancora dalla incredibile vicenda umana di Pietro Riggio, messosi a disposizione della Dia per catturare Provenzano e poi ricompensato con una denuncia dai carabinieri del Ros per associazione mafiosa con successive condanne ad oltre 10 anni di carcere. Una Storia che non riesce a leggere soltanto chi non sa leggere o chi non vuole. Una storia che però è soltanto un capitolo di una storia più complessa che è quella dei misteri della nostra Repubblica”.
Al contempo Fici ha chiesto alla Corte di valutare “se riterrà di condividere l’assunto che alcune questioni debbono essere oggetto di approfondimento e così disporre la trasmissione degli atti all’ufficio del pm. Ci si riferisce alla vicenda della doppia gravidanza delle compagne dei fratelli Graviano; a ciò che avvenne al carcere di San Vittore con riferimento agli esposti di Giuseppe e Filippo Graviano, alla false informative del Sisde al capo della polizia Parisi; alla restituzione dei telefoni cellulari e del rilevatore di microspie satellitari alla moglie di Giovanni Napoli; al mancato rinvenimento della documentazione relativa alla gestione del confidente Pietro Riggio nei primi 18 mesi, all’anomala gestione di questo rapporto confidenziale; alla denuncia di Riggio per reato di associazione mafiosa quando era perfettamente noto all'organo di polizia giudiziaria che era un infiltrato”.
Il processo è stato infine rinviato al 14 giugno. Sempre nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli, parleranno le parti civili e l’avvocato Luca Cianferoni che difende l’imputato Leoluca Bagarella. Il 21 giugno toccherà agli avvocati Di Benedetto e Folli, difensori dell’imputato Antonino Cinà. Francesco Romito e Basilio Milio, difensori degli imputati Giuseppe De Donno e Mario Mori, parleranno il 28 giugno e il 5 luglio mentre il 12 luglio toccherà alla difesa del generale Antonio Subranni. Infine – il 14 e il 20 luglio – è in programma l’arringa del collegio difensivo di Marcello Dell’Utri.

In foto di copertina: Marcello Dell'Utri, a sinistra, e Mario Mori

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