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di Aaron Pettinari
Prosegue la relazione della Corte d'Assise d'Appello sulla sentenza di primo grado

"Faccio presente e preciso che quando faccio riferimento alla Corte intendo alludere alla Corte d'assise di primo grado non a questa Corte. E lo stesso vale per valutazioni e conclusioni". Con queste parole il Presidente della Corte d'assise d'appello, Angelo Pellino, ha aperto l'udienza di lunedì al processo trattativa Stato-mafia. Una premessa necessaria per evitare il ripetersi di quanto avvenuto appena una settimana prima con gli organi di informazione che avevano attribuito a questa Corte giudizi su elementi processuali che dovranno essere nuovamente valutati mentre si sta semplicemente effettuando la rilettura delle cinquemila pagine delle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado.
La ricognizione è ripartita dall'analisi dei documenti raccolti nell'estate del 1993 a cominciare dalla relazione di 24 pagine della Dia, datata 10 agosto 1993, dove si informava il ministero dell'Interno Nicola Mancino di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. In quel documento per la prima volta veniva utilizzato proprio il termine “trattativa” per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi e ciò avveniva a pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano. In particolare si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. Inoltre gli analisti della Dia nella nota aggiungevano: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.

Le note Sco
Altri documenti ritenuti importanti sono una nota riservata dello Sco, firmata da Antonio Manganelli, inviata nel giugno 1993 al servizio centrale di Polizia criminale e successivamente trasmessa alla Dia, ed una successiva nota che fu inviata anche alla Commissione parlamentare antimafia. Nella prima si parla della creazione di una spaccatura all'interno di Cosa nostra “tra un'area moderata ed una più sanguinaria”, dell'esistenza di una “fonte fiduciaria”, e si offre l'indicazione di un “interesse a creare il panico forse per costringere le istituzioni a trattare con Riina dopo l'ennesima autobomba”. Nella seconda, addirittura, si paventa la possibilità che dopo l’attentato a Costanzo "i successivi attentati non avrebbero dovuto realizzare stragi - così scrivevano gli investigatori dello Sco capitanati al tempo da Nicola Simone, con Antonio Manganelli e Alessandro Pansa come bracci destri - ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una 'trattativa', per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali".
Per ricostruire come si arrivò alla redazione di quei documenti sono state ricordate le testimonianze dell'ex capo della Dia Gianni De Gennaro  e del consulente Pino Arlacchi. Al di là delle incongruenze tra le due testimonianze ciò che appare evidente ai giudici di primo grado è che "agli analisti era chiara la finalità di Cosa Nostra di attivarsi per riattivare una trattativa per attenuare il rigore carcerario e per ottenere benefici per i propri associati detenuti. Inoltre era chiara la necessità di mantenere la linea della fermezza, già intrapresa dopo la strage di Capaci e mai più abbandonata dopo di allora, proprio a iniziare dal regime del 41 bis perché qualsiasi passo indietro nella sua applicazione sarebbe stato letto inevitabilmente come un segnale di cedimento dello Stato". E secondo la Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto è anche ipotizzabile che gli analisti avessero avuto in qualche modo "sentore degli accadimenti dell'anno precedente, ovvero dei contatti tra Riina e Vito Ciancimino, altrimenti non si spiegherebbe il riferimento nella nota di Manganelli in cui si parla della finalità a trattare con Riina quando questi era già stato tratto in arresto".
Dopo aver ricordato le testimonianze dell'ex Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi e quella dell'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano è stato affrontato il lungo capitolo dedicato alla mancata proroga del regime di carcere duro, nel novembre 1993, nei confronti di esponenti della criminalità organizzata e, contestualmente, i rapporti tra l'imputato Mario Mori e Francesco Di Maggio e la posizione dell'allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, che adottò quella decisione di non prorogare i 41 bis.


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Mario Mori © Imagoeconomica


La mancata proroga dei 41 bis
"La Corte d'assise di primo grado - ha detto Pellino, proseguendo la relazione introduttiva - ritiene innegabile che la decisione di non prorogare il regime di carcere duro da parte del ministro Conso sia stato un segnale, una inversione di tendenza rispetto a quella di conferma dello stesso regime, adottata nel luglio dello stesso anno da Conso. E' stato lo stesso Conso, ritiene la Corte d'assise di primo grado - ha proseguito Pellino nella relazione introduttiva - sentito come teste nel 2010, che ha negato, escludendo qualunque tipo di trattativa e di non essere a conoscenza dei contatti tra Mori-De Donno e Vito Ciancimino". "Una mancata proroga - ritiene la Corte d'assise di primo grado - che Conso dice di avere preso in totale autonomia, disattendo anche le indicazioni provenienti dal Dap, coltivando una 'speranziella', ovvero che l'attenuazione del clima carcerario potesse essere un segnale per cosa nostra al fine della "cessazione della strategia stragista".
In particolare Conso, di fronte alla Commissione parlamentare antimafia, disse di aver appreso della spaccatura tra Riina e Provenzano, con quest'ultimo che avrebbe avviato una strategia differente, non stragista e più interessato agli affari. Una contrapposizione che in quel momento non era ancora nota laddove c'era anche chi ipotizzava che Bernardo Provenzano fosse deceduto. "Secondo la Corte di assise di primo grado - ha proseguito Pellino - non vi può essere alcun dubbio che la minaccia perpetrata da Riina fu percepita dal ministro Conso e che la sua decisione sulla mancata proroga (del carcere duro, ndr) - presa in totale autonomia ma in base anche a informazioni riservate avute da Mori e Di Maggio - fosse volta a lanciare 'un segnale'".
Tra le "anomalie" evidenziate dai giudici di primo grado vi è la "tardiva" richiesta di informazioni alla Procura di Palermo sui soggetti a cui stavano per scadere i decreti del carcere duro. Soggetti di peso come Antonino ("Nenè") Geraci e Giuseppe Farinella, rispettivamente a capo dei "mandamenti" di Partinico e San Mauro Castelverde che estendevano la propria "competenza" su gran parte del territorio della Provincia di Palermo, nonché Giovanni Prestifilippo, importante esponente della "famiglia" mafiosa di Ciaculli. "La Corte ritiene quell'inoltro della richiesta di parere nell'imminenza della scadenza - ha proseguito Pellino nella relazione - sottintendeva già una ben chiara intenzione del ministro di non prorogare in blocco quei decreti, così come poi avvenne, e la tardiva richiesta serviva soltanto per mettere a posto le carte acquisendo il parere degli uffici interessati ma nel contempo impedendo di fatto agli stessi uffici di potere fornire elementi che avrebbero potuto ostacolare o avrebbero comunque reso più difficoltosa l'attuazione di quell'intendimento".

Speranza tradita, gli attentati del 1994
La ricognizione della sentenza di primo grado è proseguita poi con l'analisi dei fatti avvenuti nel 1994 a cominciare dagli attentati commessi in Calabria contro i carabinieri, commessi tra il dicembre '93 ed il gennaio-febbraio 1994, ed il fallito attentato all'Olimpico di Roma, che di fatto tradiscono quella speranza di Conso di attenuare la strategia stragista. "Così come era accaduto dopo la strage di Capaci - ha proseguito il Presidente della Corte nella lettura - quando Riina si convince ad imprimere un'accelerazione per uccidere Borsellino, nella convinzione che un secondo micidiale colpo avrebbe potuto ridurre lo Stato in ginocchio e portare quindi a un cedimento definitivo alle sue pretese, così la storia si replica dopo la mancata proroga dei decreti applicativi del 41 bis".
Rispetto agli attentati commessi in Calabria i giudici di primo grado hanno evidenziato come quell'operato si inseriva nella strategia stragista che stava portando avanti Cosa nostra. "Non può dubitarsi - scrivevano i giudici - invece, dell'interesse comune degli 'ndranghetisti calabresi nell'ottenimento di benefici carcerari di cui si sarebbero avvantaggiati anche i detenuti di quell'organizzazione criminale". Inoltre quei delitti venivano inquadrati "in un'unica strategia e mandare a chi poteva comprendere quel messaggio che la strategia ideata in Sicilia dai 'corleonesi' intendeva, appunto, inviare, per riallacciare la 'trattativa' di fatto interrotta dopo l'arresto di Vito Ciancimino e di Salvatore Riina e, quindi, sfruttando il segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis, per piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi. Quegli attentati mirati ai carabinieri, secondo la Corte, sarebbero stato un messaggio preciso ai carabinieri in quanto i carabinieri erano stati protagonisti della fase di dialogo precedente e loro potevano cogliere quel segnale".
E sempre i carabinieri erano "l'obiettivo" preso di mira nell'attentato all'Olimpico che, se avesse avuto luogo, secondo la Corte d'assise avrebbe "messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente". Sul fallito attentato, in particolare, sono state passate in rassegna le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza. In particolare l'ex boss di Brancaccio ha offerto una chiara ricostruzione rispetto le responsabilità nelle stragi della famiglia che vedeva al vertice i fratelli Graviano. Inoltre ha riferito degli incontri avuti con Giuseppe Graviano tra la fine del 1993 e il gennaio 1994, compreso quello al Bar Doney di Roma in cui il capomafia di Brancaccio avrebbe fatto i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri come i soggetti grazie a cui si erano "messi il Paese nelle mani".
Pellino ha anche ricordato il lungo riferimento che la sentenza fa rispetto l'informativa della Direzione Investigativa Antimafia sottoscritta, in data 4 marzo 1994, dal Capo Reparto Investigazioni Giudiziarie Dott. Pippo Micalizio.
Un documento in cui "vi è un'ampia ricostruzione delle indagini svolte sulle stragi negli anni '92 e '93, e sui collegamenti dell'organizzazione mafiosa Cosa Nostra con altre organizzazioni criminali sia di stampo mafioso sia di stampo terroristico". Nella nota si parla anche della Falange Armata, sigla utilizzata per rivendicare le stragi. Pellino, pur ricordando che la sentenza vi dedica un intero capitolo, ha comunque sottolineato "che questa vicenda non ha avuto un particolare peso nell'economia della decisione".


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Vito Ciancimino © Letizia Battaglia


La vicenda di Mezzojuso
Particolarmente rapida la rilettura dei fatti inerenti il mancato blitz a Mezzojuso, nel 1995, nel casolare dove si trovava Bernardo Provenzano. Sempre facendo riferimento alla sentenza di primo grado rispetto al "profilo di contestazione verso Mori, Subranni e De Donno, ovvero quello di aver concorso al reato di minaccia a corpo politico dello Stato assicurando altresì il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo, principale referente mafioso di tale trattativa" Pellino ha ricordato come lo stesso si fonderebbe in particolare su due prospetti. Il primo è la ricostruzione di Massimo Ciancimino sul dialogo tra Vito Ciancimino e Provenzano, che i giudici di primo grado liquidano "come frutto di fantasiose sovrastrutture artatamente create da quel dichiarante su un limitato nucleo di fatti veri effettivamente dallo stesso conosciuto". Il secondo è il fatto di favoreggiamento che è stato oggetto di un separato processo a carico dello stesso Mori e del maggiore Obinu, definito con sentenza irrevocabile di assoluzione per entrambi gli imputati con la formula "perché il fatto non costituisce reato".
"Il punto è che questo episodio - ha detto Pellino - è temporalmente successivo pure alla seconda fase della condotta di minacce per cui qui si procede, cioè quella nei confronti del governo presieduto dal Silvio Berlusconi. Più precisamente si tratta della mancata cattura di Bernardo Provenzano verificatasi a Mezzoiuso in data 31 ottobre 1995 e dei successivi sviluppi con riferimento più in generale alla vicenda della collaborazione della fonte confidenziale denominata 'Oriente' successivamente identificata in Luigi Ilardo, assassinato il 10 maggio 1996 alla vigilia dell'inizio della sua collaborazione con l'autorità giudiziaria, vicenda che è stata a lungo ricostruita e ripercorsa con la testimonianza del tenente colonnello Riccio. L'istruzione dibattimentale ha consentito di rivisitare criticamente l'esito del processo già definito grazie all'esame di innumerevoli fonti testimoniali di un'imponente messa di documenti. Pur dovendo ovviamente la corte prendere atto della inerente ineludibilità di quel giudicato per ciò che concerne in particolare, ma non solo, la posizione del generale Mori, e quindi se ne può fare solo un cenno sommario perché la vicenda ha un'incidenza molto limitata ai fini del giudizio di appello. Questo già sulla base diciamo della ricostruzione della lettura offerta dalla sentenza qui impugnata. E ciò per una ragione molto semplice perché per i fatti successivi al 1993 Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti per non aver commesso il fatto. Quindi, da questo punto di vista, è una vicenda che, per ragioni anche di economia, rimando alla sentenza, anche riguardo le motivazioni approfondite in cui si argomenta l'insussistenza di qualunque profilo di 'ne bis in idem'". Per la stessa ragione la Corte ha anche saltato l'episodio che riguarda la mancata cattura di Benedetto Santapaola nell'aprile del 1993.

La minaccia al Governo Berlusconi
Successivamente si è proceduto con la lettura della parte della sentenza che riguarda la "rinnovazione del reato di minaccia" nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi. Secondo la prospettazione dell'accusa questa avrebbe avuto già un prologo nel 1992, addirittura dopo l'uccisione di Salvo Lima, quando l'imputato Marcello Dell'Utri si sarebbe offerto alle cosche mafiose come nuovo interlocutore in sostituzione del Lima e la sentenza ha tenuto conto del giudizio irrevocabile per il reato di concorso esterno nei confronti dell'ex senatore, per poi verificare se si siano attuati i reati contestati in questo ulteriore processo. "La sentenza di primo grado reputa che i fatti accertati all'esito del processo per concorso esterno nei confronti di Marcello Dell'Utri, come illustrati, possono ritenersi provati anche nel presente processo - ha spiegato Pellino - questo alla stregua di una valutazione che può essere fatta alla luce di altri elementi di prova che son stati direttamente acquisiti in questa sede. Questi fatti, per quello che rileva questo giudizio, possono individuarsi anzitutto nel risalente rapporto di Marcello Dell'Utri con esponenti di un'associazione mafiosa e nella intermediazione dallo stesso operata tra l'organizzazione mafiosa nella sua più alta rappresentanza, prima Stefano Bontade e poi Salvatore Riina da un lato e Silvio Berlusconi dall'altro. Ciò per quasi un ventennio durante il quale l'associazione mafiosa Cosa Nostra ha potuto così lucrare cospicui vantaggi economici sia come proventi di un'attività di carattere tipicamente estorsiva posta in essere nei confronti del medesimo Berlusconi, sia per l'effetto di investimenti congiunti. Tali fatti sono stati ribaditi da molti dichiaranti e, dice la corte, rafforzati in questo processo dall'esito dell'istruzione dibattimentale". Dopo aver passato in rassegna le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come Brusca, il quale aveva riferito che dopo l'arresto di Riina, d'accordo con Bagarella, aveva chiesto a Mangano di contattare Dell'Utri e Berlusconi, Giuffrè, Avola, Di Carlo, Monticciolo e Vara, molti dei quali hanno riferito anche delle direttive, in Cosa nostra, di votare Forza Italia nel 1994.
Il processo è stato rinviato al prossimo 17 giugno quando, verosimilmente, la Corte concluderà la ricognizione della sentenza di primo grado per poi passare all'esposizione dei motivi d'appello.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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